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Lo stato della cultura a Occidente

Uno sguardo apocalittico

“Io non credo che questo sia un
mondo postcristiano.
Sarebbe consolatorio.
Credo che sia un mondo – è così
difficile da pronunciare –
apocalittico” (Ivan Illich)

Guardare con chiarezza dentro la fine

Credo che mai come in questi ultimi anni abbiamo avuto in Occidente, e in particolare in Italia, la triste sensazione di un mondo e di una intera cultura che si vanno sbriciolando, corrompendo, riducendo a nulla, a insipido omo-geneizzato. C’è qualcosa di apocalittico nei nostri giorni, di ultimativo, di finale; ma dobbiamo ricordare, come ci insegna l’antropologo francese René Girard che: “l’apocalisse non annuncia la fine del mondo, ma fonda una speranza. Chi apre gli occhi sulla realtà non cade nella disperazione assoluta dell’impensato moderno, ma ritrova un mondo dove le cose riacquistano un senso. La speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento”.

Analizzare senza attenuazioni o addolcimenti i caratteri terminali di tanti aspetti delle nostre civiltà è cioè l’unico presupposto serio per poter sperare in un vero ricominciamento, e per disporci di conseguenza ad operare in una prospettiva di radicale ri-generazione. Ma è proprio questo lavoro analitico, questo sguardo penetrante, critico e insieme pieno di speranza, dentro le fibre caotiche del presente, che ci manca. E questa mancanza è più dolorosa degli stessi traumi della transizione.

Una sorta di pappa mentale, di Blob universale cola infatti ormai da quasi tutti i televisori e i video e i computer e gli altoparlanti del mondo come una melma uniforme e appunto sempre più omogenea, che a volte sa di palude stagnante e a volte sa proprio di fogna: l’esausto dibattito politico-economico, ossessivamente incentrato solo su PIL e Borse/Percentuali/Tassi/Mercati/Azioni/Banche e Truffe varie, e l’onnipervadente varietà dei “comici”, solo ai quali sembra ormai delegata l’ultima parola, la più alta sapienza, il diritto di dire tutta la verità; il Grande Fratello o Cupido da una parte e dall’altra il solito Ballarò, che replica da anni più o meno la stessa puntata con gli stessi ospiti, sempre più stanchi e incanutiti; l’ennesimo Festival/Festa/Fiera/Salone/Baraccone/Sagra della Filosofia/Matematica/Libro/Gastronomia/Poesia/Apicultura/Economia/Francobolli/Arte/Cinema/Comunicazione (ormai immancabile)/Castagne/Spiritualità/Piadina/Letteratura etc., e l’ennesima gara tra giovani aspiranti Cantanti/Ballerini/Servi/Veline/Letterine/Scimmiottine/Schiavettine, schiavi comunque, servi e serve dei programmisti-autori di Mediaset e della Rai, pronti a tutto, a piangere, a strillare o a copulare in pubblico per un minuto in più in tv, e via così degradando senza più vergogna di nulla: cultura e pubblicità, prostituzione e università, spogliarello e politica, corruzione e giornalismo, spettacolo e santità: un’unica melassa incolore e maleodorante: un’unica, immensa Marchetta per tutti.

Ancora Girard vede in tutto questo un chiaro segnale se non della, almeno di una fine, l’accelerazione finale di un processo che trova i suoi ultimi momenti cruciali in Hitler, in Stalin, e nelle conseguenze di questi orrori: “vale a dire il nulla, il non pensiero americano in Occidente. Oggi ci troviamo veramente di fronte al nulla. Sul piano politico, sul piano letterario, su tutti i piani”.

Ci vuole una grande fede per non disperare in questa notte di nullificazione, di “non pensiero americano”, e per non farsi avvelenare il cuore come la scimmia di Zarathustra.
Bisogna imparare a vedere, come dicevamo, in questo finire un Fine, non solo una Fine, ma un esito, un eschaton, uno scopo, addirittura i prodromi di un nuovo inizio.
Negli anni ’50 Heidegger scriveva: “Se penseremo in base all’escatologia dell’essere, dovremo un giorno aspettare l’estremo del mattino nell’estremo della sera, e dovremo imparare oggi a meditare così su ciò che è all’estremo”.

Questa in realtà è l’unica e l’ultima speranza.

Già, ma chi lo fa? Chi se ne occupa? Chi pensa per fini/inizi? Chi si impegna a discernere ciò che in questo finire va lasciato cadere da ciò che invece va conservato e anzi incrementato, affinché le nuove sintesi umane possano avanzare ? Chi elabora oggi una visione politica escatologica? Perfino in ambito cristiano sembra quasi del tutto dimenticato il nesso indissolubile che lega la venuta tanto invocata del Regno alla fine di questo mondo, un nesso che in realtà ha animato e dato potenza rivoluzionaria all’intero ciclo storico (teologico e politico) della modernità… Il grande problema contemporaneo è proprio che tutto ciò non venga ri-pensato.
Manca ancora una nuova cultura escatologica, e cioè semplicemente una nuova cultura occidentale e cristiana, che sappia pensare messianica-mente i fini della fine, la direzione di questo sfinimento, il ricominciamento con cui è strettamente intrecciato.
Ed è proprio questa incapacità di pensare per estremi temporali che rende così omo-geneizzato il nostro tempo.
Se infatti non diamo un pensiero a questo finire finiamo con l’identificarci con il suo lato di puro annientamento, viviamo la fine cioè solo come definitivo sfinimento di ogni aspetto della cultura e della vita.

Ciò accade in modo plateale in quel settore derivato della cultura che è il mondo della politica: oggi in Europa vince normalmente chi rappresenta al meglio questo Nulla (di pensiero) ben amministrato, questo spappolamento mentale somministrato a dosi massicce ma che però mantengano i corpi illusoriamente vivi, almeno per un po’.
E chi perde alle elezioni si appresta subito dopo a nullificarsi meglio per vincere la prossima volta: meno pensiero, meno dignità, meno sforzo di interpretazione storica, più farsa, più retorica, più miopia, più menzogne, più rissa tra fratelli gemelli sempre più simili tra di loro, e proprio per questo sempre più violenti, in base ai codici ineluttabili del mimetismo umano.

D’altronde pensare seriamente, e cioè escatologica-mente questa Fine non è affatto facile, in quanto significa confrontarci con una completa ridefinizione dell’Identità Umana, con la possibilità dell’emersione di una Nuova Figurazione dell’essere umano, proprio attraverso la dissoluzione in atto di tutte le figurazioni storiche precedenti. Intravedere in altri termini proprio nella omo-geneizzazione del frullato antropologico in atto la genesi di un nuovo Genere Umano, finalmente unito, conscio di essere uno e unico: Ein Geschlecht, un solo Genere, come cantava il poeta austriaco Georg Trakl nel tritacarne apocalittico della Prima Guerra Mondiale.

Ma questa unificazione trans-culturale e trans-religiosa del genere umano non è poi in fondo il cuore della speranza cristiana, che secolarizzandosi è divenuta poi la speranza di tutti?

Nichilisti e fondamentalisti: le due culture terminali

Perché quasi nessuno parla più in questi termini?
Pochi anni fa un frate-poeta come Davide Maria Turoldo sapeva ancora chiedersi: “Sarà possibile muovendoci dall’interno stesso del carcere, dell’Io di questo uomo moderno, faustiano, e ora anche postmoderno, ancora più disperato e solo, perché figlio della pura techne, figlio senza ideologie, senza una sua decisiva filosofia: sarà ancora possibile, dicevo, un’uscita di sicurezza?”
E ancora dal fronte cattolico, nel 1993, un monaco dallo sguardo profetico, Giuseppe Dossetti, sapeva svolgere un’analisi di questo tipo: “Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità.(…). Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918, quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi sul presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. (…) L’unico grido che vorrei far sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione”.

Oggi la cultura sembra quasi completamente ridotta alla propria caricatura, a mondanità, passerella, narcisismo, gioco di potere, e nel peggiore dei casi, a pettegolezzo. Le poche eccezioni si rifugiano ai margini dell’osceno spettacolo, protetti “dagli intrighi degli uomini” e dalla assordante “rissa delle lingue” (Salmo 30,21).

Ad uno sguardo molto superficiale può sembrare che si stia acuendo il confronto tra laici e cattolici, o tra nichilisti/relativisti e fondamentalisti di ogni religione. Ed effettivamente vediamo il rilancio di ogni tipo di riduzionismo ateo, che pretende di ridurre appunto il mistero dell’uomo alle leggi della macchina o a quelle del mondo animale. Ci vogliono convincere in tutti i modi che non sussista alcun senso definitivo nella nostra esistenza e in quella del cosmo, e che anzi non dovremmo più nemmeno porci il problema, accontentandoci di essere delle povere ma soddisfatte (?) “scimmie nude”. Vediamo spesso proclamare queste grandi verità nei ricchissimi inserti di Repubblica o del Corriere tra una pubblicità di diamanti e l’immancabile novità di stagione del Grande Stilista: lo spreco, infatti, il lusso e il nichilismo funzionano molto bene insieme: la moda e la morte da sempre danzano la stessa lugubre tarantella, come ci ha insegnato Leopardi.

Dall’altra parte tornano alla ribalta i non meno lugubri cantori del bel tempo andato, che solitamente coincide con qualche vecchia schiavitù (spesso delle donne), con qualche gelida ala del Museo delle Cere della storia, o direttamente con qualche galleria di sale di tortura. Poteri sacri, violenza, ignoranza, principi inviolabili, e ottenebramento delle coscienze vanno sempre insieme lungo la strada dell’odio, a caccia di qualche nuovo capro espiatorio da sgozzare. E’ vero, queste due tendenze sembrano ostili e alternative, ma, se le osserviamo meglio, sono del tutto complementari, anzi in realtà si producono a vicenda, e insieme danno corpo e voce soltanto a ciò che sta finendo, alle figure estenuate di una forma di umanità che in questa fine si sta appunto liquidando, come una disfatta società in fallimento.
Ed infatti i loro esiti concreti poi, sul piano delle vite delle persone, sono del tutto analoghi.
La cultura del Morente cioè, che queste due tendenze riescono a produrre
a)è sempre più autoreferenziale, parla ormai soltanto di se stessa e si rivolge esclusivamente ai propri “chierici”, a chi cioè su questi brandelli di carne più o meno putrescente continua a costruire la propria carriera;
b)è sempre più accademia e/o museo: si riduce a catalogare, archiviare, comporre immense storie o antologie o rassegne, che poi vengono immagazzinate nelle strepitose memorie dei computer oppure svendute a chili come allegati (ben poco letti) dei quotidiani;
c)è sempre più un settore dell’industria dell’intrattenimento, una branca commerciale, un genere di consumo insomma, una pura e semplice forma di spettacolo o di varietà per alleviare la noia mortale di noi “ultimi uomini”: scrittori e filosofi, artisti e cantanti, Bibbie e Danti: tutti ridotti a “numeri” del grande circo planetario.

Tutto ciò è infine spaventosamente innocuo, passa sulla carne della storia senza lasciare la minima traccia.
E questo è un altro chiarissimo segno di morte.
La cultura infatti, quando è viva, irrompe sempre nella storia come una protesta ineludibile e una proposta sconvolgente, come un giudizio radicale, come una parola che fa saltare in aria gli schemi del passato, e fa tremare di rabbia e di paura tutti quelli che su quegli schemi continuano a poltrire e a lucrare stipendi e posti di potere.
Antica verità messianica e rivoluzionaria anche questa, d’altronde, che ha attraversato come un fuoco divorante tutta la storia spirituale e politica dell’Occidente, anche se da alcuni decenni sembra essersi eclissata: “…ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote…” (Lc 1,52-53), ma anche: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18).

Quando un poeta o un monaco, un politico o un pensatore, una scrittrice o un’artista possono essere tranquillamente pubblicati sul Sole 24ore o sull’Osservatore romano, e ospitati da Maurizio Costanzo o da Fazio o in qualche altro salotto televisivo, senza che nulla turbi la redazione o lo show, è segno che qualcosa non quadra. E a questa regola non ci sono molte eccezioni.

Verso una nuova cultura della trans-formazione

Queste culture dominanti che riempiono tutti gli spazi della comunicazione 24 ore su 24, e 365 giorni all’anno, ci offrono oltre tutto una rappresentazione del mondo e della realtà che è sempre più sconnessa dall’esperienza concreta delle persone. Ci stiamo abituando ad una schizofrenia implicita e globale, a vivere cioè entro un linguaggio pubblico (lavorativo, culturale e politico) del tutto scisso dalle nostre emozioni, dalle sofferenze dei nostri corpi, dai nostri palpiti terrestri. Stiamo cioè costruendo una vera e propria cultura extra-terrestre, un mondo virtuale che vive di vita autonoma, irrelato rispetto alle nostre esistenze.

Questo scollamento crescente tra la dimensione pubblica e quella personale, tra circuito mediatico e drammi interiori, tra video e pancia, tra politica e corpi, tra ciò che mi dicono che mi deve interessare e ciò che mi brucia dentro e che sto imparando a rimuovere in abissi psichici e somatici sempre più inconsci, questo divorzio tra anima e mondo è la cosa più impressionante e più pericolosa del nostro tempo.
Ed è un altro segno evidente della crisi terminale di questa cultura.

E’ infatti la cultura creativa che ha il compito di mediare continuamente tra le dimensioni profonde dell’anima e i linguaggi pubblici della politica e della società.
Abbiamo perciò innanzitutto bisogno di contribuire ad elaborare una nuova cultura del transito in atto: una cultura della trans-formazione antropologica, del Nuovo Inizio.
Questa cultura inoltre deve essere una teoria pratica, un pensiero cioè che si sappia incarnare in pratiche condivise, e tradursi in forme relazionali nuove, di convivenza e non solo di conoscenza. Abbiamo bisogno di una nuova cultura che possa proporsi, in altri termini, simultaneamente come cammino concreto di liberazione personale e come progetto di trasformazione storica da vivere in comune, ritrovando e rinnovando tutte le spinte evolutive della modernità, e dello spirito messianico che la ha animata fin dal suo inizio.

Le donne e gli uomini del XXI secolo sono alla spasmodica ricerca, al di là degli specifici (e ovviamente utilissimi) saperi sempre più tecnici e specialistici, di una sapienza sintetica (filosofica, artistica, psicologica, politico-economica, e spirituale al contempo), capace di orientare la loro esistenza, di dare luce e direzione ai loro giorni sconclusionati. Dobbiamo e possiamo oggi elaborare un sapere che sia conoscenza e trasformazione (personale e storica): conoscenza attraverso la trasformazione.
Tutte le esperienze conoscitive più avanzate del XX secolo vanno d’altronde in questa direzione.
E a sua volta la tradizione spirituale del cristianesimo, sollecitata anche dal dialogo sempre più intenso con le altre sapienze umane , può offrire oggi un contributo decisivo, comunicando anche ai non-credenti e agli altrimenti-credenti il senso più profondo del processo antropologico di trans-formazione in atto, che, nell’orizzonte messianico occidentale, non è altro che l’emersione sempre più decisa della nuova figura di divino-umanità inseminata dal Cristo nella carne di ognuno di noi.

Questi sono i due grandi compiti che abbiamo davanti: elaborare una nuova cultura della trans-formazione, e sperimentare itinerari formativi che aiutino a tutti i livelli e a tutte le età le donne e gli uomini del XXI secolo a vivere la transizione in atto in modo creativo ed evolutivo.
Ad una nuova antropologia deve cioè necessariamente accompagnarsi una nuova pedagogia dell’Uomo Nascente.

Si apre perciò una straordinaria stagione di ricerca. Dobbiamo aprire e inaugurare ovunque laboratori della nuova cultura, spazi di critica, itinerari formativi inediti, scuole di Nuova Umanità, Reti, Riviste, Programmi radiotelevisivi che sappiano rovesciare la stagnazione ancora dominante nell’entusiasmo di ciò che nasce, che siano cioè in grado di con-vertire questo insopportabile finire nell’eterno fiorire che nasconde.

Tratto dal volume Dalla fine all’inizio – Saggi apocalittici, Ed. Paoline 2011.