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Perché e come scrivo poesia

in attesa di un pubblico, in attesa di un mondo

Nella mia poesia entrano parole di ogni genere, anche volgari o di uso quotidiano, come cesso, intestino, mignotta; o anche proprie dei linguaggi tecnici o specialistici, come video, underground, vulcanizzato, handicap, gene, e così via. Ciò che conta è direi l’impasto: l’immagine che nasce deve cioè comunque lampeggiare, essere in un certo senso rivelativa, e cioè rivelare un qualche aspetto della trasformazione, del metabolismo materico e psichico che è in atto in me come in tutte le cose, nel mondo come unità linguistica. Questo effetto rivelativo accade linguisticamente al di là di ogni controllo stilistico, è un puro evento, una vera e propria rivelazione appunto, che si può servire di qualsiasi parola, utilizzandola direi inconsciamente, nel senso di Campana, e cioè inserendola in una visione, in una sorta di sogno profetico, che dà significati imprevedibili alle cose più comuni, come accade appunto nei sogni.

Effettivamente risulta sempre più difficile delineare una tradizione storica lineare e continuativa nella poesia contemporanea; ma non mi sembra che questo fenomeno riguardi solo le ultime generazioni. Credo piuttosto che almeno a partire dal protoromanticismo tedesco l’esperienza poetica occidentale sia andata avanti proprio attraverso fratture e confutazioni dell’intera tradizione letteraria precedente, pensiamo solo alle rivoluzioni di Hoelderlin e di Novalis, di Rimbaud, di Mallarmé, di tutte le avanguardie, e così via. Oggi questo carattere rivoluzionario e antiletterario dell’intera poesia contemporanea è come rimosso, così come si tenta di rimuovere la natura di fine/inizio epocale che possiede il Novecento e ancora di più il nostro tempo. Ma se non ci fermiamo nuovamente a riflettere sull’effettiva frattura rivoluzionaria, che è una vera e propria svolta antropologica, che è in corso, rischiamo di disorientarci del tutto, e di procedere a tentoni, senza alcuna comprensione di ciò che ci sta accadendo. Ed è proprio questo sbandamento teorico che spiega l’arbitrarietà, mista ad infantile presunzione, con cui si inventano tradizioni, filiazioni, linee o scuole letterarie.
Sicuramente questa perdurante debolezza storico-critica rende il panorama poetico contemporaneo estremamente fiacco e poco incidente. Spesso ci si limita a infondate scelte di (cattivo) gusto, oppure è semplicemente la forza (commerciale) della casa editrice ad accreditare il valore (?) delle opere. Abbiamo bisogno al contrario di una nuova critica che sappia riprendere il discorso storicamente consapevole che la grande poesia ha continuato a fare lungo tutto il Novecento, e che ci parla di una ultimatività del nostro tempo e di una trasformazione radicale, direi iniziatica, ancora possibile offerta alla nostra umanità. Abbiamo bisogno di una critica che sappia discernere gli autori e le opere che incarnino più intensamente questa passione trasformativa, e che sappia perciò indicare il filo reale e forte che unisce le generazioni. Questo filo c’è, ma lo vede solo chi in qualche modo lo produce e lo prosegue. Ad esempio in Italia ne intravediamo la fievole ma costante luce in Campana come in un certo Montale, in un certo Ungaretti come in un certo Luzi, ma anche nelle passioni apocalittiche di Pasolini o nelle alchimie linguistiche di Porta. Forse si potrà prima o poi comporre una nuova antologia della poesia italiana del Novecento, che raccolga quei testi che ancora ci possono servire, in cui parli cioè l’uomo che sta nascendo a fatica in ciascuno di noi.

E’ difficile definire concettualmente l’essenza di un verso, mi limiterei a dire che per me un verso è tale se lampeggia, se dà luce come un lampo, se suona come una verità evidente e dimenticata, e cioè appunto come una rivelazione. Un verso mi deve dire qualcosa di inaudito eppure semplice. Deve accadere, deve venire dai segreti spirituali del mio corpo e darmi un incremento vitale di pensiero: mille watt per tutto il sistema nervoso: una pace luminosa, la sensazione che la cosa è fatta. Perché questo accada è spesso richiesto un lavoro di anni. Difficilmente pubblico una poesia prima di averla lavorata per almeno 5 o 6 anni, e nella maturazione di un libro mi capita di buttare centinaia di testi inadeguati. Perché una poesia si formi deve infatti cadere tutto ciò che so, tutte le mie menzogne, le mie esagerazioni, la mia volontà di dire. La lingua deve ridursi a cristallo. E risuonare, come un cristallo. Il testo deve risuonare di un unico suono, coerente, implacabile, ogni sillaba da un capo all’altro del testo deve concordare con tutte le altre in modo del tutto naturale eppure sorprendente e nuovo. Se questa percezione si ripete per anni e in situazioni emotive diverse, col mal di capo o in piena salute, quando sono lucido o quando sono confuso e demotivato, allora so che questo testo è una poesia. La verifica è cioè tutta fisica, è il linguaggio che parla nella mia carne e mi dice: questo è un verso, e l’insieme di questi versi è una poesia.

Nessun testo autentico può nascere ormai da un contenuto “concettuale” prescritto, per i motivi che ho esposto sopra. Il contenuto di partenza è piuttosto una certa energia, una temperatura, uno stato più o meno alterato della coscienza. Il contenuto è cioè emotivo: c’è una disperazione in me che incomincia a parlare; c’è una gioia che incomincia a delirare, a uscire coè dai limiti di tutto ciò che è noto. Leopardi, in tal senso, chiude il grande ciclo della poesia egoica occidentale, controllata cioè dalla coscienza del nostro io, recluso nell’autoriflessione Il mio io poetico, al contrario, non possiede i propri contenuti “concettuali” prima dell’atto poetico stesso, ma mi si rivela di poesia in poesia, nasce e cresce poeticamente, come d’altronde l’identità dell’uomo contemporaneo, che è sempre più metamorfica, trans-figurante, aperta alla rivelazione di ciò che sta per nascere in ciascuno di noi, e che in ogni momento vuole spazio (mentalmente libero) per avvenire, per farsi me stesso. D’altronde non c’è alcun automatismo nella rivelazione linguistica che la poesia è; tutt’altro. La parola nuova parla tramite me se io, il mio nuovo io in ascolto, so riceverla, accoglierla, tradurla nella mia carne verbale, in questo italiano del 2005, e cioè se mi impegno a corrisponderle responsabilmente. Potremmo arrivare a dire che la rivelazione del nuovo, a tutti i livelli, dalla creazione poetica fino all’autocomunicazione di Dio, è sempre un lavoro umano, di cui siamo pienamente responsabili.

Tutto il mio lavoro poetico è realizzato nelle prime ore della giornata, tra le 7 e le 11, nel mio studio, con la mia penna stilografica dall’inchiostro verde. E’ verde dal 1999, per trenta anni era stato nero. Un senso ci sarà in questo recente passaggio di colore. Anche il mio penultimo libro, Preparativi alla vita terrena, ha i titoli di copertina in verde, e non per mia volontà, ma per una scelta autonoma dell’editore. Che il verde della terra, di una nuova vita terrena stia sbocciando dal nero di tante mortificazioni precedenti? La prima lettrice è quasi sempre stata mia moglie Paola.

Quando mi sono nutrito fortemente di un poeta, mi è capitato di leggerlo ad alta voce e nella sua lingua, perché la vera poesia è intraducibile. La risonanza linguistico-rivelativa semplicemente svanisce in quasi tutte le traduzioni. E’ penoso leggere Celan in italiano, o Trakl o Dylan Thomas. Io non ho incominciato a scrivere mosso dalla lettura di altri poeti. Ho incominciato a scrivere tra i 13 e i 14 anni perché nella scrittura trovavo un luogo, uno stato mentale in cui respirare, una dimensione libera in cui placare la mia ansia ma anche dare voce alla mia gioia a volte incontenibile, pazzesca. Chiamavo i miei testi: pensieri o sogni, e non li mettevo affatto in relazione con le poesie che ci facevano studiare a scuola. Non vedevo alcun nesso. Ho impiegato almeno 10-15 anni a capire in che senso il mio fare avesse qualcosa a che vedere con ciò che mi veniva trasmesso come poesia, e a comprendere che comunque questo nesso non era affatto così stretto e lineare, e che la mia sensazione di estraneità aveva un qualche fondamento storico e spirituale, tutto tra l’altro da indagare. Per cui mi dedicai, tramite Heidegger, alla comprensione anche teoretica del nuovo statuto di verità che il dire poetico stava rivendicando.

Non mi pare che sussista alcun gusto condiviso per la poesia né alcun pubblico. Risulta del tutto oscuro perché dovremmo perdere il nostro tempo a leggere libri spesso inutili e mortalmente noiosi. Non sussiste un pubblico dunque, in quanto la poesia non possiede una collocazione culturale chiara, non si sa più che cosa sia e nessuno si prende la cura di spiegarcelo. Per me la poesia ha senso solo come rivelazione della metamorfosi (psicologica e storica) in atto. Essa può aiutare l’uomo e la donna metropolitani, che patiscono la propria crisi evolutiva senza nemmeno sapere che cosa stiano vivendo, a comprendere il senso evolutivo del loro travaglio. La poesia è cioè uno degli strumenti del passaggio evolutivo in atto: una diaconia del Nascente: lo strumento ostetrico della sua nascita linguistica. Il pubblico della poesia è composto perciò dalle persone che se ne servono (spesso inconsapevolmente) per liberarsi dalla cappa di morte che ci sovrasta. Questo pubblico è dunque in formazione, come è in formazione l’umanità che saprà riprendere il discorso della propria storia, e cioè la storia della propria liberazione.

La poesia dà luce di eternità a ciò che abbiamo sotto gli occhi, e che non riusciamo a vedere. La poesia ci mostra la luce segreta delle pesche, delle pozzanghere, della carne ferita o raggiante. La poesia è cioè carnale, proprio perché è spirituale e viceversa. L’evento rivelativo è sempre carnale-spirituale: sono i sensi che diventano rivelativi. Ecco perché tanta poesia intellettualistica denota solo una carenza di fuoco erotico, e cioè di spirito, in definitiva uno stato morboso, una patologia storico-culturale. La poesia autentica invece riporta sempre a terra, alla santità della vita terrena, dei suoi limiti e delle sue speranze. Perciò ci può aiutare a trovare la nostra via di salvezza. L’attività spirituale dell’uomo è oggi ridotta alle prassi intellettuali, alle astrazioni del concetto e alla simbolizzazione informatica. Ma lo spirito dell’uomo non è solo razionalità e produzione, è anche visione, rivelazione, potenza creativa originaria. Se non vogliamo proseguire in una linea suicidaria, davvero insostenibile, dobbiamo perciò imparare a riequilibrare nella nostra vita quotidiana e nelle gerarchie dei saperi la razionalità con l’emozione visionaria, il computer con la meditazione, la chat con la cura dell’incontro fisico, le leggi del mercato con la gioia della gratuità, il linguaggio dei telegiornali o delle SMS con il canto della preghiera e dell’invocazione. E la poesia può aiutarci a ritrovare questa concretezza fisica, questa lentezza gioiosa in cui le cose vere maturano e la vita si rinnova.

Risposte ad un questionario sui Poeti del 2000, curato da Riccardo Held, per la Rivista Studi Duemilleschi, diretta da Cesare De Michelis, numero 2, 2002