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Dico sì o Dico no

E’ questo il problema?

Per comprendere l’enorme scalpore che si è sollevato e continua a propagarsi intorno ai Dico dovremmo ricordare che questo è solo uno degli ultimi capitoli di una lunghissima storia. Sono almeno due secoli infatti che le istituzioni sociali dell’Occidente vivono una sorta di crisi permanente, e in particolare nel XX secolo non solo la famiglia, ma lo Stato nazionale, la scuola, la Chiesa, e tutte le aggregazioni politiche e sindacali sono entrate in un travaglio che a volte sembra di tipo terminale. Il grande filosofo cattolico Jean Guitton perciò scriveva: “Non vedo nella storia una crisi che sia paragonabile a quella che conoscerà il secolo XXI. Stiamo avanzando verso trasformazioni più grandi, verso eventi imprevedibili, di un’importanza inaudita”.

Purtroppo la consapevolezza della portata della crisi in atto è molto offuscata, sia in ambito cattolico che in ambito laico, e questo obnubilamento culturale rende molto confuse le analisi dei fenomeni contemporanei. Dovremmo invece tenere sempre presente che moltissime forme della nostra società sono letteralmente in liquidazione, ecco perché da tempo Zygmunt Bauman parla di identità liquide, di relazioni liquide, e per ultimo anche di Amore liquido (Laterza 2006). La domanda che ci dovremmo fare tutti, sia cristiani che laici, mi sembra perciò questa: ma questa liquidazione è un bene o un male? Va letta solo come una perdita dei valori e delle certezze del passato, oppure porta con sé elementi di liberazione?

Nello specifico: la famiglia che oggi manifesta una crisi così radicale è davvero quel ideale di vita cristiana, quel focolare di relazioni calde e profonde, che andiamo decantando? Oppure la famiglia cristiano-borghese era ed è anche un luogo di tirannie e di ipocrisie spaventose, il cimitero della creatività femminile denunciato da Ibsen, la tomba di ogni autentica spiritualità, come ci insegna una tradizione cristiana che da san Paolo arriva fino a Kierkegaard, l’inferno edipico smascherato da Freud?
Questa “santa” famiglia, fondata sui solidi “valori cristiani” e sul “vero amore coniugale” non ha generato per secoli uomini pronti ad ammazzarsi senza tanti scrupoli, magari proprio in nome del Dio dell’Amore? Come mai queste famiglie così irrorate di amore cristiano producevano poi una società tanto violenta e ingiusta? Insomma è proprio un male che questo tipo di famiglia vada in liquidazione come ogni società in fallimento?

La Chiesa cattolica nei travagli liquidatori della modernità ha preso spesso le parti di ciò che andava liquidato, a partire dalla secolare difesa dell’assolutismo politico. E oggi continua spesso a difendere istituzioni storiche, come la famiglia borghese, che in realtà sono quasi sempre lontanissime dai valori evangelici. Sarebbe opportuno che i cristiani incominciassero a differenziare con chiarezza la propria proposta, il proprio matrimonio, dalla istituzione matrimoniale borghese-occidentale in rottamazione. Per il cristiano adulto del XXI secolo il matrimonio è il luogo misterico della propria trasformazione in Dio, una via di santificazione, né più né meno, e quindi niente che una legge dello Stato possa né difendere né ostacolare.

Sarebbe tempo ormai che i cattolici uscissero da questa strategia fallimentare di identificarsi con tutto ciò che da secoli, e spesso grazie a Dio…, sta andando alla malora in Occidente, e che annunciassero invece che in questa liquidazione, per tanti versi benedetta, sta nascendo qualcosa di molto più grande, una figurazione umana più libera e più felice. Il cardinale Martini, citato in un articolo di Barbara Spinelli su La Stampa, faceva giustamente notare che in parte è stata proprio la Chiesa a contribuire allo sgretolamento del matrimonio, in quanto “troppo a lungo si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica del rapporto di convivenza, destinato quasi solo alla procreazione della prole”. Ben altra cosa è il matrimonio cristiano, ben altra follia.
In positivo lo sfascio contemporaneo del matrimonio borghese indica la fame crescente di relazioni più autentiche e profonde, l’insofferenza per legami finti e paralizzanti, che invece dell’amore sono tenuti insieme dal codice civile, o magari direttamente dai carabinieri. E’ solo su questa fame positiva di maggiore autenticità che potremo costruire una famiglia rinnovata.

Questa concentrazione della Chiesa cattolica intorno a tematiche di morale sessuale è d’altronde un grandissimo segno di decadenza. La Chiesa in realtà è molto più in crisi della famiglia e il suo apparire troppo spesso come una madre ossessionata dalla paura del sesso è davvero un suicidio spirituale. Non tanto per la sua assoluta inutilità pastorale. Oggi in Italia l’86% della popolazione si dice cattolica, frequenta però regolarmente la messa domenicale meno del 30% e solo il 7% dei giovani tra i 14 e i 29 anni; ma più dei 2/3 degli italiani è favorevole alle convivenze more uxorio, al divorzio, e ai rapporti prematrimoniali, compresi quindi milioni di cattolici praticanti e di papaboys (si cfr. F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Il Mulino 2006)…

Ma il suicidio non sta tanto in questa cecità pastorale, in questo insistere su temi che in realtà non interessano più nessuno. Il suicidio consiste nel non saper compiere oggi, nel 2007, il compito per cui la Chiesa sussiste, nel non saper comunicare cioè la Buona Notizia agli oppressi, ai malmenati della storia, ai milioni di depressi italiani che crepano nella loro angoscia, agli eterosessuali come agli omosessuali che non sanno più perché e come stare al mondo. I cristiani non sono stati inviati dal loro Signore per caricare gli uomini di nuove leggi, di pesi ancora più insostenibili, ma per guarire e per salvare, per liberare e per amare. Diamo questa immagine? I ladri e le prostitute, i gay e i trans, che tra l’altro molto probabilmente ci precederanno nel Regno dei Cieli, sentono in noi questo cuore che ama incondizionatamente? Le donne e gli uomini delle nostre città, smarriti nelle loro vite senza più respiro e senza senso, sentono nella Chiesa quella bontà un po’ folle che preferisce spezzare le tavole della legge piuttosto che spezzare un cuore?

A volte sembra che la discussione quotidiana in cui siamo immersi, che insomma gran parte della cultura dominante, sia cattolica che laica, si occupi di questioni di etichetta nel Salone delle feste del Titanic, due minuti prima dell’Urto.

Forse noi cattolici dovremmo mantenerci per due o tre secoli nello spirito che l’allora cardinale Ratzinger evocò nelle meditazioni della Via Crucis il 25 marzo del 2005: “Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti, E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa”.

Se ci mantenessimo in questo spirito, in questa umiltà, nella consapevolezza della nostra crisi, avremmo forse meno voglia di occuparci della sessualità altrui, ci impegneremmo con maggiore radicalità nel liberarci di tutte le false identificazioni con ciò che si sta giustamente e finalmente liquidando, e forse la novità assoluta della nuova umanità di Cristo tornerebbe ad incuriosire e ad affascinare le nostre sorelle e i nostri fratelli “laici” dispersi come noi e con noi nel deserto occidentale.