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Poeti dell’inizio e della fine

La confessione del poeta

E’ finito il 900, ma che cosa sta veramente finendo in questo lento sfinimento occidentale?

A 19 anni, nel 1974, scrissi “Sento la fine”, una primissima riflessione sul sentimento di esaurimento storico-culturale che il mio tempo mi ha sempre dato, e da allora si può dire che non mi sia occupato d’altro.

Che cosa sta finendo? E’ solo il XX secolo che finisce, oppure è l’intera epoca moderna, come sostenne Romano Guardini 30 anni prima che Lyotard incominciasse a parlare di postmodernità? Oppure è addirittura il grandioso ciclo storico metafisico-cristiano-occidentale nel suo complesso che precipita nel proprio annientamento purificativo, come ci ha insegnato Heidegger? Oppure dobbiamo dilatare ancora di più il nostro sguardo, oltre i 2500 anni di pensiero oggettivante, e vedere tutta la storia, tutta la civiltà umana che denominiamo storica, a partire dalla nascita della scrittura sumerica intorno al 3300 a.C., che sta finendo, e si sta rovesciando in altro, come oggi sostiene tra gli altri Raimundo Panikkar?

Il mio primo libro filosofico si chiamava La Svolta, e il sottotitolo era appunto La fine della storia e la via del ritorno. Che cosa significa però che il ciclo storico come tale si stia consumando? E che cosa intendeva dire Rimbaud quando scriveva: “L’uomo ha finito, ha recitato ogni parte”?

Ciò che dovremmo comprendere innanzitutto è che questo finire che è in atto, e che è al contempo un iniziare segreto, una vera e propria iniziazione universale, non è in primo luogo un problema “poetico”, nel senso che la letteratura occidentale ha dato a questo termine; ma una questione direi antropologica, di portata appunto antropologico-culturale. Alcuni poeti hanno compreso e vissuto questo transito, a diversi livelli di consapevolezza e di intensità; ma per loro era del tutto evidente che in gioco era il destino stesso della terra. Niente di meno. Ed è a questo livello che è necessario mantenersi: “tenere il passo conquistato”(Rimbaud).

Che cosa significa allora vivere la propria umanità, e la propria specifica vocazione poetica, rimanendo fedeli a questa vertiginosa transizione, e cioè a ciò che sta accadendo? Che cosa significa essere un poeta della fine e dell’inizio? Un uomo che desidera tramontare come piccolo ego bellico per scoprire la propria identità trans-occidentale, concretamente pacificatrice? Che cosa diventa la parola poetica che si consacri a divenire voce di questa umanità post-egoica? Chi è il poeta che viene davvero “dopo il 900”, in quanto decide adesso di parlare soltanto a partire dal rovesciamento del proprio morire/finire? Chi è il poeta che parla adesso: nell’ora della propria nascita?

Ho scritto molto su questi temi. Ricordo che la mia prima conferenza importante, che tenni nel 1978 a Roma e a Milano, si chiamava proprio Finire; mentre il primo convegno che organizzai per il Centro Montale, nel 1985, lo dedicai ad alcune Ipotesi per una fine del 900; ma qui vorrei parlarne a partire dalla mia più intima esperienza, sperando così di comunicare qualcosa di più essenziale di quanto i concetti riescono a trasmettere.

LA CONFESSIONE DEL POETA

Vorrei parlarvi di tutto cuore, fratelli.
Da un luogo di perfetta integrazione.
Non so se questo sia possibile. Ma ci provo.
Non so cosa siano i versi o la poesia
Per un uomo che voglia parlare
Senza approfondire le scissioni.

Sono anni che lavoro all’emersione
Della figura di un uomo conciliato.
Di un uomo che parli e che viva
Riconciliando il cielo con la terra,
Riconiugando il possibile con il reale,
La luce di Dio col quotidiano
Travaglio, con questa
Umile parola.

Io non ho lavorato ad altro
E con me anche tutti gli altri
Poeti che ho amato. Essi cercarono
E annunziarono nei loro frammenti
Un’entità umana reintegrata, un io
Che parli non in proprio
Ma che porti nella voce una potenza
Che è quella che tutto ha creato.

E’ stato questo il senso dell’arte
E della storia di tutto il Novecento:
Fare spazio nell’uomo al suo principio.
Ognuno un re, sovrano.
Ognuno un santo, un vero
Uomo, un vero
Signore.

Era questa la passione di Rimbaud,
Quella di Hoelderlin o di Dylan Thomas,
Il sogno di Campana e degli altri:
Un uomo nuovo: Cristoforo: un procreatore
Oltre ogni legge, ogni schiavitù, oltre ogni storia
Ormai degenerata, un nuovo inizio, un ordine
Celeste sceso in terra
Per ricominciare.

La poesia divenne gestazione:
La profezia caotica di un tempo
Nuovo dell’Incarnazione, l’annuncio
Spesso inconsapevole di un uomo
Più Cristo, più Gesù, più cosciente
Di essere di Dio
L’immagine vivente, il suo ministro
Plenipotenziario,
Cui è delegata ogni redenzione.

Da quel momento la poesia non la capì
Più nessuno. O quasi. Era il balbettio
Di un essere nascente, erano i lampi
Di un giorno a venire, i sogni
Di una vita potenziata
Che i poeti per primi non vivevano
E che il mondo né conosce né ama.

Questa fu l’ultima tragedia
Dei poeti : cantare una vita reintegrata
E patire la più estrema scissione
Tra la visione e la loro realtà
Nel lavoro, nella famiglia, nella comunità
Che non li riconobbe né li riconosce
Ora per ciò che sono.

Molti impazzirono
Perciò, ignoti perfino a se stessi, fraintesi.
Molti si uccisero
Perché la vita diventava insopportabile
Esiliata dalla luce che li invadeva.

Per vent’anni tentai perciò
Di portare quella luce a terra.
Per vent’anni mi sforzai di radicarmi
A terra tanto più forte era la corrente
Elettrica che scaricava il cielo.

Capivo che l’unica salvezza
Per me erano gli altri:
Comunicare, travasare, tradurre:
Fare circolare l’energia, non intasarla
In me. Accompagnai perciò i miei versi
Con un assiduo lavoro d’interpretazione.
Non volevo che la nascita dell’uomo
Finisse in chiacchiere,
In letteratura.

Mi sposai. Era il 1985.
La terra, la donna fu per me
Paola. Ero impreparato. Ma capivo
Inconsciamente che l’integrazione
Passava da lì, da un amore
Che si fa fecondo, fecondazione
Di tutta la terra dell’uomo.

Nello stesso anno incominciai a parlare
In radio. Dialogavo quasi tutti i giorni
Di notte, per ore, con chiunque.
E anche lì faticavo a filtrare
A terra le acque
Che la mattina scendevano dal cielo.

Continuarono per anni questi sforzi
Di coniugazione. La grazia
Di Dio non mancò mai. E nacque Gloria,
Mia figlia, poi Chiara, e infine Gabriele.

C’era qualcosa però che mi diceva
Dentro : non puoi andare avanti
Più se non torni
Indietro a sciogliere i tuoi nodi
Ancora irrisolti. C’era un ostacolo finale
Alle mie nozze.

E fu così che senza volerlo
Dovetti tornare a fare i conti con mio padre
E con mia madre e con mio fratello.
Era il 1992.
Mi rifiutai di vivere le dolorose finzioni
Dell’infanzia, anche soltanto per un’ora
O per la falsa notte di Natale.

Tagliai i ponti con la mia nevrosi.
Durò tre anni. Poi mi ritrovai
A farne altri di conti, molto più duri,
Con tutte le parti di me
Che in 40 anni
Si erano costruite su quelle strutture
Divisorie che ora si stavano sfaldando.

Sembrò che tutto crollasse:
Persi il lavoro, persi la salute, quasi
La testa. Andai
Incontro ai miei terrori
Più antichi
Risucchiato come al fondo
Dell’angoscia.

Nulla aveva più senso.
E tutto sembrava perduto
E assurdo, anche se mai
Smisi d’invocare una risposta
Che doveva venire a ricrearmi.

Dopo tredici anni lasciai la RAI.
Mi chiusi in camera. Volevo curarmi.
E basta. Nel 1998
Iniziò così il terzo triennio: la ristrutturazione.

Era come un’embriologia.
Curavo la mia cellula nascente
Fragile ma già più integrata
Aspettando di sapere chi stessi
Diventando.

Era il corpo dell’anima che si unificava.
Volevo vivere solo in quello stato
Di reintegrazione, in quella pace,
Anche se questo mi portava
Fuori dal mondo. O così sembrava.

Comprai il mio primo letto
Matrimoniale. Dopo vent’anni
Incominciai a dormire con Paola.
E comprai la mia prima TV.
Rompemmo in casa molti muri.
Incominciai a fare doposcuola a Gloria.
Cominciammo poi anche a pregare
Insieme a pranzo e a cena,
A celebrare balbettando questa vita
Terrena
Senza scissioni interne o forzature.

La cellula integrata estende
La sua integrazione. E’ come un campo
Che propaga dal suo fuoco
Nucleare una potenza
Che costruisce le forme dell’amore:
Le convivenze.

Volevo perciò comunicare
Solo a quel livello, comunicare integrazione
E pace.
Volevo vivere ciò che la poesia
Aveva profetato, senza accontentarmi
Di proiezioni fantastiche o di compensazioni
Immaginarie.

La poesia dell’inconscio era finita.
I conflitti profondi li affrontavo ormai
In piena luce. Non scrissi
Perciò versi per tre anni.
Era da trent’anni che non mi succedeva.
Raccolsi però due gruppi di amici
Per provare a crescere insieme
Nella gioia del perfetto perdono.

Il campo dell’uomo unificato
E’ un sistema di relazioni, una cerchia
Di amicizie che si allarga.
Perché Dio è un soggetto plurale
E Cristo siamo noi, un popolo,
Un collettivo.

Ora davvero non so
Se ci sarà una poesia
Ancora per me, e in questa nuova
Era che si apre. Non so
Cosa sarà della mia vita.
Ma cosa importa? Io so
Che Dio è questa gioia
Che si espande, questa vita
Eterna e terrena, questa poesia
Che è scritta nella carne
Per rischiararla
E farne il nostro cielo.

Tratto dal volume di MG Nella mia storia Dio, Passigli 2005.