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Una parola fuori dal coro

Il rifiuto profetico di questo mondo
nell’esperienza poetica contemporanea

Viviamo in un tempo di straordinari mutamenti e di un altrettanto sconvolgente conformismo. E questo allestisce nel mondo una situazione paradossale, in quanto tanto maggiore sarebbe il bisogno di spinte innovatrici radicali, di idee capaci di orientare il processo di trasformazione in atto, e tanto più opprimente sembra farsi il clima di piattezza intellettuale, di omologazione, e di inerzia spirituale di coloro che dovrebbero appunto offrire l’energia mentale, le parole-guida, gli orizzonti di senso alla nostra umanità coinvolta in uno dei passaggi antropologici più radicali della sua storia.
Scrittori, filosofi, registi, politici, programmisti radiotelevisivi, tranne rarissime eccezioni, sono divenuti tutti funzionari di questo mondo tecno-mercantile, con qualche increspatina tragica o ironica, certo, con qualche riserva politicamente corretta, è ovvio, con qualche imbronciatura da salotto, ma sempre ben inseriti nella rete di insensatezza pubblicitaria e di menzogna patinata in cui ci siamo abituati a soffocare, a vivere senza respiro, senza ossigeno spirituale, senza senso.

Ecco perché può risultare interessante meditare sull’esperienza “fuori dal coro” dello scrittore di Chiaravalle Massimo Ferretti (1935-74), per riflettere più in generale sul significato che assume la progressiva estraneità e il senso di rottura nei confronti della società che si sviluppa nell’ambito della poesia contemporanea già a partire dal protoromanticismo tedesco. Pensiamo a Hoelderlin, per esempio, che, il 10 gennaio del 1797, scriveva all’amico Ebel: “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”. Da dove scaturisce questa ribellione che si approfondì poi in poeti come Rimbaud o la Dickinson, come Campana o Dylan Thomas o tutti gli altri? E quali sono i possibili sbocchi di un simile rifiuto del mondo dato, che assunse a volte tonalità addirittura apocalittiche, pensiamo ad esempio all’ultimo René Char o appunto alle Apocalissi di Ungaretti?

Come sappiamo Massimo Ferretti si sentiva estraneo al suo mondo: “E non sono/ nel coro. Io sono solo” (Ballata Interrotta in Allergia, Marcos y marcos 1994, p. 36); si sentiva “allergico” nei confronti della società letteraria e dei suoi giochetti, nonostante l’ottima entratura che aveva ricevuto da Pasolini. Ma qual è il livello, la profondità di questo suo sentirsi estraneo? Quale ne è la vera causa?
Un primo livello di risposta fa riferimento allo stato di salute di Ferretti, che fin dall’infanzia era affetto da endocardite reumatica, una malattia che obbligava il suo cuore a battere “a suo modo”, e gli impedì una qualsiasi integrazione sociale, tanto che a 25 anni superò insieme a Bernardo Bertolucci e a Enzo Siciliano le prove scritte e orali per diventare programmista in RAI, ma poi non venne assunto proprio per mancanza di idoneità fisica.
Ma era proprio l’endocardite la vera causa del suo senso di radicale estraneità al mondo? Oppure le sofferenze fisiche e psicologiche agirono da forcipe per una coscienza infelice di ben altra radicalità? E’ come chiedersi: si può spiegare il pessimismo cosmico di Leopardi con la sua costituzione fisica malaticcia?

Un secondo livello di risposta allarga lo sguardo alla condizione alienata di un’intera società: il senso di estraneità dipenderebbe cioè da quel disagio della civiltà che si accentua di decennio in decennio, specialmente a partire dalla Rivoluzione Industriale: “Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati./ Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato” (Allergia, p. 31).
Qui l’estraneità non è solo subìta, ma cercata, voluta, e si basa sulla denuncia di una condizione storico-sociale sempre più disumanizzata. Eppure Ferretti non credette mai in una soluzione politica dell’alienazione umana, e quindi non aderì neppure al coro ideologico tanto forte in quegli anni, non riuscì cioè mai ad illudersi: “Ma dove andare per non essere dei loro/ se il mondo resta eternamente uguale?”(p. 77). E finisce così per votare per il padre quando partecipa per la prima volta alle elezioni del ’57: “E ho votato per mio padre -/ libero professionista indipendente/ nella lista slavata del Partito Liberale” (p. 77), manifestando una scelta di radicalità antiideologica davvero singolare nell’Italia del ’50.

C’è dunque un terzo livello di risposta che va a ricercare il fondamento del nostro senso di estraneità nella costituzione stessa dell’essere umano: l’uomo in una certa misura è e si sente straniero sulla terra in quanto tale, come cantò Georg Trakl: Es ist die Seele ein Fremdes auf Erden: E’ l’anima straniera sulla terra. Un’intuizione d’altronde che ritroviamo in tutti i tempi e in tutte le tradizioni filosofiche e religiose: da Platone fino a Heidegger, dal racconto biblico della Caduta fino allo schema hindu della Maya universale.
Ma perché noi umani saremmo almeno in parte stranieri su questa terra? Qui si aprirebbe ovviamente una riflessione di portata ben più ampia di quanto sia possibile in questa sede. Mi limiterò perciò ad un unico punto che mi sembra però decisivo.

Noi umani tendiamo a dare un significato ad ogni cosa, ad ogni pur minimo evento della nostra vita, da quando ci alziamo dal letto la mattina fino a quando andiamo a dormire ogni nostro momento è fondato su una percezione più o meno consapevole di significato. Heidegger perciò sosteneva che il senso è un’esistenziale, è cioè una struttura costitutiva dell’esistenza umana. Su questa base essenziale costruiamo poi tutti i nostri mondi storici: politica e arte, diritto e religione, che sono tutti universi appunto di significati. Questa nostra innata necessità di dare un significato a tutto è però inserita entro una natura mortale, che sembra confutare e alla fine dissolvere ogni sensatezza, ed entro una struttura fisico-naturale cosmica che più viene studiata dalle scienze naturali e più ci appare governata da una casualità brutale. Per cui l’essere umano si è sempre sentito lacerato tra due mondi e oggi io credo che dovremmo reinterrogarci con nuova semplicità su questa nostra condizione: insomma chi è veramente l’Uomo entro l’universo visibile? Che cosa significa questa nostra pretesa di senso, questo nostro essere almeno in parte estranei rispetto a tutto ciò che i nostri sensi corporei ci mostrano?

Al punto storico cruciale in cui ci troviamo mi pare che le risposte razionali a questo interrogativo si riducano sostanzialmente a due. La prima dirà: l’uomo è davvero l’essere più bizzarro della natura, è costruito su una pretesa di senso che non possiede alcun riscontro nella costituzione universale dell’essere, e quindi rispetto al tutto è un pazzo, l’animale più assurdo che si possa immaginare, e in fondo anche il più sfortunato, perché porta nel cuore una pretesa senza fondamento. L’essere umano è in altri termini un fallimento costituzionalmente, una passione inutile e triste.
Questa risposta non può che condurci ad una cupa disperazione, naturalmente se siamo in grado di andare fino in fondo ai nostri pensieri, se non ci vogliamo prendere in giro, se abbiamo insomma l’onestà e la lucidità di un uomo come Leopardi.
Oggi viceversa ci vorrebbero far credere che si possa vivere benissimo e allegramente rinunciando a qualsiasi orizzonte di senso definitivo, e cioè perdendo la nostra essenza costitutiva, e quindi in fondo da animali; ma questo semplicemente non è vero. Quando noi umani tentiamo di rinunciare alla nostra strutturale pretesa di senso, di un senso benevolo e di un compimento felice della (nostra) storia, ci deprimiamo ineluttabilmente, e non possiamo che oscillare tra l’attivismo frenetico di chi vuole fuggire da se stesso, e le cicliche ricadute depressive di chi periodicamente non può che incontrare il proprio volto sconvolto. In questa oscillazione maniaco-depressiva si esprime gran parte della nostra attuale vita quotidiana.

La seconda risposta razionale al problema della estraneità costitutiva dell’essere umano rispetto all’universo visibile è invece che questa nostra pretesa di senso ci segnali qualcos’altro: ci indichi cioè che noi umani portiamo entro la natura qualcosa che in essa non è immediatamente visibile. Questa risposta razionale ci dice che nell’essere umano vive e si esprime e diventa consapevolezza qualcosa che è più grande e più prezioso di tutto ciò che ci si mostri nel mondo visibile. L’Io umano custodirebbe cioè in sé un mistero che letteralmente non è di questo mondo, ma che verrebbe in questo mondo proprio per rivelarne il Senso. La nostra estraneità sarebbe perciò segno di una straordinaria superiorità dell’uomo rispetto al mondo intero e a tutte le sue limitazioni, e quindi segnalerebbe in definitiva la nostra appartenenza ad un’altra patria. Intuizione questa anch’essa pressoché costante in ogni tradizione religiosa della terra, fino al nostro cristianesimo: “La nostra patria invece è nei cieli” (Fil 3,19). E’ per questo che qui ci sentiamo almeno in parte stranieri e pellegrini. Perciò per noi umani è molto più importante e determinante per l’andamento concreto della nostra vita personale e comunitaria il senso che non vediamo, piuttosto del non-senso che vediamo: “noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,18).

Questa nostra parte “extra-terrestre” d’altronde ci si fa continuamente sentire, se le prestiamo ascolto, e ci dona orientamento e fiducia. Ferretti ascoltò subito la sua voce: “Ah, o voce!, i meravigliosi pensieri/ che involontariamente formula il cervello/ e che il cuore approva e vi si indugia,/ dillo che non sono sogni/ o magari trovagli un altro nome!” Comprese anche che questa Voce ci sta dicendo che un’intera epoca della nostra storia si sta compiendo e che dovremo imparare a rinascere da un grande dissolvimento di tante figurazioni storiche dell’identità umana: “LA NOSTRA ETA’ FINISCE QUI: ORMAI E’ PASSATA./UN NUOVO FARDELLO PESA SUI NOSTRI NUOVI NOI:/ AIUTALI TU, SIGNORE, SE LO PUOI./ LA NOSTRA PREGHIERA PARTE DAL PROFONDO:/CORRA LA VOCE IN TUTTO IL MONDO!…”(p. 24).

Io credo che dovremmo ripartire proprio da questo altissimo livello di consapevolezza e farci tramiti, come esseri umani e anche come poeti, di questa nostra estraneità positiva, che non si esilia dal mondo nell’amarezza dell’impotenza, ma accetta in pieno il senso della propria missione: portare ovunque nel mondo un Significato, una Speranza, quella Voce davvero rivoluzionaria che ci dice che noi non siamo di questo mondo, ma ne siamo i redentori: coloro che portano nelle pieghe oscure e dolorose della realtà la Luce del suo senso.

Tratto da Giovani poeti leggono Massimo Ferretti, Antologia a cura di F. Serpilli,Ed. peQuod 2007.