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Alla ricerca del continente della gioia

Passi, passaggi, pratiche, e grazie

Una riflessione verificata nella pratica

Nel nostro tempo risulta sempre più difficile parlare di qualsiasi argomento in modo serio e convincente. Ogni tematica viene infatti disintegrata e falsificata in una miriade di opinioni sempre più labili, e sempre meno fondate. La verifica concettuale di queste opinioni non è quasi mai richiesta, né tantomeno la loro verifica esistenziale. Quasi nessuno si interroga più cioè sulla sostenibilità di un’idea nella sua incarnazione, se essa in altre parole saprebbe portare ordine e senso in una vita concreta.

Come possiamo allora ideare e proporre qualcosa di nuovamente sensato in questo contesto sociale e culturale tanto confuso, in questa piazza telematica in cui tutti sparano a raffica le loro opinioni più bizzarre e si scontrano sulla superficie levigata delle cose con la violenza delle palline di un flipper?
Io credo che oggi più che mai le nostre concezioni teoriche debbano essere accompagnate da una severa e costante verifica pratica. Credo anzi che l’elaborazione del pensiero del XXI secolo debba procedere proprio come un’inedita sintesi tra teoria e pratica, tra articolazione di idee e cammini, gruppi di persone, scuole, comunità, in cui queste idee possano diventare vita concreta, esperienza esistenziale condivisa e visibile.

Questo bisogno di un pensiero teorico-pratico d’altronde ha animato, in forme diverse, i momenti cruciali della rivolta antintellettualistica, che ha caratterizzato tutta la filosofia contemporanea: da Marx a Nietzsche, da Freud a Heidegger. Esso spiega inoltre l’enorme e crescente interesse per le sapienze, tutte anch’esse teorico-pratiche, dell’Oriente asiatico. Ma in realtà questa concezione di un pensiero che innanzitutto è chiamato a farsi vita, a rendersi visibile, e a verificarsi nei giorni della nostra esistenza terrena, sta anche nel cuore della Rivelazione cristiana di un Verbo/Logos/Pensiero divino che si incarna appunto, si lascia vedere e toccare, e rivela la sua verità solo a chi si lasci plasmare direi fisicamente dalla sua parola creatrice.

Questa direzione sapienziale, e iniziatica, del pensiero, chiede oggi di esprimersi in forme nuove, che sappiano offrire all’uomo contemporaneo, smarrito tra le chiacchiere della comunicazione di massa, itinerari semplici ed efficaci di riflessione e insieme di trasformazione e di liberazione concrete, mediante i quali possa per davvero elevare la propria anima, e trovare così la vera gioia: “Rallegra la vita del tuo servo/ perché a te, Signore, elevo l’anima mia” (Sl 85,4).

Le quattro stazioni della via verso la gioia

Allora, mi pare che il modo migliore per parlare anche della felicità, e della sua straziante ricerca da parte dell’uomo, sia quello di indicare una serie di piccoli passi che possano condurre ciascuno di noi, appunto praticamente e a prescindere dalla sua fede iniziale, verso una dilatazione effettiva del suo cuore, e quindi verso quel sollievo dell’anima, cui tutti aspiriamo. Mi ispirerò, nel delineare questa sorta di scaletta spirituale, agli itinerari che stiamo sperimentando da 14 anni nei Gruppi “Darsi pace” (www.darsipace.it), e quindi appunto ad un cammino in cui il pensiero si fa subito pratica di trasformazione, verificandosi in essa.

PRIMO PASSAGGIO.
Partiamo dalla nostra condizione universale e prendiamone nuovamente atto: l’uomo anela ad una felicità piena, di cui però ignora l’effettivo contenuto.

La prima cosa da chiarire a noi stessi, e ad ogni persona che oggi voglia rimettersi in cammino verso una maggiore conoscenza di sé, è che ogni uomo anela con tutto il proprio cuore alla felicità, ma al contempo non ha affatto ben chiaro che cosa propriamente desideri. A tal proposito Benedetto XVI, nell’Enciclica Spe salvi scriveva: “Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – ‘la vita beata’, la vita che è semplicemente vita, semplicemente ‘felicità’. Non c’è in fin dei conti altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente”. (n. 11)
Tutti desideriamo cioè ardentemente una pienezza totale di vita, una gioia piena, che però in realtà non conosciamo, e che tuttavia, dice ancora Benedetto citando Agostino, “sappiamo che deve esistere”, in quanto ci sentiamo attratti verso di lei.

Questa condizione paradossale connota strutturalmente l’esistenza umana su questa terra, ed è bene prenderne atto, diventarne pienamente consapevoli, per iniziare il nostro cammino da un punto di partenza molto concreto. L’antropologo francese René Girard descrive così la nostra struttura esistenziale: “L’uomo è la creatura che ha perduto una parte del suo istinto animale per accedere a quello che si chiama desiderio. Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida. Essi non hanno alcun desiderio proprio. Ciò che è proprio del desiderio è di non avere nulla di proprio”.

In questa condizione indeterminata i contenuti concreti del nostro desiderare, e quindi della stessa felicità che desideriamo, sono offerti dal contesto storico-culturale in cui cresciamo: impariamo cioè a desiderare, per dirla ancora con Girard, ciò che gli altri desiderano, in modo appunto mimetico, per imitazione. Potremmo arrivare a dire perciò che l’anelito alla felicità sia universale, ma che poi si connoti di contenuti del tutto storici, determinati dagli sviluppi delle diverse società. C’è anche da dire che la determinazione dei contenuti del nostro desiderare dà poi forma al nostro essere: noi umani cioè finiamo per conformarci e commisurarci a ciò che desideriamo, e alle forme di felicità che la società ci offre come modelli da imitare e scopi da raggiungere.

SECONDO PASSAGGIO.
L’uomo di oggi si conforma ad un desiderio parossistico di felicità e di autorealizzazione, che però sembra produrre una insoddisfazione radicale.

Vogliamo cioè, e anzi pretendiamo la felicità, addirittura reclamandola dallo stato o dalla costituzione repubblicana, e la ricerchiamo in tutti i modi possibili e immaginabili, come mai era prima accaduto, ma tendiamo poi a perseguirla attraverso una convulsa soddisfazione di bisogni sempre più complicati e spesso futili, se non addirittura dannosi, che finiscono per rovinarci la vita.

Anche in questa prospettiva il nostro tempo si manifesta come estremo e paradossale, come un’epoca in cui le cose migliori e le cose peggiori coesistono e crescono sullo stesso terreno. Una rappresentazione questa molto apocalittica del nostro tempo, che ancora René Girard illustra con grande chiarezza: “Anche un esame poco attento dimostra che tutto quanto si può dire contro il nostro mondo è vero: esso è il peggiore di tutti. (…) Ma a questo proposito pure le affermazioni diametralmente opposte sono altrettanto vere: il nostro mondo è nello stesso tempo il migliore”.

L’essere umano infatti è oggi invaso da un desiderio fortissimo di felicità, e questo è certamente un bene; ma il suo desiderio si frantuma subito in mille rivoli di piccole vogliuzze da quattro soldi, come diceva lo Zarathustra di Nietzsche parlando proprio degli “ultimi uomini”, e questo è un gravissimo male, un’attitudine che ci sta distruggendo, e ci sta conducendo ormai a passi da gigante verso uno stadio terminale, sia a livello psicologico che a livello storico-culturale.
Dobbiamo perciò comprendere in modo molto più acuto questa nostra condizione paradossale, per iniziare a dare un orientamento evolutivo al nostro desiderio di felicità piena. Dobbiamo cioè convertire questo nostro fortissimo desiderio verso le direzioni in cui possa essere finalmente soddisfatto. Ma questa conversione del desiderio è in realtà una vera e propria rivoluzione culturale, radicata entro un processo continuo di purificazione e di terapia della mente.

TERZO PASSAGGIO
L’uomo contemporaneo va innanzitutto curato, affinché comprenda che cosa lo renda veramente più felice o più infelice.

Ognuno di noi è oggi, almeno in parte, un essere confuso e sofferente, affaticato e oppresso dai propri pensieri, e dal senso di vuoto che divora da dentro questo mondo.
Il viaggio verso una felicità più reale deve iniziare perciò da una maggiore comprensione delle tante cause interiori che ci rendono così infelici, da un primo lavoro di autoconoscimento, che di per sé e da subito ci dona un certo sollievo.
L’uomo e la donna contemporanei, che ad un certo punto, giunti all’acuta consapevolezza del bivio definitivo in cui ci troviamo, sentano il bisogno di dare un nuovo orientamento alla propria esistenza, dovrebbero perciò essere instradati lungo alcune direttrici pratiche molto concrete, facendo loro capire che la ricerca della felicità è anche un impegno personale, un lavoro da fare, qualcosa cioè che dipende anche dalla nostra volontà.

Queste direttrici pratiche sono:

a)Dalla distrazione alla concentrazione: dobbiamo comprendere che la mente distratta e dissipata ci ammala, ci rende profondamente infelici, preda di mille pensieri cupi e di diecimila desideri debilitanti, come oggi anche la scienza ha dimostrato. Ma la concentrazione mentale dev’essere esercitata con pratiche efficaci e regolari.
b)Dagli automatismi difensivo/aggressivi alla consapevolezza: una mente concentrata può divenire più consapevole dei propri automatismi, può riconoscere sempre meglio le ferite che ancora le bruciano dentro e producono reazioni appunto automatiche e distruttive. Una mente più concentrata e quindi più consapevole può invece selezionare i propri pensieri/desideri/aspirazioni, e così divenire sempre più libera, anche rispetto alle continue sollecitazioni della pubblicità e della propaganda paranoica di questo mondo. Questo lavoro richiede però anch’esso una pratica adeguata, e anche l’integrazione di alcuni elementi conoscitivi che ci vengono dalla cultura psicologica dell’ultimo secolo.
c)Dalle eccessive proiezioni temporali (verso il futuro o il passato) allo stato di presenza: una buona pratica meditativa ci fa sperimentare con crescente intensità la gioia dell’essere presenti, liberi da tutti quei pensieri e desideri che ci proiettano lontano dal qui ed ora, e dalle infinite possibilità che il presente ci offre, e quindi in definitiva anche lontano da Dio, che, come ci insegna ancora sant’Agostino, è l’Assoluto Presente: “Esamina i cambiamenti delle cose, tu troverai le espressioni ‘fu’ e ‘sarà’; pensa a Dio e scoprirai che egli ‘è’ e che in lui non può esserci né ‘fu’ né ‘sarà’. Se anche tu vuoi essere, trascendi il tempo”. Solo in questa reiterata esperienza del Presente possiamo ridare respiro al tempo, liberarlo da quella accelerazione vertiginosa che trasforma la nostra vita in una sorta di corsa ad ostacoli, piena di dolore.
d)Dalla sofferenza del tempo murato al respiro gaudioso dell’eternità: la pratica meditativa, che attraverso la concentrazione, la consapevolezza, e l’esperienza dello stato di presenza, ci libera sempre più profondamente dalle nostre rigidissime prigionie mentali, ci apre dunque al mistero della condizione eterna della vita, all’esperienza di un tempo respirato dall’Eterno, e quindi anche ai grandi misteri del rapporto tra Tempo ed Eternità e tra Uomo e Dio. Le pratiche stesse cioè ci riaprono alle questioni spirituali fondamentali, a partire però dalla nostra diretta e personale sperimentazione. E a quel punto potremo incontrare in modo nuovo anche la Rivelazione di Cristo, comprenderne tutta l’originalità, e la pienezza di vita e di felicità che ci promette.

QUARTO PASSAGGIO
Ricevere l’annuncio di una gioia piena: l’Eterno ha invaso la nostra umanità: in Cristo siamo integralmente salvati: perdonati e rigenerati nel suo Spirito ADESSO.

Se l’uomo smarrito delle nostre metropoli inizia un percorso di cura di questo tipo, e inizia così a sperimentare una pur lieve crescita della sua felicità, un concreto sollievo dalle sue pene, aprendosi ad esperienze sempre più intense e soddisfacenti del mistero dell’Eterno Presente, potrà ad un certo punto ricevere anche l’annuncio di una Parola che risponde fino in fondo alle sue domande di verità e di felicità.

La Rivelazione del mistero di Cristo infatti dà piena soddisfazione a tutte le domande e a tutti i desideri più folli di tutte le culture e religioni umane: ci dice che non solo possiamo liberarci dalle gabbie, mentali e fisiche, di questo mondo, per farci assorbire in una condizione assoluta e presente di beatitudine; ma che tutta la realtà corporea dell’universo, tutta la nostra persona fisica e psichica viene ormai assorbita in Dio, redenta e trasfigurata nel Corpo di Cristo una volta per tutte: non ci sarà più perciò né morte né dominio dell’illusione e del peccato. Per cui la Ferita Originaria, l’Abisso della Separazione su cui si fonda interamente questo mondo, viene colmato e risanato per sempre, e in Cristo Risorto e Asceso nel Cielo noi siamo già definitivamente in salvo. Questo rivela e comunica Gesù a tutti gli uomini, “perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17, 13).

Credendo a questa Buona Notizia, ed entrando così in relazione diretta con il Vero Dio (1Gv 5,20), che è Amore creatore, e Bontà incondizionata, ogni persona umana diventa un Vero Uomo, un figlio di Dio, e quindi un agente segreto e al contempo pubblico dell’opera redentiva di Cristo, che in questo ADESSO pone fine al mondo distorto, rifinendone la fine in noi lungo la passione di questi tempi finali, fino al suo ritorno glorioso. E proprio in questo modo, divenendo cioè il Corpo di Cristo, operante nella storia, ogni persona umana conosce la gioia piena, la gioia dell’adesso messianico, che penetra nel tempo dell’uomo per sanare, salvare, guarire, illuminare, consolare, dissolvendo progressivamente il dominio delle tenebre di questo mondo.

Entrati nell’esperienza della fede di Cristo, quindi, la nostra gioia si alimenta alle sorgenti della contemplazione, che si fa a sua volta azione messianica, ma l’uomo di oggi va accompagnato a questo livello iniziatico, partendo sempre daccapo dalla sua realtà concreta, dal suo smarrimento, con pazienza e umiltà, senza pretendere di imporre subito concetti teologici astratti, che sembrano ormai incapaci di raggiungere il cuore dolente delle persone.

Dobbiamo rilavorare a fondo il terreno della nostra mente prima di seminare la Parola di Dio, in quanto, come ci insegna San Basilio: “Bisogna cercare di tenere la mente nella quiete. Non è possibile scrivere nella cera se prima non si sono spianati i caratteri che vi si trovano impressi. Allo stesso modo non è possibile offrire all’anima gli insegnamenti divini se prima non si tolgono via le idee preconcette derivanti dai costumi acquisiti”.

Ogni persona, a partire dalla sua attuale condizione di smarrimento e di cecità, dovrebbe perciò attraversare e riattraversare costantemente due conversioni, due fasi di Ritorno verso Dio, e quindi verso la vera gioia: la prima che innanzitutto lo diriga verso di sé, verso le proprie profondità, per conoscersi meglio; e la seconda che lo diriga, attraverso la fede di Cristo, verso il vero Dio, come chiarisce molto bene il documento Orationis formas, pubblicato nel 1989 dalla Congregazione per la dottrina della fede, e firmato da Joseph Ratzinger: “Sant’Agostino è, su questo punto, un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: egli è più profondo e più grande di te” (n. 20).

C’è dunque un doppio movimento sempre da riprodurre, quasi ad ogni momento: entrare dentro di sé, e poi uscire dal profondo di sé verso l’infinità di Dio, attraverso la fede in Cristo. E quindi c’è anche un doppio registro, attivo e passivo, lungo il cammino del Ritorno: un’azione volontaria di ricerca e studio di sé (attraverso la meditazione, e l’autoconoscimento anche psicologico), e un’attitudine ricettiva e di ascolto (attraverso la preghiera e la passiva ricezione dello Spirito).

Verso una nuova stagione di sperimentazione spirituale

L’umanità si trova ormai ad un bivio della sua storia su questo pianeta. I processi di liberazione che la fede ci propone chiedono di essere sperimentati ad un nuovo livello di profondità. Vogliamo realizzare più personalmente ciò che continuiamo a predicare. Vogliamo fare esperienza personale e diretta della gioia di cui sentiamo parlare, e dell’amore di cui sentiamo l’elogio da secoli, vedendone troppo poco e troppo di rado lo splendore nei volti dei credenti, e i frutti nel loro operare.

Stiamo faticosamente passando da un’epoca di ricchissime rappresentazioni religiose dei grandi misteri ad una di maggiore e più scabra realizzazione spirituale. E questo richiede una revisione radicale dei linguaggi della pastorale e anche delle pratiche catechistiche e formative che vengono proposte a tutti i livelli, dalla catechesi dei bambini fino alla formazione dei preti e della vita consacrata. Dobbiamo diventare molto più realistici, molto più umili, e quindi molto più evangelici. Dobbiamo chiedere alle persone che ci ascoltano se le nostre parole, le nostre celebrazioni, le nostre catechesi, le rendono per davvero un po’ più felici, e libere, e comprendere perché tante volte invece i nostri discorsi risultano addirittura nocivi, offensivi, retorici, perché terribilmente falsi.

Nella Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi (1975) Paolo VI scriveva: “Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” ( n. 80).
Ecco perché dobbiamo ripartire proprio dai formatori, e avviare una grande stagione di ri-formazione di tutti i formatori, affinché la gioia e la speranza possano rianimare le nostre terre inaridite, come un contagio irresistibile, un fuoco inarrestabile, una nuova Pentecoste.

Articolo pubblicato nella Rivista della CISM (Conferenza Italiana Superiori Maggiori) “Religiosi in Italia”, Luglio/Agosto 2013, n. 397 – Anno XVIII n. 4.