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Testimoniare la speranza nel tempo dell’agonia delle civiltà

Alcune riflessioni in vista del Convegno ecclesiale del 2006

Nella Traccia di riflessione diffusa in preparazione del Convegno ecclesiale nazionale dell’ottobre 2006, che si terrà a Verona, viene nuovamente ribadita con forza la specificità, la singolarità, e, in un certo senso, la decisività ultimativa del tempo che stiamo vivendo: “Domande acute sorgono dai mutati scenari sociali e culturali in Italia, in Europa e nel mondo, e ancor più dalle profonde trasformazioni riguardanti la condizione e la realtà stessa dell’uomo. Nel tramonto di un’epoca segnata da forti conflittualità ideologiche, emerge un quadro culturale e antropologico inedito, segnato da forti ambivalenze e da un’esperienza frammentata e dispersa”. In un simile contesto di svolta antropologica, in cui cioè sono gli stessi lineamenti della nostra umanità ad essere ridisegnati, le cristiane e i cristiani sono chiamati ad essere testimoni di una speranza: “Testimone è chi sa sperare. La testimonianza cristiana è contrassegnata dalla speranza di Pasqua, dal giudizio sul peccato del mondo che non ha accolto il Salvatore e dalla riconciliazione con cui il mondo viene redento e trasfigurato. Il luogo di questa riconciliazione è l’uomo nuovo, restituito alla buona relazione con il Signore e reso capace di plasmare la vita, di condurre un’esperienza quotidiana di relazione in famiglia, con gli amici, al lavoro, nella società”.
Siamo dunque chiamati a testimoniare che anche adesso, o forse, ora più che mai, proprio in questo tracollo di certezze, in questo smarrimento planetario, una nuova umanità sta prendendo corpo in noi, e questa testimonianza dev’essere estremamente concreta, priva di retorica “religiosa”, dobbiamo semplicemente mostrare con i nostri comportamenti quotidiani e con le nostre parole che la vita sta crescendo, che proprio in questo momento la libertà umana si sta ampliando e approfondendo in modo nuovo e al di là di ogni immaginazione. Il senso di questo tipo di testimonianza tutta incarnata viene precisato molto bene dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: “Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi – un santo, un peccatore convertito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano – ed è questo che io chiamo ‘mondanità’ o ‘essere-in-questo-mondo’, cioè nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze acquisite e delle perplessità-, allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio.”
Solo allora, in un certo senso persi nel magma della storia e proprio per questo del tutto abbandonati a Dio, l’altra luce può trasparire attraverso di noi, e la nuova umanità divina prendere corpo e prendere voce in noi.
Questo grande tempo richiede perciò una straordinaria purificazione da ogni autosufficienza “religiosa”, da ogni ritualismo sacralizzato, da ogni illusione di possedere la verità, da ogni cristallizzazione mentale. Siamo spogliati da tanti rivestimenti culturali e religiosi della storia, siamo messi a nudo, esposti nella nostra semplice e fragile umanità, e proprio così siamo sempre più prossimi all’umanità trasfigurata di Cristo, nudo, povero, senza religione, senza insegne, senza legittimazione terrena, perseguitato dai sacerdoti di tutti i templi, rinnegato dai dottori di tutte le dottrine, reietto dal popolo dei credenti, puro corpo, pura parola, Uomo Nuovo.

Da questa nudità estrema l’umanità moderna potrà riscoprire il senso autentico della buona novella: il compimento di tutte le storie belliche bagnate di sangue, la consumazione dei tempi di tutte le umanità culturali e religiose che hanno trasformato la terra in un luogo di orrore e di terrore, e la contestuale pro-creazione di una umanità nuova, liberata dal potere della paura e della morte.
Ora forse ci potrà diventare un po’ più chiaro come mai il cristianesimo storico stia vivendo una profonda crisi rigenerativa. Diventare testimoni nella nudità della nostra semplice incarnazione è infatti molto più difficile che proclamarsi cristiani o inalberare il vessillo dei “valori cristiani” o delle famose “radici cristiane dell’Europa”. Che ci vuole infatti a dirsi favorevole ai valori cristiani? Lo possono fare benissimo anche atei come Pera o Ferrara, o dittatori sanguinari come Franco o Pinochet. Ben diverso è assimilarsi fisicamente alla umanità trans-figurata di Cristo, spogliandosi di ogni altro orpello culturale o religioso, e cioè attraversare fisicamente il travaglio quotidiano della morte/nuova vita, e cioè della Pasqua.
Il cristianesimo storico sta in altri termini attraversando una crisi di più piena realizzazione dei misteri che annuncia: siamo chiamati ad incarnare più pienamente e a comprendere più profondamente le parole che continuiamo a ripetere: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”(Gv 12,25).
Quando però il dinamismo pasquale va a toccare queste profondità del nostro essere le cose si complicano. A quelle profondità non basta più dirsi cristiani, alla Benedetto Croce, si tratta di perdere del tutto ogni autofondazione, anche religiosa, si tratta di attraversare aree spirituali ed esperienze interiori in cui non sai più chi sei, in cui resta solo un gemito e a volte un grido, si tratta di oscillare tra l’annientamento puro e semplice e il puro e semplice miracolo di una vita ricominciata: Croce e Risurrezione. Lì molte cose umane, molte tradizioni umane semplicemente non hanno più alcun senso, e divengono spaventosamente vere le parole di Gesù: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione”(Mc 7,9). E’ lì che nasce la Nuova Umanità, è lì che ci stiamo unificando volenti o nolenti, triturati come olive o uva o frumento nel frantoio inesorabile della storia, è lì che si sta configurando l’unico Genere Umano: unificato appunto attraverso il crollo di tutti i muri divisori. Annunciare che questo miracolo sta avvenendo proprio ora nel grande frullatore planetario di questi anni significa testimoniare la speranza cristiana, nella sua essenza messianica, e cioè come fine di questo mondo fatto di guerre e di divisioni (culturali e religiose) tra sorelle e fratelli, e inizio di un mondo di relazioni umane svelenite, purificate cioè dal veleno del potere e dell’asservimento. Significa annunciare, in altri termini, che non è in atto alcun conflitto di civiltà, ma solo l’agonia di tutte le civiltà fondate sul principio bellico della separazione e dell’autoaffermazione polemica.

Nella Traccia del Convegno ecclesiale leggiamo ancora: “Nulla appare veramente stabile, solido, definitivo. Privi di radici, rischiamo di smarrire anche il futuro. Il dominante ‘sentimento di fluidità’ è causa di disorientamento, incertezza, stanchezza e talvolta persino di smarrimento e disperazione”. Tutto vero, naturalmente. Eppure in questa fluidificazione sussiste anche un elemento evolutivo. Molte cose, molti valori, molte tradizioni, infatti, è un bene che siano liquidate, come società in fallimento. Pensate per un momento com’era il mondo europeo quando certi valori religiosi erano fin troppo solidi. Pensate a che cosa hanno prodotto gli uomini nella loro illusione di possedere solidamente la verità e di doverla perciò imporre agli altri. E allora ben venga un po’ di liquidazione delle nostre arroganze secolari, delle nostre certezze usate come armi contro gli altri, di tutta la nostra vanità e di tutta la nostra retorica, che in nome di Dio ci ha fatto scannare vicendevolmente per millenni, in nome della patria ci ha spinto a sterminarci per qualche “sacro confine”, e in nome della famiglia ha creato più inferni che focolari d’amore. Gianfranco Ravasi ha voluto commentare alcuni miei versi su Avvenire, intitolando il suo Mattutino proprio Fluidità. I versi dicono: “Donami anche per oggi il buonumore,/ l’ilarità vincente dei bambini/ prossimi al pianto,/ quasi non ci fosse differenza/ nella dolce demenza, nell’insieme./ E’ la fluidità/ l’arte del cuore/ che m’insegni, lo scorrimento/ a vuoto”. E Ravasi, rispetto agli evidenti pericoli di un’eccessiva fluidificazione, fa anche notare che: “Tuttavia esiste anche il rischio opposto, quello della rigidità, dei pensieri rattrappiti, dei sentimenti legnosi, degli odi imperituri, delle idee fisse, degli scoraggiamenti definitivi. Ecco, allora, questa fluidità che ci permette di transitare da una situazione all’altra, di fare qualcosa anche ‘a vuoto’, in libertà e gratuità”.
Che la liquidazione moderna porti con sé, almeno in parte, la forza liquidatoria del battesimo? Che non sia proprio questo tempo un’epoca battesimale, in cui venire rigenerati in una figurazione nuova e più autentica della nostra umanità? E che questa transizione non richieda proprio quello spirito dell’infanzia che è il più fluido di tutti, il più aperto alla novità e alla sorpresa?