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Tornare a respirare

Il tempo che ci manca

Come ogni altro fenomeno contemporaneo anche la crescente mancanza di tempo ci segnala, se la interpretiamo alla giusta profondità, il raggiungimento da parte della nostra società di un limite estremo, di una soglia pericolosa che mette in discussione la nostra stessa sopravvivenza come esseri umani. Osserviamo perciò più da vicino questo rilevantissimo segno dei tempi.

La prima evidenza è che appunto il tempo ci manca sempre di più, nonostante tutta la strumentazione tecnica di cui disponiamo, e che sarebbe adibita proprio ad alleggerire ogni nostra fatica, e ad accelerare e a semplificare i nostri movimenti e le nostre relazioni, per offrire appunto più tempo a nostra disposizione. Ed invece si sente dire sempre più spesso negli uffici o al supermercato: Non ho più tempo neppure per respirare, e questa lamentela proviene dalle categorie più disparate : la casalinga e l’imprenditore, la studentessa e il bambino delle elementari, il parroco come il commerciante, la suora come la commessa della frutteria non hanno più tempo. Chi sa dove sarà andato a finire questo benedetto tempo, dove si sarà nascosto, chi se lo sarà rubato?…
Il capo polinesiano Tuiavii, che fece un viaggio in Europa negli anni ’20 del secolo scorso, già notava: “Ci sono Papalagi (uomini bianchi) che affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perché hanno perduto il loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta alla rovina”.

Questa fretta interiore, questa mancanza di respiro e di ritmo, questa frenesia delle telecomunicazioni, ma anche del tempo “libero”, divenuto spesso più stressante e più schiavizzante dello stesso lavoro, con i consueti bollettini di guerra e le decine di morti ad ogni week-end estivo, ci ammala profondamente, con costi sociali immensi che ancora ben pochi prendono in considerazione: “L’apparente benessere indotto dal nostro sistema di vita assomiglia a una sottile vernice. (…) Gli ingranaggi che girano senza sosta, l’ininterrotto movimento dei nastri non costringono solo il cuore entro il loro ritmo. Tengono in loro potere anche le cellule. Di conseguenza, non incrementano solo le malattie del cuore, ma anche e soprattutto le degenerazioni dei tessuti”. E pensiamo che Ernst Junger scriveva queste cose nel 1954…

Il secondo aspetto da approfondire è lo stretto rapporto che c’è tra i ritmi della nostra vita e lo stato della nostra mente. Potremmo dire infatti che il tempo scorra alla velocità dei nostri processi mentali. Se siamo ansiosi e agitati, perciò, il tempo sarà angosciosa-mente rapido e precipitoso. Se viceversa ci troviamo davanti al mare a contemplare il quieto respiro sonoro delle onde, allora il tempo scorrerà piacevol-mente. Il tempo si manifesta, in altri termini, e si lascia esperire come espressione, distensione della nostra anima (Agostino).

Questo significa che nella nostra società l’esperienza del tempo viene accelerata e frantumata, dando per esempio pochi minuti per la pausa-pranzo, o precarizzando sempre di più il lavoro, velocizzando e frantumando al contempo i processi mentali, abbreviando per esempio i tempi di concentrazione nello zapping universale delle telecomunicazioni: “Il tumulto dell’interazione sociale spinge e strattona la coscienza degli individui, forzando una perdita di centralità del sé. Presi nel vortice di rapporti sociali concorrenti e, spesso, contraddittori che ci sommerge, dividiamo disperatamente la nostra limitata attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza”.

I due livelli, sociale e mentale, di violenza sulla nostra temporalità corporea agiscono in altri termini l’uno sull’altro in un circolo vizioso, a sua volta accelerato, che ci toglie progressivamente il respiro, e quindi ci uccide. Ecco perché un maestro contemporaneo di spiritualità Zen, come Taisen Deshimaru, è costretto oggi ad osservazioni di carattere clinico: “in un primo momento occorre ristabilire l’equilibrio tra i due cervelli riattivando il cervello primitivo che governa e coordina tutto il funzionamento organico e ormonale e calmando la corteccia cerebrale che ritrova la sua integrità in seno al sistema nervoso”.

E’ fondamentale tenere ben presente questa stretta connessione tra organizzazione sociale e lavorativa dis-integrante e formazione di una umanità sempre più mentalmente dis-integrata, in quanto non usciremo mai da questa stretta dei tempi se non impareremo ad intervenire simultaneamente sui due livelli: politico-culturale e psicologico-esistenziale (e cioè mentale o meta-noico). Questo è d’altronde proprio il novum del XXI secolo: l’integrazione tra i processi di trasformazione personale e la riprogettazione di una vita sostenibile sul pianeta , una novità per altro in cammino da tempo, se già Maritain scriveva: “Se una nuova era di civiltà, non di barbarie, deve schiudersi, l’esigenza più profonda di tale era sarà la santificazione della vita profana, una fecondazione dell’esistenza sociale-temporale operata dall’esperienza spirituale, dalle energie contemplative, dall’amore fraterno”.

Il limite di sopravvivenza che stiamo sopportando, anche rispetto alla gestione del tempo, e che sembra mandare in pezzi la stessa possibilità mentale di creare relazioni stabili e di comunicare umana-mente, dovrebbe spingerci ad una nuova riflessione antropologica radicale del tutto laica, e cioè a prescindere da qualsiasi aprioristica adesione di fede. Dovremmo tornare a chiederci con grande semplicità: ma come è fatto realmente l’essere umano? Che rapporto viviamo tra il tempo che passa e che finisce, e cioè tra la nostra mortalità, e quel senso di infinità che pure ci abita e anzi ci struttura nella nostra umanità, sempre aperta all’infinito possibile? C’è insomma in noi qualcosa che non finisce, quel respiro di Eternità che pure l’ateissimo Zarathustra di Nietzsche celebrava? Dobbiamo ripartire dalla riflessione su queste grandi domande se vogliamo affrontare in modo adeguato anche una nuova politica del lavoro, e una progettazione sociale non distruttiva.

Dobbiamo comprendere sulla base tutta esperienziale della nostra vita strozzata che il tempo ci manca essenzialmente perché non lo lasciamo respirare, non lo nutriamo di senso e di luce, e non lo lasciamo respirare perché stiamo perdendo la coscienza della sua fonte. Noi diciamo infatti che il tempo scorre, ma non pensiamo a fondo che se scorre deve pure sgorgare da qualche parte, da un qualche luogo che tempo non è, e che non possiamo che nominare come Eterno Ora. Se perdiamo il nesso consapevole con questo spazio aperto dell’Eternità Presente, il nostro tempo non può che strozzarsi, murarsi, impestarsi in paludi senza refrigerio, e quindi impazzirsi e rendere la nostra vita una terribile schiavitù.

Potremmo anche dire che un tempo di lavoro che non si nutra dell’Eterna freschezza che la festa ricorda e gode, non può che tradursi in una condanna ai lavori forzati. La festa autentica infatti non è l’ora d’aria dell’ergastolano, ma la celebrazione di un’Apertura d’Eternità che c’è sempre e sempre dà respiro e dà tempo al nostro tempo, invadendolo, guarendolo, e conducendolo al proprio compimento. La festa è cioè l’Eterno Ora vissuto e sperato, presente e futuro: è il Giorno del Signore, il Settimo Giorno, che esplode nella mia vita e nella storia del pianeta per finirla, e proprio così compierla. Dobbiamo riscoprire ad un nuovo livello di concretezza e di profondità spirituale queste verità. Dobbiamo rimettere in discussione perciò la nostra figurazione umana, il modo in cui facciamo esperienza di noi stessi, e della nostra identità, per inaugurare un’epoca e un’umanità nuove.

Il tempo ci manca dunque perché noi manchiamo a noi stessi, in quanto ci siamo rimpiccioliti al di sotto della nostra più autentica natura, ci siamo ridotti a cose di natura, ad animali, a fortuiti prodotti del caso, negando la nostra esperienza quotidiana, la nostra intrinseca apertura all’infinito. E’ dunque il nostro io che va curato, la nostra mente, il nostro cuore. Siamo noi infatti che santifichiamo il tempo, se siamo in contatto con la Fonte che ci e gli dà respiro. Immenso è perciò il lavoro che ci attende a diversi livelli tutti correlati tra di loro.

Innanzitutto dobbiamo aprire, come si diceva, una grande stagione di riflessione antropologica che sappia criticare fino in fondo tutte le visioni riduttivistiche, economicistiche, materialistiche, e scientistiche che continuano a dominare il senso comune, e che non posseggono alcun fondamento teorico, mentre uccidono giorno dopo giorno la nostra vitalità spirituale. Dobbiamo poi affermare con fermezza e senza mezzi termini ciò che già Eliot nel 1939 sapeva profetizzare con una precisione davvero strabiliante: “La costante silenziosa influenza che si esercita in ogni società di massa imperniata sul profitto, e che conduce all’abbassamento del livello artistico e culturale, mi pare più insidiosa di ogni censura. La macchina sempre più perfezionata dell’organizzazione pubblicitaria e della propaganda – ossia la tecnica per influire sulle masse con ogni mezzo tranne che con l’appello alla loro intelligenza – agisce contro l’arte e la cultura. Ostili ad esse sono pure il sistema economico, il caos degli ideali e la confusione di pensiero che distinguono la nostra eduzaione tipicamente di massa” . Dobbiamo inaugurare cioè una nuova grande stagione critica radicale della società contemporanea e del pensiero mortifero e mortificante che la sorregge.

Dobbiamo poi, specialmente in quanto cristiani, elaborare itinerari formativi che ci aiutino a sperimentare sempre più intensamente il mistero della nostra apertura all’Eterno, o, se volete, del nostro essere per davvero figli di Dio, e quindi esseri eterni, radicati già da ora nell’Eterno, ed eredi dell’Eterno.
Dobbiamo cioè educare mistici che sappiano però tradurre in cultura viva, in linguaggi operativi, e quindi in tecno-logie, in prassi sociali e politiche, la loro esperienza di connessione vitale con l’Eterno. E questa fioritura di mistici-tecnici richiede appunto una nuova formazione che sappia integrare i livelli culturale (mentale), psicologico (emotivo), e spirituale, e cioè la consapevolezza della natura singolarissima di questa fase epocale, il lavoro concreto sulle proprie ferite infantili, le proprie difese, e i propri mascheramenti distruttivi, e la familiarità con gli stati di quiete interiore, di silenzio, di contemplazione, e di dialogo con Dio, per liberare i potenziali di creatività ancora bloccati dalle nostre paure più antiche e dalle forme più occulte del nostro egoismo.

In una vita di 70 anni ne passiamo circa 23 a letto, 6 davanti alla TV, 8-9 a lavorare, 6-7 a mangiare, 3 per spostamenti in città, 305 giorni poi li impieghiamo a riempire formulari, 111 a fare l’amore, 500 in fila per uffici vari, e 106 a fare la pipì. La domanda che dobbiamo riaprire è: che cosa accade in verità durante questo nostro transito terrestre? E’ solo un povero animale un po’ bizzarro, pazzo, e infelice che passa fugacemente su questo pianeta sperduto nell’universo? Oppure è l’Eterno Amore Creatore che in ognuno di noi si dà figura umana temporale affinché in essa ogni persona lo possa conoscere e sperimentare e godere in una luce crescente di gioia e di pienezza?
E’ questo il discrimine antropologico-culturale in cui ci troviamo. Questa è la vera sfida tra il Nulla e Dio da affrontare nel cuore della nostra esistenza quotidiana come sullo scenario planetario. Ed è da come affronteremo questa sfida che si deciderà se nei prossimi secoli vivremo un tempo sempre più murato e allucinante o se ci apriremo ad un tempo nuova-mente ricolmo di senso e di respiro.

Pubblicato nella Rivista
Via Verità e Vita – Comunicare la fede,
n.4 luglio-agosto 2006, anno LV