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Il tempo più propizio

per un rinnovamento della vita e della cultura cristiane

Il punto cruciale : crisi e ricominciamento

Nella costituzione pastorale Gaudium et Spes leggiamo che l’umanità “vive oggi un periodo nuovo della sua storia” (n.4), e poi addirittura che è “in pericolo, di fatto, il futuro del mondo” (n.15). Romano Guardini lo aveva già proclamato una quindicina di anni prima nel suo saggio su La fine dell’epoca moderna : “Con assoluta esattezza si può dire che da ora innanzi comincia una nuova era della storia. Da ora in avanti e per sempre l’uomo vivrà ai margini di un pericolo che minaccia tutta la sua esistenza e continuamente cresce”.
Questa radicale “crisi di coscienza”, come la definisce ancora il Concilio, non coinvolge la storia dell’uomo lasciando indenne la vita della Chiesa, ma anzi ci mostra in modo definitivo e inedito l’intima connessione che c’è tra lo sviluppo estremo della modernità e l’esigenza sempre più forte di una riforma del cristianesimo storico. La nuova era, che si avvia con la modernità, e giunge al suo culmine tragico nel XX secolo, appellandoci oggi ad un radicale ricominciamento, è cioè interamente un’epoca della storia della salvezza, in cui si è aperto come uno scisma, tutto interno al cristianesimo, tra Chiesa e cultura, tra tradizione e vita, tra istituzione e Spirito. In tal senso il cardinale Jean Marie Lustiger diceva in una conferenza tenuta all’Ecole Polytechnique il 2 dicembre del 1982 : “A generare l’universo scientifico, moderno e secolarizzato è stato il mondo occidentale, nato dalla Parola biblica. Di conseguenza la crisi di questo mondo è una crisi della fede. (…) La crisi del nostro secolo, nella misura in cui esso vive del trionfo dell’Occidente, è una crisi collettiva del cristianesimo stesso”. Superare questa crisi significa dunque lavorare ad una nuova coniugazione tra Chiesa e sviluppo storico della modernità, una coniugazione che non può che scaturire da una profonda conversione dei Due poli divaricati verso l’unico tronco da cui entrambi traggono il loro Spirito, e cioè verso il Cuore dell’Uomo Dio, del Cristo che cresce in noi dilatando i nostri confini mentali e guidandoci ad una comprensione sempre più completa della sua verità.

Le parole incenerite delle culture dell’uomo vecchio

Questo grande travaglio storico-culturale, che tocca oggi apici estremi, si mostra acutamente nello svuotamento di senso di quasi tutti i linguaggi : molte lingue ormai non parlano più, sono in realtà lingue morte, nel senso che non aiutano l’uomo a raccogliere un senso della propria vita, e cioè ad integrarsi, ma lo spingono piuttosto a disgregarsi, a frantumarsi in schegge di anima sempre più irrelate. Mario Luzi direbbe “sopravanzano le cose il loro nome”. E questo non accade solo nell’universo della comunicazione di massa, in cui l’informazione come la cultura si amalgamano in un linguaggio sostanzialmente pubblicitario, che frantuma la coscienza umana in atomi di desiderio venduti tutti i giorni all’asta del mercato telematico globalizzato, come ha descritto ultimamente il sociologo americano Jeremy Rifkin : “Il tumulto dell’interazione sociale spinge e strattona la coscienza degli individui, forzando una perdita di centralità del sé. Presi nel vortice di rapporti sociali concorrenti e, spesso, contraddittori che ci sommerge, dividiamo disperatamente la nostra limitata attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza”. Paradossalmente lo stesso effetto disgregante, e cioè antitetico ad un processo reale di unificazione della persona, lo ottengono anche molti linguaggi religiosi “fin troppo pii e logorati dall’uso, ma pure astratti e disarticolati dalla vita e dai suoi problemi”, come scrive padre Amedeo Cencini. Linguaggi “muti, parole vuote, frasi convenzionali” che non toccano più nessuno, e che spingono la stessa teologia cattolica ad interrogarsi sulla “crisi del linguaggio cristiano, o la perdita di senso del linguaggio religioso” (Cencini). Tanto che il vero problema all’ordine del giorno, posto al centro degli Orientamenti pastorali della CEI per il decennio in corso, è proprio quello della comunicazione della fede. Ma il problema di come comunicare la fede non è un problema “tecnico”, bensì eminentemente spirituale, in quanto esso ci interroga sul cuore stesso della nostra fede, e cioè su come incarnare veramente e più efficacemente la Parola, che è sempre viva e forte e nuova, e che noi non sappiamo parlare nell’ora, nell’adesso sempre attuale della sua incarnazione storica. E questa impotenza, a mio parere, è essa stessa uno degli effetti dello scisma secolare tra Chiesa e cultura moderna, che giunge ora alla rivelazione finale della sua distruttività intrinseca, svuotando di senso tutti i linguaggi radicati e cresciuti a partire da quella scissione. Tutti i linguaggi dominanti perciò oggi non parlano la lingua dell’Uomo che tenta di nascere in noi proprio riconciliando in sé ogni scissione. Tutti i linguaggi dominanti anzi feriscono il Nascente in quanto perpetuano la cultura terminale di una umanità (scissa) già finita.

Ricominciare a parlare dal principio

Dobbiamo perciò innanzitutto imparare a parlare, reimparare. Come bambini. Se non ripartiamo da questa estrema povertà rischiamo di contribuire solo a fomentare la rissa babelica delle lingue morte. Dobbiamo imparare a pensare, sostanziando le nostre parole di tutto il nostro corpo e di tutto il nostro spirito. Senza dare nulla per scontato, attendendo che in noi il Verbo si faccia carne lettera per lettera, gesto per gesto, attualizzando ad ogni ora il miracolo della Nuova Alleanza, sperimentandone ad ogni riga, ad ogni frase la verità : “Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio” (2Cor.3,5). Parlare così, imparare a pensare in questo ascolto senza pregiudizi (neppure teologici), implica una continua rinuncia a parlare in proprio, a possedere ciò che si dice. Ma è solo questa rinuncia che lascia transitare nelle nostre povere parole la Parola che s’incarna, rendendo il nostro dire gravido di Cristo, capace di sintesi e di integrazioni (psichiche e culturali) inedite, e quindi dolce e potente come un canto : “La rinuncia appresa non è abdicazione a una richiesta, bensì il trasformarsi del dire nell’eco di un dire originario, eco dal suono segreto, ineffabile, come di canto”(Heidegger).
Questo parlare e pensare da un ascolto interiorissimo e vuoto, scavato nelle fibre più povere della nostra umanità invasa però dalla potenza del Verbo di Dio, può dirsi poetico, nel senso in cui la grande poesia contemporanea ha tentato di esperirsi, almeno a partire da Hoelderlin : “dello Spirito comune sono pensieri / che finiscono quieti nell’anima del poeta”. Ma qui non si tratta solo di scrivere poesie, ma di imparare a pensare e quindi a vivere nell’ascolto di un Dire, di un Dio che s’incarna ora solo nella nostra in-fanzia, e cioè nella nostra povertà inerme e senza parole. Vivere poeticamente significa, in tal senso, vivere cristologicamente : imparare a nascere dall’alto.
Questa è la conversione linguistica attraverso la quale lo Spirito della Parola attende di soffiare in noi con nuova potenza pentecostale il fuoco che dà fuoco al mondo trans-figurandolo e unificandolo : “Forse ci è possibile preparare in qualche misura il mutamento di linguaggio. Forse è possibile che questo ci appaia : ogni meditante pensare è un poetare ; ogni poetare è un pensare. Pensiero e poesia si coappartengono, grazie a quel dire che ha già votato se stesso al non-detto, perché è il pensiero come atto di ringraziamento”.(Heidegger)

Nuove identità, nuove comunità

Da questa povertà poetica (e mariana) dell’Incarnazione e del Natale del nostro Uomo Nuovo, che è poi l’unica Realtà cui credo (e spero) di appartenere, proviamo a sentire quali siano i bisogni di questo Uomo Nascente in noi, per dare corpo al rinnovamento che Egli ci chiede. Dobbiamo chiederci con molta semplicità : di che cosa ha veramente bisogno mia sorella, al di là magari di quanto essa stessa pensi ? di cosa ho bisogno io insieme a mio fratello ? Se non arriviamo a questo sentimento lucido di condivisione universale autentica, rimaniamo nel tipico atteggiamento dell’uomo religioso che crede di poter aiutare gli altri senza sentirne lui per primo i bisogni. Ma non si aiuta nessuno negando, non riconoscendo umilmente, o proiettando sugli altri i propri bisogni. Sono io, proprio in quanto cristiano, a soffrire fino in fondo e più di tutti la crisi in atto. Solo il medico ferito sa veramente curare. Solo il Cristo crocifisso ci può salvare. Solo chi è sceso personalmente nei propri inferi ne può tirare fuori suo fratello. Il resto è farsa, retorica, insostenibile ormai.
Allora mi sembra che due siano i bisogni primari e radicali che emergono con sempre maggiore chiarezza in questo nostro tempo straordinario ed esaltante :

    • • il bisogno di riformulare in forma viatica la propria identità, e cioè di scoprire una modalità creativa e positiva di vivere la dinamica trasformativa sempre più veloce che caratterizza questa fase della storia ;

 

    • il bisogno di ricostruire tutto il tessuto relazionale, e cioè tutte le forme aggregative (dall’amicizia alla famiglia, dai popoli fino alla Chiesa) a partire da questa fluidità delle nostre identificazioni, e dalla condivisione fraterna del comune travaglio.

 

Una nuova identità cioè più dinamica, più nomade, che assorba in sé il dinamismo metamorfico della modernità dando ad esso una direzione. Una identità proprio per questo più spirituale, più iniziatica, più arrischiata, e quindi paradossalmente più fortemente cristiana, in quanto l’identità cristiana non è mai un possesso dato, ma proprio un processo trasformativo, una trans-figurazione appunto verso il mio vero volto, un esodo da tutto ciò che so di me, una Pasqua.
E una comunità nuova che a sua volta non veda la propria forza nella conservazione di assetti (mentali o istituzionali) statici, quanto piuttosto nella custodia di una Parola che sovverte ogni tipo di stabilità in questo mondo, per fluidificarci, liquidarci, e proprio così unirci sempre di più, al di là di tutte le nostre difese e separazioni (anche religiose). La famiglia, la parrocchia, o la comunità religiosa che non si radichino nell’ascolto di questi bisogni impellenti rischiano o di sfaldarsi o di rinserrarsi in qualche apparente solidità entro la quale però il nostro Uomo Nascente si sentirà soffocare come in uno stabilimento penale.
Mi sembra d’altronde che la Chiesa cattolica avverta sempre più lucidamente queste urgenze. Da una parte infatti il cardinale Ruini, nella sua lettera indirizzata a tutti i fedeli della Diocesi di Roma il 16 ottobre del 2000, sottolineava la necessità “di una iniziazione cristiana che formi dei cristiani autentici”, e cioè di ideare dei percorsi formativi in cui il cristiano possa esperimentare per davvero la propria trans-figurazione pasquale permanente (e cioè la propria identità viatica e processuale), in cui lo attrae lo Spirito del Risorto. E dall’altra Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Novo millennio Ineunte, chiamava il credente a rinnovare la propria spiritualità della comunione con il fratello su basi più realistiche e concrete “per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia”.(n.43) Parole semplici che però rivoluzionano secoli di pastorale ordinaria e di formazione religiosa, avviando un processo grandioso di sperimentazione.

Il setaccio : la verifica storica della Tradizione

Stiamo entrando, dunque, in una lunga fase di rielaborazione della vita personale e comunitaria dei cristiani, in cui le verità della tradizione non vengono affatto contestate o sminuite, ma verificate nei fatti in due sensi fondamentali. In primo luogo siamo chiamati a distinguere con cura tra i contenuti essenziali della nostra fede e ciò che invece è modificabile, in quanto soggetto alle trasformazioni culturali della storia, come ha sottolineato il cardinale Walter Kasper in un articolo del dicembre del 2000 sul mensile dei gesuiti tedeschi Stimmen der Zeit : “accanto alle dottrine immutabili della fede e della morale c’è un vasto campo di disciplina ecclesiastica, che certamente si trova in collegamento più o meno stretto con le verità di fede, ma che è fondamentalmente soggetto a cambiamenti. Negli ultimi decenni i fedeli sono stati testimoni di numerosi di questi cambiamenti che fino a mezzo secolo fa quasi nessuno avrebbe ritenuto possibili”.
In secondo luogo dobbiamo imparare a mettere a confronto con sereno realismo le parole che continuiamo a pronunciare con le esperienze concrete delle persone alle quali le indirizziamo. Ad esempio, in che modo, in quali occasioni, attraverso quali pedagogie le nostre parrocchie o le comunità religiose educano le persone a sviluppare tra di loro “una vera e profonda amicizia” ? quando e come siamo invogliati a conoscerci per davvero ? a esprimere le nostre opinioni, confrontandoci su problemi comuni, e magari anche a litigare tra di noi, e cioè a comunicare liberamente da persone adulte e responsabili ? quando e come insomma la comunicazione orizzontale e quotidiana si interseca con la comunione verticale ? quante volte “gli strumenti esteriori della comunione”, come scriveva ancora il Papa, diventano “apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (Novo millennio ineunte, n.43) ?
Ma allorché le persone si mettono davvero insieme per conoscersi, per crescere come adulti e condividere il processo iniziatico della loro trans-figurazione, calandolo nella vita di tutti i giorni, emergono problemi nuovi che la pastorale e la formazione tradizionali non conoscevano nelle forme in cui oggi si propongono. E questo vale per ogni tipo di gruppo ecclesiale : sia di laici, sia misto di laici, religiosi e presbiteri, sia di religiosi.
Qui presenterò solo alcuni di questi problemi, limitandomi a considerazioni molto sintetiche e quindi necessariamente parziali e approssimative.

Il problema dell’esercizio dell’autorità

Oggi si parla molto di corresponsabilità, di discernimento comunitario, e così via, ma noi cristiani cattolici siamo abituati da secoli ad una struttura rigidamente piramidale dell’autorità, la quale di per sé induce passività e deresponsabilizzazione nel popolo dei fedeli. Una vera amicizia presuppone al contrario una parità sostanziale tra gli amici, che non esclude certo il ruolo di una presidenza del gruppo, ma fa di questa solo uno dei punti radianti, uno dei carismi. Chi ha il ruolo di presiedere non è cioè necessariamente anche il maestro di tutti, colui che controlla e governa tutte le attività, e così via. Un vero gruppo di amici in Cristo deve anzi favorire la maturazione di ogni membro, dare potere alle persone e non toglierglielo, emanciparle, formare ognuno alla libertà e alla creatività autonome, a diventare cioè lui stesso autorità. La grave crisi dell’autorità che si sta approfondendo in seno alla Chiesa e a tutti i livelli non si risolverà con ulteriori strette autoritarie, ma solo insegnando ad ogni fedele a sprigionare la propria autorità spirituale, come sostenne Timothy Radcliffe, superiore generale dei Domenicani, al Sinodo per l’Europa. Solo così può crescere un’amicizia effettiva e creativa tra adulti del XXI secolo.
Anche qui la Chiesa dovrà verificare in che misura sia ormai inevitabile assorbire altre acquisizioni della modernità (tra l’altro anch’esse radicalmente evangeliche), per ridare vita alle proprie comunità. E mi riferisco in particolare a due elementi : la centralità della soggettività individuale che osa confrontarsi liberamente con l’autorità della tradizione in nome di un rinnovamento costante che ci avvicina sempre più alla verità ; e il principio democratico in base al quale ogni comunità delibera le proprie scelte di vita. Il XXI secolo della storia cristiana sarà caratterizzato da questa nuova fase di integrazione della modernità nell’alveo storico del cristianesimo da cui proviene tutto ciò che di liberatorio e di positivamente “moderno” è giunto fino a noi.

Il problema relazionale e psicologico

Un’amicizia vera implica la capacità (e la volontà) di metterci in gioco fino in fondo, la disponibilità ad esporci nel rapporto con tutta la nostra complessità di persone. E’ molto facile tenere buono un gruppo di estranei che fa la comunione insieme tutte le domeniche, senza nemmeno conoscere il nome del vicino di banco, o una comunità di religiose educate a considerare negativa ogni intimità affettiva con le sorelle. Ma se un gruppo di persone vuole conoscersi per davvero per condividere qualcosa di essenziale e di impegnativo, allora le cose si complicano, le maschere debbono cadere, oppure rischiano di irrigidirsi con effetti deleteri. Ad esempio un religioso o un prete che voglia fare amicizia comunitaria con donne e uomini sposati non potrà più nascondersi dietro il proprio ufficio apostolico : io sto qui solo per servirvi, io le mie scelte le ho fatte, io devo solo dare, e così via. Questa ricorrente autodifesa infantile del religioso/prete, che si illude di porsi fuori dal gioco relazionale concreto e di per sé rischioso, serve solo a falsificare fin dall’inizio i rapporti, alienando sia il prete in una maschera da funzionario del sacro, sia gli altri in maschere più o meno ossequiose di sottomissione. Nell’amicizia spirituale del XXI secolo, cuore della rinnovata comunità cristiana, ci si arrischia invece fino in fondo, con tutto il nostro corpo e con tutte le nostre contraddizioni. E’ solo infatti dall’attrito emotivo, e dall’amalgama fraterno che ne deriva, che può scaturire la novità e la bellezza di una comunione autentica. Ed anche questa è una grande lezione della modernità, tutta da imparare.

Il problema della cultura spirituale

Oggi si sottolinea con forza nella Chiesa la centralità e l’importanza della vocazione matrimoniale, ma anche qui noi cristiani veniamo da secoli di teologia monastica della spiritualità, in base alla quale la via della perfezione era eminentemente quella del celibato/verginità consacrati. Il matrimonio era per chi proprio non ne potesse fare a meno, un rimedio per le persone non adatte alla vera spiritualità… Molte donne e uomini sposati vivono ancora, più o meno consapevolmente, questo senso di inferiorità disastroso, e la pastorale ordinaria fomenta questa ambiguità, ad esempio quando si prega per le vocazioni, intendendo solo quelle sacerdotali o religiose. Nessuna comunità cristiana contemporanea potrà più crescere su questi presupposti culturali di origine medioevale non sottoposti a critica storica. Nessun rinnovamento spirituale può prescindere da un ripensamento radicale e chiarificatorio del valore della corporeità e della sessualità, intese come luoghi teologici della salvezza, e non come ostacoli da cui salvarci. Dobbiamo cioè rielaborare interamente i lineamenti delle (diverse) vie della perfezione, come itinerari faticosi di trans-figurazione da dentro del corpo/mondo, e non come sentieri ascetici di negazione o di fuga.

Cristo e la nuova era

“Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarci”(Novo millennio ineunte n.58)
Abbiamo un grande oceano davanti a noi. Per attraversarlo dobbiamo sviluppare in noi lo spirito dell’avventura. Gli esploratori affrontano l’oceano aperto, non i sedentari ; i capitani coraggiosi, non chi ha paura di perdere le terre del già noto. La barca poi è guidata dall’alto, e quindi non abbiamo proprio niente da temere. Accettiamo la nostra crisi di identità personale, storica, ed ecclesiale come una straordinaria occasione di conversione e di ricominciamento, e cioè con spirito pasquale. Abbiamo da riconoscere e da smaltire errori e pregiudizi secolari, e non per spirito autodenigratorio, ma in quanto è solo il franco riconoscimento degli errori del passato che può liberarci per il presente, come ha ricordato Giovanni Paolo nell’omelia della prima Domenica di Quaresima del 2000, dedicata proprio alla storica richiesta di perdono : “Riconoscere le deviazioni del passato serve a risvegliare le nostre coscienze di fronte ai compromessi del presente”.
Siamo ad un nuovo inizio, in un tempo straordinariamente propizio perciò. Ricordiamocelo con gioia. “Ho l’impressione”, diceva ancora Lustiger in un’intervista del 1982,”che forse la nostra epoca è dopo l’antichità una delle prime in cui il cristianesimo suona come una novità. (…) in questa nuova era il cristianesimo appare finalmente nella sua giovinezza che torna a manifestarsi”.
Cristo dunque e la sua nuova era : un programma davvero millenario che ciascuno di noi ed ogni comunità può però incominciare a sviluppare fin da adesso ascoltando ad ogni respiro ciò che lo Spirito ci sussurra all’orecchio del nostro cuore.