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Canti dell’anima per l’uomo nascente

in AA.VV. Verso l’essenziale – L’anima e i suoi discorsi
Edizioni Paoline 2005

CANTI DELL’ANIMA PER L’UOMO NASCENTE

 

 

 

 

L’ascolto dell’anima come rivolgimento interiore

 

  1. In questo scritto mi propongo di offrire al lettore la possibilità di ascoltare alcuni canti dell’anima, in particolare quei canti che la nostra anima lascia risuonare dentro di sé, spesso del tutto inascoltata, appunto per l’uomo nascente, e cioè ispirata dallo Spirito della figura di umanità che le sta nascendo dentro.

Non vorrei in altri termini fare io un determinato discorso sull’anima, mettendo così il mio io ordinario, guidato dalle percezioni sensoriali e dalle conseguenti elaborazioni concettuali operate dalla ragione, al centro del mio dire. Non vorrei tanto proporvi ciò che io so dell’anima. Desidererei piuttosto che questo nostro io, ancora così tanto ego-centrico e presuntuoso, nonostante Freud e Heidegger e tutto il 900, abbandonasse almeno per un certo tempo e in una certa misura la sua convinzione di essere il perno di tutta la realtà e la fonte di ogni nostra conoscenza, e si ponesse più umilmente all’ascolto di ciò che emerge da dimensioni più profonde ed oscure del nostro essere, da quell’area sconfinata che chiamiamo Anima.

Questo piccolo spostamento richiede in realtà un profondo rovesciamento interiore, una rivoluzione dello sguardo che possiede qualcosa di quel rivolgimento della mente che, in termini cristiani, denominiamo meta-noia. Porre il nostro io in ascolto vuol dire infatti già polarizzare la nostra attenzione in una direzione ben diversa rispetto agli interessi più immediati del nostro quotidiano commercio col mondo: convertirla appunto verso gli spazi abissali da cui proviene e si forma ciò che noi sperimentiamo poi come il nostro io. Questa conversione dell’ascolto, questa ripolarizzazione dell’attenzione implica perciò una sorta di cambio di frequenza del pensiero: siamo chiamati ad entrare in risonanza con quelle profondità dell’anima che non ci parlano mai per mezzo di idee chiare e distinte, secondo lo stile linguistico su cui si fonda il nostro io cartesiano, bensì attraverso immagini e analogie, e spesso per mezzo di immagini oscure, che alludono, evocano, ispirano, piuttosto che chiarire in concetti ben definiti.

Forse la nostra anima, ad esempio, se la ascoltassimo attentamente,  potrebbe dire proprio in questo momento:

 

Sto come una patata nella terra

A rimpolparmi. Non mi curo

Dei passi in superficie.

Io sto sotto.

                   Ogni tanto

Occhieggio un fiore, spunto,

Ma il mio peso specifico sta sotto:

Sono la pepita

D’oro, la seppellita.[1]

 

Vorrei proporvi dunque, come dicevo all’inizio, non tanto un mio discorso sull’anima, quanto piuttosto un esercizio di ascolto dell’anima, e quindi una sorta di meditazione psico-logica, nel senso però che James Hillman darebbe alla parola, e cioè una meditazione in cui si tenti di ridestare e riascoltare proprio il logos dell’anima, la sua parola: una riflessione meditativa che smuova perciò le nostre profondità emotive, non ci lasci lì dove ci troviamo, ma ci sposti, ci dislochi possibilmente fino a contattare il cuore, il fondo più abissale di noi stessi. Questo tipo di meditazione è per sua natura molto lenta, è fatta di ripassi, di ritorni sugli stessi punti oscuri: le immagini più saporose infatti vanno assimilate lenta-mente, mangiate con gusto e digerite assorbendone tutto il sapore, solo così si fanno carne sapida della nostra carne, e quindi dilatano per davvero la nostra conoscenza incarnata, guidandola verso l’autentica sapienza.

 

 

  1. Che cosa dice, dunque, che cosa pensa, che cosa sente la nostra anima, la sostanza misteriosa del nostro essere, sotto le varie maschere di sicurezza e di competenza che mostriamo nella nostra vita pubblica? Che cosa sussurra e grida la nostra anima adesso? – perché spesso proprio così si esprime l’anima, con sussurri e grida, come Ingmar Bergman ci ha insegnato -. Che cosa sussurra e grida dunque la nostra anima personale e insieme collettiva sotto tutti i discorsi politici, economici, tecnici, sotto tutti gli spot pubblicitari che invadono e martellano ogni giorno le nostre menti? Sotto il carnevale, il vaniloquio, l’avanspettacolo, la volgarità, l’orrore e la noia dominanti e teletrasmessi? Sotto tutto il rumore del mondo e la rissa fragorosa delle sue lingue tutte biforcute? Come vede l’anima dalle sue profondità questo nostro momento al contempo biografico e storico-planetario, questa fase che tutti dicono cruciale e di svolta, ma che ben pochi sanno poi interpretare nei suoi segni e nelle sue direzioni, nei suoi ultimatum e nelle sue straordinarie e inedite opportunità?

 

C’è un tempo dell’anno in cui la vita

Sembra fermarsi.

La radice contorta geme

D’un albero tutto sfiorito.

La foglia è morta. Il verde è nero.

Un gelo

Assidera le spoglie

Paralizzate, come un fuoco

Interno che consuma

Il bosco. Ma non rincuora.

 

Agli inizi di dicembre il Sole cade

A precipizio. Una voragine

E’ il giorno del solstizio:

Una cascata fino a natale.

 

Imperterrito continua a sperare

Il buon cantore. La sua mente

Allucinata è l’al di là: quest’acero

Fiorente e senza storia

Che a dicembre o a maggio

Cresce lo stesso.

Canta

ragazzo in te

L’alba dell’increato”.[2]

 

E’ importante mantenere, quando ascoltiamo le parole dell’anima, un’attenzione rivolta contemporaneamente alla nostra situazione biografica personale e al piano storico-collettivo. Riusciamo dunque a percepire che su entrambi questi livelli qualcosa sta andando irrimediabilmente a finire? in una sorta di paralisi universale progressiva e irrimediabile? e riusciamo a sentire al contempo che qualcos’altro in noi continua, nonostante l’inverno e i suoi ghiacci, a crescere e a sperare? Riusciamo a sintonizzarci con il canto di ciò che sta per nascere in noi, di ciò che non è creato, perché è l’Alba, il Principio di ogni creazione, ma che si prepara tuttavia ad entrare in scena? Riusciamo ad ascoltare quest’altra voce che parla in noi, al fondo stesso dell’anima, con parole di speranza e di apertura, sussurrandoci all’orecchio del cuore che questa notte in realtà è la vigilia del (nostro) santo natale?

 

 

  1. Dal profondo di sé l’anima canta, non controlla cioè il suo discorso, non cerca ragioni sufficienti o spiegazioni plausibili, piuttosto dà sfogo a tutto il proprio desiderio, e crede in ciò che desidera, in ciò che la infiamma: lo vede addirittura, lo canta, e lo ama. L’anima, a differenza del nostro io autoriflesso, è ben consapevole di non produrre autonoma-mente il proprio pensiero. L’anima sa che il vero pensiero ci viene sempre ispirato, viene dal nostro più intimo fuori, da un Vento che è l’anima stessa della nostra anima, il suo intimissimo Animatore, quel Respiro, quello Spirito sottile che ci illumina e ci innamora e proprio così ci dà da pensare. L’anima pensa solo in questo amore, respirando il respiro dell’amante, pensa perciò sempre in relazione a un TU, in un dialogo amoroso, e la sua parola innamorata s’in-canta, diviene canto, ed in profondità canto nuziale: “La rinuncia appresa non è abdicazione a una richiesta, bensì il trasformarsi del dire nell’eco di un dire originario, eco dal suono segreto, ineffabile, come di canto”[3].

Non è facile perciò apprendere a cantare, a dare voce cioè ad un pensiero davvero ispirato, anche perché molteplici sono le voci che risuonano nelle nostre profondità oceaniche, ambigue ed oscure sono le immagini che sorgono in noi, e le emozioni che le accompagnano. Ecco perché ci vuole la luce penetrante dello Spirito, e cioè la sapienza del principio stesso della nostra anima, con cui l’anima innamorata impara a dialogare, per interpretare con giusto discernimento questi segni e per distinguere le aree spirituali da cui provengono. Un’anima che non dialoghi col proprio Principio spirituale al contrario è come persa nel labirinto delle proprie immagini/emozioni: non possiede alcuna via, anzi è posseduta da spiriti di cui ignora il nome, e quindi non potrà mai cantare nell’armonia di un’intima corrispondenza, al massimo emetterà immagini (e quindi figurazioni umane: forme di vita) sconnesse e prive di misura, di metro, di ritmo appunto. Ecco perché un serio confronto con la psiche, e quindi qualsiasi psico-logia o psico-terapia, se vuole andare al fondo delle proprie questioni, non può non sfociare in un serrato dialogo coi grandi temi e con le stesse pratiche, anch’esse terapeutiche, della spiritualità[4]. L’anima, in altri termini, non solo deve continuamente silenziare i monologhi ossessivi del nostro io ordinario, la nostra tenace volontà di controllo e di definizione rapida della realtà, ma poi deve lasciar filtrare dalle maglie più slabbrate della nostra rete mentale il Respiro dell’Oceano, lo Spirito Animatore appunto, con cui entrare in dialogo, affinché proprio attraverso questo dialogo le insegni a riconoscere le voci che sorgono in lei, e a qualificare i moti interiori che la attraversano. Questo Spirito, che è essenzialmente Amore, niente e nessuno può contenerlo o comprenderlo, ma ogni anima, che si lasci areare (ispirare cioè, e quindi arrivi ad essere essenzialmente in uno stato di amore), può imparare a concepirlo, e cioè a portarlo dentro di sé come il mistero vivente della propria stessa umanità, il seme cioè di una Figura di Uomo tutto da pro-creare, da dare alla luce, e da rendere presente proprio cantandone l’arrivo. L’anima umana cioè conosce se stessa solo lasciandosi fecondare dall’Amore e concependone in canto il frutto: la nostra nuova umanità: l’Uomo di Amore che stiamo diventando.

Quando circa dieci anni fa avviai quel ciclo di seminari, che si chiamava Introduzione all’ascolto del Secondo Appello, e che doveva poi diventare il libro L’Uomo Nascente, tentai di precisare così questa forma poetica e pro-creativa di conoscenza: “Noi non vogliamo tanto capire nel senso di trovare le ragioni di ogni nostro passaggio, quanto piuttosto desideriamo concepire, nel senso di dare corpo a ciò che senza ragioni sufficienti ci appella appunto, ci sollecita a rinnovarci, a mutare la nostra mente (predatoria), e anche i nostri sensi atrofizzati, e quindi a nascere. Per noi concepire significa dunque far nascere e, dando alla luce, rinascere nel frutto concepito. In tal senso il pensiero del nascente (genitivo soggettivo) più che una scuola di filosofia apre una sala-parto”.[5]

 

 

  1. L’anima contemporanea infatti è gravida, siamo tutti/tutte terribilmente, enormemente gravide, e lo siamo in verità da tempo, già alla fine del XIX secolo Nietzsche, il grande veggente oscurato, scriveva: “O anima mia, tu ora sei vite sovraccarica, con gonfie mammelle, e fitti grappoli d’oro: – premuta, schiacciata dalla tua felicità, in attesa di spandere la tua ricchezza, e persino vergognosa di questa attesa”.[6] Tutta questa pienezza richiede uno sfogo, e questo sfogo è appunto il canto del nascente: l’anima canta perché solo così, fuori di ogni controllo razionale, può dire ciò che sta vivendo, e così concepirlo. Avesse Nietzsche seguito questa intuizione di Zarathustra, avesse cioè continuato a cantare invece di incominciare a male-dire, forse non avrebbe sperimentato la rovina del suo piccolo io: “ O anima mia, tutto ti diedi, anche il mio ultimo bene; e le mie mani per te si svuotarono:/ l’averti esortato a cantare fu appunto il mio ultimo dono!/ D’averti esortato a cantare, dimmi dunque, dimmi: chi di noi due deve ora dire grazie? Ma meglio ancora: canta per me, canta, anima mia! E che sia io a ringraziare!”[7]

La nostra anima ingravidata dunque ha bisogno di cantare, di dire liberamente tutta la follia che la abita, e che è in fondo amore incontenibile, straripante fiducia nella vita, vita incrementata e crescente, voglia di darla tutta al mondo, di darla alla luce questa vita, di procrearla sempre più vera e piena e umana e senza fine. Ascoltiamone il canto, come la voce materna che è in noi:

 

 

Sono la donna più gravida del mondo

 

Non mi ricordo neppure come avvenne

 

Lo sento che sorride e che mi scalcia

Dentro; al buio

Rompe le acque, e viene

 

Luce da luce, figlio

Dall’unica figlia del padre

 

E’ il tempo della puerpera e del grano

 

Siate felici

 

Nella dimessa luce dell’avvento

Siate comete che annunciano lo stesso

Vostro natale[8]

 

 

 

I canti della fine sono i canti dell’inizio

 

  1. In questo nostro tentativo di ascoltare i sussurri e le grida della nostra anima, i suoi gemiti di partoriente, noi ci facciamo aiutare da alcuni testi poetici, in quanto una ben determinata linea poetica, che da Hoelderlin e Rimbaud giunge fino a noi, ha tentato proprio di ascoltare e di dare voce a quelle profondità spirituali del nostro essere che lo sviluppo unilaterale della razionalità scientistica, tecnica, economica, e industriale, stava e tuttora sta sempre più soffocando, rimuovendo, e addirittura cancellando dall’esperienza umana. Ecco perché Rilke invoca: “Voci, voci. Ascolta, cuore mio,/ come soltanto i santi ascoltarono un giorno.” Si invoca dunque un tipo di ascolto che finora seppero prestare solo i santi, e cioè una profondissima esperienza spirituale in senso stretto: una radicale trasformazione meta-noica dell’io, della forma mentis di chi si pone in ascolto[9].

Questa poesia, rara in realtà e ancor più raramente compresa, che dà voce a ciò che più intimamente siamo e stiamo diventando, e che ciononostante spesso dimentichiamo di essere, è profetica, nel senso in cui Heidegger ha tentato di precisare, e cioè in quanto portavoce dell’Essere Reale sempre occultato dai pregiudizi della nostra mente egoica[10]. Questa poesia, pro-fetando (e cioè cantando) il Nascente Reale, ce lo fa vedere nel suo venire in noi, e così lo pro-crea, lo dà alla luce. In tal modo ci  aiuta anche a comprendere il mistero procreativo del nostro stesso sguardo, e cioè del pensiero umano, la sua vera natura, che non è affatto di semplice specchio passivo, e cioè di riflessione di un mondo dato una volta per tutte nella sua staticità, bensì di proiettore della stessa luce creativa, di proiettore co-creativo del darsi del mondo, che solo nella parola pensante e illuminante dell’uomo prende luce e unità e senso e misura. Il problema consiste nel riconquistare ogni volta questo concretissimo e occultatissimo Sguardo incantato: la coscienza di essere pro-creatori e non schiavi del mondo.

 

La mia vita è un ascendere continuo

Verso il reale, è una fatica

Sempre da rifare

Per incontrare

Ciò che ho sotto gli occhi.

 

E’ l’oggi che non vedo.

Uno specchio

Troppo liscio mi separa

Dall’avvenimento

Incontrastato.

Questo beato

Cedro se ne muore

Fuori dal canto. E’ procreare

Il tuo sonoro

Sguardo. E’ generare.

O è annientamento.”[11]

 

 

  1. Che cosa ci indica dunque questa poesia? Che cosa riportano questi esploratori acustici dagli abissi delle loro immersioni?

Semplificando al massimo mi sembra che tutta questa esperienza poetica a volte tragica, in quanto vissuta ai margini di ciò che l’umano ha significato finora per noi, ruoti attorno a tre fuochi, a tre fulcri immaginativi che sono  anche snodi, svolte, passaggi cruciali sia a livello di itinerario iniziatico personale che a livello di sviluppo storico-collettivo, oggi diremmo planetario.

Innanzitutto l’anima, attraverso questi poeti, denuncia uno stato di limite, di acuta insofferenza, grida con tutte le sue forze che un’epoca intera si sta compiendo, che addirittura una figura antropologica di umanità si sta consumando tra catastrofi ed esaurimenti nervosi: “l’uomo ha finito, ha recitato ogni parte”(Rimbaud)[12]. La terra è sempre più desolata (Eliot), dis-animata, e l’anima acuisce il proprio senso di estraneità: “E’ l’anima straniera sulla terra”(Trakl). L’anima asfissia, impazzisce in questo mondo murato, cerca ovunque e comunque un altrove: “Noi vogliamo, tanto ci arde quel fuoco il cervello,/ affondare giù nell’abisso, Inferno o Cielo, che importa?/ Al fondo dell’Ignoto per trovare / qualcosa di nuovo”(Baudelaire). E questa percezione di ultimatività, di stato terminale di tutte le cose, lo riscontriamo fin dall’inizio di questo ciclo poetico, in Hoelderlin ad esempio: “Ma vaga ahimé nella notte, vive come nell’Ade/ Senza il divino la nostra stirpe. Al proprio agire convulso/ Incatenata”. E poi di generazione in generazione tende ad estremizzarsi, e ad assumere tonalità sempre più decisamente apocalittiche. Pensiamo a Renè Char che nel 1969 profetava: “Le civiltà, grasso superfluo. La Storia fallisce, Dio in assenza di Dio non scavalca più i nostri muri diffidenti, l’uomo bramisce all’orecchio dell’uomo, il tempo si svia, la fissione è in corso. Che altro?

All’uomo devastato la scienza non può fornire altro che un faro cieco, un’arma di angoscia, arnesi senza istruzioni. Al più demente il fischietto di manovra”.

Ai più dementi appunto la guida di questo affondamento.

Ma pensiamo anche all’ultimo Montale (1975): “Terminare la vita/ tra le stragi e l’orrore/ è potuto accadere/per l’abnorme sviluppo del pensiero/ poiché il pensiero non è mai buono in sé./Il pensiero è aberrante per natura./ Era frenato un tempo da invisibili Numi,/ ora gli idoli sono in carne ed ossa/ e hanno appetito. Noi siamo il loro cibo. / Il peggio dell’orrore è il suo ridicolo./ Noi crediamo di assistervi imparziali/ o plaudenti e ne siamo la materia stessa./ La nostra tomba non sarà certo un’ara/ ma il water di chi ha fame ma non testa”.

 

 

  1. Certo la cultura dominante fa di tutto per occultare questo evidentissimo stato delle cose. Certo la quasi totalità dell’editoria libraria e dell’arte, della stampa quotidiana e periodica, e l’ammasso sonoro delle telecomunicazioni fa di tutto per soffocare col suo rumore assordante le grida della nostra anima. Certo a volte sembra che gli scrittori, gli artisti alla moda, gli intellettuali più accreditati, quelli che ci fanno vedere, quelli che scrivono sui giornali e compaiono in televisione, siano proprio selezionati in base alla loro capacità di mentire a se stessi e agli altri, di non dire mai ciò che tutti in realtà stiamo vivendo, di parlarci sempre d’altro, di distrarci. Il paradosso di una cultura in coma, i cui rappresentanti sono tanto più apprezzati quanto più dormono o mentono, ignari di se stessi, dimentichi di aver dimenticato l’essenziale. Ma chi tra di noi, lasciato per un momento da solo di fronte alla propria verità, non avverte nella propria vita concreta questa sorta di insostenibilità psicologica che sta corrodendo le basi antropologiche del mondo? Chi non sente l’attualità di queste terribili parole dello psichiatra inglese Ronald Laing, che sembra anch’egli dover utilizzare tonalità profetiche e apocalittiche per poter esprimere in modo adeguato la radicalità delle forme della nostra ordinaria follia? “Nessuno oggi, uomo o donna, può mettersi a pensare, sentire od agire se non partendo dalla propria alienazione.(…) Siamo tutti assassini e prostitute, quale che sia la cultura, la società, la classe, la nazione cui apparteniamo, e per quanto normali, morali o maturi ci riteniamo. L’umanità è estraniata dalle sue possibilità autentiche”(1967)[13].

 

 

  1. La cognizione lucida della fine di un mondo (e quindi di molte configurazioni storiche della nostra stessa identità) è dunque il primo fuoco tematico che emerge dall’ascolto delle profondità dell’anima. Ed è comunque fondamentale custodire, alimentare, ed approfondire questa consapevolezza, per non cadere in facili illusioni, che spingono molti osservatori del presente a credere, per esempio, che basti qualche rattoppo socio-economico o qualche trovata di ingegneria istituzionale a ridare una direzione alla nostra civiltà[14].

Ma l’anima ispirata dei poeti che stiamo ascoltando non si ferma mai alla denuncia dolorosa di uno smarrimento esistenziale ed epocale definitivo. La denuncia è sempre associata, sia pure a volte sul punto estremo di una perdita di controllo senza ritorno, al risuonare di un annuncio, dell’annuncio di un paradossale ricominciamento reso possibile proprio dalla passione di tutti i crolli e gli smottamenti, interiori e storico-culturali, che stiamo vivendo. C’è come un balbettamento di neonato udibile nel fragore dei crolli, e l’Anima annuncia agli increduli la nascita proprio adesso di inediti germogli di umanità: “Oh speranza! Presto, presto non solo i boschi / Canteranno le lodi alla vita, perché questo è il tempo / Che per bocca dell’uomo l’Anima più bella / Dia il suo nuovo annuncio” (Hoelderlin).

Questo secondo fuoco tematico, questo faticoso e insieme furioso annuncio di un uomo nascente proprio dentro il morente, questa coscienza dello strettissimo nodo che lega in realtà la fine all’inizio (In my end is my beginning – Eliot), e dunque questa visione profondamente escatologica del tempo presente, è anch’essa riscontrabile lungo tutta questa linea poetica[15]. Pensiamo ancora a Char: “Dove lo Spirito non sradica più ma ripianta e cura, io nasco./ Dove ha inizio l’infanzia del popolo, io amo”. Io nasco dunque, nuovo e indenne: iniziale e iniziato, in quanto portato a compimento, dove l’azione dello Spirito non è più quella, pur necessaria, del distruggere il vecchio e il corrotto, ma di ripiantare e curare; e l’io che nasce, che sta nascendo nell’anima di ciascuno di noi, è un io finalmente capace di amare, un io cioè fuoriuscito dal proprio isolamento egoico, dalla propria paura e dal proprio odio,  e quindi un io veramente post-bellico. L’annuncio dunque è che non solo qualcosa sta andando a finire nel lunghissimo tramonto dell’Occidente ormai planetarizzato, ma che dentro questo sfinimento è già in atto un iniziare: un dopoguerra:  si sta generando un ordine relazionale procreato da un io che è tanto più se stesso quanto più si apre e si collega creativamente e pacifica-mente agli altri. Questa è l’unica vera pace da costruire: l’ordine relazionale dell’io nascente.  Bisogna solo avere le orecchie limpide e risonanti per ascoltare il tuono segreto che annuncia questa inaspettata primavera: “Che muore, che nasce/ ora che un brontolio di tuono sgretola/ l’altezza della notte, annunzio/ improvviso di primavera che rompe il sonno…”(Luzi). Dentro ciascuno di noi convivono in questo momento un morente e un nascente, un essere sempre più impietrito nel proprio sonno pieno di incubi bellici, e un essere che vuole destarsi, che in verità si sta già destando. Con chi ci identificheremo? A chi daremo ascolto? Sulla parola di quale dei due fonderemo la nostra giornata terrena? Questa è la scelta definitiva che ci troviamo davanti e dietro e dentro e in ogni luogo.

 

 

Rinascere è ascoltare la chiamata del Principio

 

  1. L’anima ispirata dunque nei suoi canti troppo inascoltati, nei suoi gemiti e nelle sue esultanze più segrete, ci parla di un travaglio, di un collasso, di un rimescolamento di tutte le sostanze della psiche storica dell’umanità, che è però occultamente ed essenzialmente un parto, una nuova nascita. Sul teatro universale, che è al contempo il corpo dell’uomo e il mondo nel suo processo di unificazione planetaria, sta andando in scena la nascita di una nuova umanità: questo è l’Atto Unico che è in atto e di cui dovremmo e potremmo proprio adesso, nel tracollo di tutte le culture belliche e dualistiche della storia, divenire attori consapevoli[16].

Ma come è possibile sperimentare questo ricominciamento? Come è possibile nascere daccapo? Questa è l’antica domanda di Nicodemo a Gesù: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”(Giovanni 3,4). Gesù era stato categorico: “se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio” (Gv. 3,3), e la sua successiva risposta a Nicodemo ribadisce ancora una volta la necessità di questo ricominciamento sostanziale, senza darne però spiegazioni che possano soddisfare la nostra ragione: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv. 3,5), e quindi non può portare a compimento la propria umanità, non può diventare se stesso, o più semplicemente non può essere felice. Ma allora come possiamo dare un nuovo inizio alla nostra vita e alla storia del mondo, arrivate entrambe ad un punto cruciale in cui sembra che si apra l’alternativa estrema tra autoannientamento e revisione radicale di tutti i nostri paradigmi mentali e comportamentali?

Per rispondere a queste domande cruciali noi ci facciamo aiutare, in questo lavoro, dalle parole, povere e folgoranti,  che una determinata linea poetica è stata in grado di ascoltare e di trasmetterci[17]. E qui, proprio sulla questione di come ricominciare, tocchiamo il terzo nodo tematico intorno al quale ruota tutta questa esperienza conoscitiva, il punto più arduo, raggiunto solo dagli esploratori più esigenti, più intransigenti, da quelli che mai si accontentarono della fase di decostruzione della vecchia identità, ma che si spinsero ben oltre la confusione psichica delle lingue, ben oltre ogni semplice negazione, tragica o ironica o minimalistica, fino al Cuore di tutti i cuori, fino in fondo ai propri Inferi, lì dove si apre l’inaudito sbocco: il vero canale uterino: la porta davvero stretta da cui viene alla luce il bambino nuovo: l’Altro-Sé: l’erede universale di tutte le storie della nostra umanità.

 

Il bambino nel grembo. Il bambino che si prepara a nascere

E spreme le vene di letizia

E di dolore diffuse in tutto il brulichio stellare

Di passato, presente, possibile (Luzi)

 

 

 

  1. Per ricominciare dunque dobbiamo imparare non solo a criticare e a decostruire, con gli strumenti della più acuta critica filosofico-razionale e del dubbio metodico, che ci offre la modernità, ogni credenza e ogni concezione “dottrinaria” della verità, che si fondino sulle illusioni egemoniche del nostro io, magari rivestito di religiosità; ma dobbiamo apprendere anche la critica della critica e il dubbio sul dubbio, fino a non sapere più neppure di non sapere, fino ad un collasso radicale, e cioè ad una crisi davvero ultimativa del vecchio io ego-centrato e di tutte le sue pretese di controllo. E noi epocalmente ci troviamo proprio qui: nel punto in cui la stessa ragione critica moderna scopre la relatività e l’insufficienza della propria luce. Né il sistema di credenze storico-culturali e religiose, sempre e comunque belliche, del vecchio io, né la critica razionalistica, scientistica o psicoanalitica o economico-politica dell’antico regime sono più in grado di dare fondamento e slancio vitale alla nostra umanità[18]. Ed è proprio in questo momento, che interiormente è sempre da ritrovare, è  proprio in questo punto mortale che Io posso sperimentare, se deliberatamente mi abbandonerò a corpo morto ai venti direzionali dello Spirito, un’altra modalità di essere un io: scoprirò di essere un io non più separato. Va sottolineato però che non sussiste una sequenza necessaria tra il finire del vecchio io e la nascita del nuovo: siamo noi che ad un certo momento dobbiamo deciderci per il salto nel vuoto, per l’abbandono totale alle labili (ma a quel punto uniche ad essere ancora reali)  promesse del Nascente.

 

 

  1. Nella reiterata sconfitta del mio ego, dunque, che si sappia convertire ogni volta in puro abbandono alle mozioni salvifiche dello Spirito, scopro di non essere affatto annientato, ma anzi rinforzato, letteralmente ri-generato in un’altra modalità d’esistenza. Il problema iniziatico, sia a livello personale che storico-culturale, consiste perciò nel porre fine al finire, nel portarlo a compimento. Questo vorrebbe trasmettere la poesia del Nascente specialmente alle nuove generazioni, per tirarle fuori dalle melme e dalle sabbie mobili di questa cultura terminale, già postuma a se stessa, ma incapace appunto di mettere un punto finale al proprio sfinimento. Per cui quella che segue potrebbe essere una Lettera a un giovane europeo, scritta in verità dalla sua stessa anima:

 

Impara a morire

Finché c’è tempo

In questa pace spoglia di gennaio

Che aspetta il rendiconto

Di tutto l’anno.

                       Prima di morire

Impara a morire, per scoprire

Che la nascita sovverte il tuo cronometro:

L’inceppa.

Molto prima

Che i germogli latrino

Sui prati d’amaranto,

impara a morire

In fretta, e immacolate

Idee di te ti faranno

Nascere.[19]

 

Lo sbocco del nostro ri-nascimento lo troviamo dunque in un punto di estrema spoliazione, che può dirsi propriamente di morte: “Dovrai varcare la morte perché tu viva”(Y. Bonnefoy). L’io vecchio deve come dissolversi nell’acqua (in-fera) di tutti i suoi rimossi, sprofondarvi dentro finché io non scopro, rigenerato nell’amore dello Spirito, di non essere più lui, di essere in realtà da sempre un altro: Io è un altro, non voleva dire proprio questo Rimbaud? E sarà questo anche il senso di ciò che voleva comunicare Gesù a Nicodemo, parlandogli della necessità di nascere da acqua e da Spirito? Dobbiamo/Possiamo morire e dissolverci nell’acqua del grembo dell’anima, per rinascere nello Spirito dell’Uomo pieno di Amore che stiamo diventando? Dobbiamo imparare ad immergerci, ad obliarci fino in fondo e senza residui come entità separate, fino a sentire nel vuoto una voce che sembra chiamarci e sussurrarci con estrema delicatezza:

 

più giù

del vuoto di memoria,

dei suoi raggiri forti e sanguinosi,

molto più giù dell’iride d’acquario

aprimi un varco

al soffio della gioia

azzurro nel rovescio dei tuoi giorni[20]

 

Solo a quelle profondità Io incomincio a sperimentarmi nella novità di una nascita regale, e cioè nella sovranità di una figura umana che è in qualche misura già passata attraverso la morte, e che quindi, ormai battezzata, può vivere in un altro modo: libera da ogni paura.

D’altronde san Giovanni Crisostomo, già nel IV secolo, non scriveva: “L’atto di immergersi nell’acqua battesimale simboleggia la discesa all’inferno”? Ed è proprio questa discesa, dolorosissima ma insieme liberatoria, ciò che sta accadendo. Ma la nostra e mondiale saison en enfer può rovesciarsi in rinascita solo se al fondo di tutti i fondi infernali la nostra anima contatta e fa esperienza diretta di quella Potenza di ricominciamento che fin dal principio la ha chiamata a tuffarsi nelle proprie profondità, che fin dal principio ci ha convinti ad abbandonare le finzioni storiche e i mascheramenti psichici del nostro vecchio io, e ad attraversare tutte le correnti turbinose delle nostre profondità scoperchiate. Chi si avventurerebbe infatti in un simile viaggio se non sentisse di essere chiamato?

 

 

  1. L’anima sente di essere chiamata a sé e fuori di sé, e sente che Chi la chiama non ammette repliche, in quanto implora: il suo ordine, la sua chiamata, è irresistibile in quanto ha la potenza di quell’amore in cui io ritrovo me stesso. Chi mi chiama lo fa con la forza di ciò che io più radicalmente sono: con tutta la forza del mio stesso essere. Come potrei resistergli senza sfigurarmi fino in fondo, tradirmi, uccidermi in definitiva?

Lo sentiamo questo terribile e dolcissimo Appello? Riusciamo a comprendere che questo è il tempo del Secondo Appello, in cui tutto risuona come un’ultima chiamata? Risponderemo al mistero del nostro essere, all’Amore che ci sta chiamando? Ridaremo inizio alla nostra vita? Ridaremo un senso alla storia della terra?

Nel 1942 Eliot terminava così i suoi straordinari Quattro Quartetti: “Con la forza di questo Amore e la voce di questo Appello/ Non cesseremo di esplorare/ E alla fine dell’esplorazione/ Arriveremo al punto di partenza /E conosceremo il luogo per la prima volta”.

E nel 1975 Bonnefoy cantava così la soglia antropologica che ci troviamo ad attraversare guidati da una Chiamata che devasta tutto ciò che non risponde, che cioè riduce a nulla, annichila, tutto ciò che non torna al proprio principio, per ricominciare: “Oh terra,/ Mai stelle più violente suggellarono/ Con luci più fisse il limite del cielo, mai/ Appello più divorante di pastore nell’albero/ Devastò estate più oscura”.

E’ un pastore che ci sta chiamando? E’ la sua cura, la sua benevolenza, che incontriamo al fondo dei nostri sottofondi? E’ in realtà un abbraccio il punto di ricominciamento? Un incontro di sguardi senza più paura? Da questo incontro rinasciamo? Da questo amore condiviso sta sorgendo una umanità veramente post-bellica, liberata dalla paura, da tutte le strategie di attacco e di difesa, e libera perciò di amare senza  ricatti e senza condizioni, e di realizzare così pienamente il destino per cui siamo stati creati e messi su questa terra?

 

Non invano i venti hanno soffiato,

non invano ha infuriato la tempesta.

Qualcuno, misterioso, di calma luce

Ha imbevuto i miei occhi.

 

Qualcuno con tenerezza primaverile

Nella nebbia turchina ha placato la mia malinconia

Per un’arcana e bellissima

Terra straniera.

 

Non mi opprime il latteo silenzio,

non mi turba la paura delle stelle.

Io amo il mondo e l’eterno

Come il natio focolare. (Sergeij Esenin)

 

 

  1. La nostra anima dunque, ascoltata anche grazie ai versi di alcuni poeti, proprio adesso ci parla di un grande travaglio, di una vera e propria passione in atto, attraverso la quale moltissime figure storiche della nostra identità umana si stanno dissolvendo, ma la nostra anima ispirata ci sussurra anche che questo è in realtà un tempo natalizio, perché nel fondo di tutte le nostre dissoluzioni, se sappiamo abbandonarci alla dolcezza della sua Chiamata, incontriamo sempre di nuovo e sempre più intimamente il nostro Principio, un Essere dolcissimo, uno Spirito di puro Amore, che è l’essere del mio essere, l’Altissimo mistero, il più vicino: Colui che fa di me un IO.

La nostra anima desidera con tutta se stessa di riconiugarsi al proprio Principio, di rispondere con tutto il cuore al suo Appello di Amore, per rinascere liberata da tutte le sue antiche illusioni, da tutti gli incantesimi dell’odio e della paura, da tutta la storia di guerra che ha dovuto attraversare per tanti millenni fino ad ora.

Il tempo propedeutico infatti ormai è compiuto. Questo è il tempo propizio per porre fine alla storia (mondiale e personale) della guerra, e quindi per ricominciare. Questo è il tempo in cui siamo chiamati a comprendere ad un nuovo livello e a riprendere daccapo il filo della storia della (nostra) salvezza, e cioè a costruire ad ogni livello, nel cuore e nel mondo, l’unità e la pace: i veri caratteri dell’uomo nascente.

 

La terra promessa è in ogni uomo

Ormai, è la sostanza

Di tutto il desiderio che hai rimosso

Tempo fa, e che ti torna

In mente senza freni, inarginabile

Corrente d’aria.

Tu sei la bibbia

Ricapitolata, l’apocalisse

Sei tu, salvato dalle acque

Per un soffio, Mosé

Porta con sé la terra

Come un ricordo

Che ti plasmerà, giovane uomo,

Non temere!

La forma della terra che tu sei

Io sono.[21]

 

 

[1] Questa poesia, dal titolo Tuberi, è tratta dal mio volume di poesie Preparativi alla vita terrena, Passigli 2002, pag.74.

[2] La croce dell’anno, in Preparativi alla vita terrena, op.cit., pag. 86.

[3] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag.182. Sul rapporto tra Spirito animatore e anima da lui animata si legga questo testo fondamentale tratto dall’interpretazione heideggeriana della poesia di Trakl: “In quanto l’essenza dello Spirito consiste nel fiammeggiare, lo Spirito apre la via, la rischiara, mette in cammino. Come fiamma, lo Spirito è la bufera che ‘dà l’assalto al cielo’ e ‘conquista Dio’. Lo Spirito spinge l’anima sulla via del peregrinare. Lo Spirito trasporta in terra straniera. ‘E’ l’anima straniera sulla terra’. E’ dallo Spirito che viene il dono dell’anima. Lo Spirito è l’animatore.” In In cammino verso il linguaggio, op.cit., pag. 63.  Sulla necessità di reimparare a parlare a partire dal rovesciamento continuo del fondamento egoico del discorso, rivolgimernto meta-noico che ci apre al canto ispirato, si cfr. poi M. Guzzi, L’Ordine del Giorno – La coscienza spirituale come rivoluzion e del nuovo secolo, Paoline 1999, pagg. 129-148.

[4] Sul rapporto tra cammino iniziatico cristiano, e quindi terapia spirituale, e prassi psicologiche si cfr: M. Guzzi, Darsi pace – Un manuale di liberazione interiore, Paoline 2004.

[5] M. Guzzi, L’Uomo Nascente – La trasformazione personale alle soglie del nuovo millennio, RED 1997, pag. 27.

[6] F. Nietzsche,  Così parlò Zarathustra, Mursia 1974, pag.195.

[7] Ib, pag.197.

[8] In M. Guzzi, Teatro Cattolico, Jaca Book 1991, pag. 135.

[9] Si cfr. il mio saggio “Io è un altro”: l’esperienza spirituale nella poesia contemporanea, nel volume collettivo La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio, San Paolo 1996, pag. 33-48.

[10] Sulla natura profetica di questa poesia e sul radicale mutamento del suo statuto di verità oltre i limiti di ogni interpretazione letteraria, filologica, o estetica, si cfr. M. Guzzi, La profezia dei poeti, Moretti e Vitali 2002.

[11] Sguardo incantato, in Preparativi alla vita terrena, op.cit. pag. 13.

[12] Sulla natura ultimativa della poesia di Rimbaud si cfr. M. Guzzi, Finire, in La Svolta – La fine della storia e la via del tirono, Jaca Book 1987, pag. 175-182.

[13] R. Laing, La politica dell’esperienza, Feltrinelli 1990, pag.8.

[14] Sulla necessità di connettere anche le problematiche attuali della globalizzazione e della crisi della democrazia a questo profondo passaggio antropologico si veda M. Guzzi, Globalizzazione: una sfida interiore, in Un futuro per l’uomo, III n.1, Gabrielli Editori 2003, pag. 25-47.

[15] Anche su questo punto la lezione di Heidegger resta irrinunciabile: “Se penseremo in base all’escatologia dell’essere, dovremo un giorno aspettare l’estremo del mattino nell’estremo della sera, e dovremo imparare oggi a meditare così su ciò che è all’estremo”. Sentieri interrotti, Firenze 1977, pag. 305. Sull’intera tematica della fine della storia dell’essere in Heidegger si cfr. M. Guzzi, La Svolta – La fine della storia e la via del ritorno, op.cit.

[16] Questo era il senso del titolo del mio secondo libro di poesia Teatro Cattolico, Jaca Book 1991, diviso appunto in due parti: Atto Primo: le Nozze, e Atto Unico: il Parto.

[17] E’ chiaro che tutta questa riflessione si offre come un piccolo contributo alla nuova stagione di sperimentazione e di traduzione culturale (e cioè di comunicazione) della fede cristiana nella nascita dallo Spirito. Le stesse Chiese cristiane, in altri termini, stanno attraversando questo momento epocale di setaccio e di selezione, in cui sono chiamate ad individuare ciò che è davvero essenziale e vivo e nascente nelle proprie tradizioni.  Si cfr. a tal proposito M. Guzzi, Cristo e la nuova era – Perché divenire cristiani proprio ora, Paoline 2000.

[18] Questa doppia negazione ci conduce in un punto in cui il mistero pasquale trova una inedita pregnanza esperienziale. Questa è la tesi di fondo anche di  M. Bellet, di cui segnalo l’ultimo libro, Un trajet vers l’essential, Seuil 2004.

[19] Lettera a un giovane europeo, in M. Guzzi, Figure dell’ira e dell’indulgenza, Jaca Book 1997, pag. 92.

[20] Tratto da M. Guzzi, Il Giorno, Scheiwiller 1988, pag. 21.

[21] Bibbia vivente, in M. Guzzi, Preparativi alla vita terrena, op.cit., pag.82.