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I Libri – Poesia

Parole per nascere
Poesie per un nuovo inizio
Paoline 2013, pag. 176, Euro 13,50

Il piu’ grande pericolo per l’uomo
E’ di morire prima di essere nato.

Queste poesie ci aiutano ad ascoltarci
Li’ dove stiamo tutti tentando di nascere
Nelle profondita’ del nostro dolore
E della nostra speranza.

Questi versi ci aiutano ad imparare a parlare
La lingua nuova del Nascente.

In questa notte profonda in cui e’ immerso il pianeta terra una nuova figura di umanita’ sta nascendo, quasi inosservata. Nasce in ciascuno di noi spingendoci a cercare un senso nuovo per vivere, ma anche gridando e soffrendo amaramente, costringendoci ad ascoltarci sempre piu’ in profondita’, e poi ancora aprendo i nostri occhi all’invisibile, guarendoci da tutti i nostri mali, e insegnandoci a parlare nuove lingue, e ad amare la vita e Dio e gli uomini con tutto il nostro cuore dilatato. Non la sentite in voi questa gravidanza? La grande poesia europea, da Hoelderlin a Rimbaud, fino a Campana, a Celan e a Luzi, non ha fatto altro che ascoltare e dare parola a questa nascita che avviene attraverso una terribile passione mondiale e mentale. Queste poesie incarnano e illuminano i passaggi e le fasi della trasformazione che stiamo tutti vivendo. E cosa’ ci possono aiutare concretamente ad attraversarla, e quindi finalmente a nascere.

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Nella mia storia Dio
Passigli 2005, pagg. 153. Euro 15,00

Con questo quinto libro di poesie, che esce proprio mentre compio cinquanta anni, mi sembra che si chiuda un ciclo intero della mia vita e del mio lavoro poetico. Mi sembra di intuirne il senso complessivo: dirigersi verso un’esperienza di integrazione in cui l’Eterno Amore e la mia carne terrena potessero coniugarsi fino in fondo.
In tal senso tutta la mia vita e tutta la mia opera sono coniugali.

E’ solo coniugando l’Eterno con tutte le nostre povere cose umane che ci salviamo. Questo lo intuii molto presto. Il mio primo libro Il Giorno (1988) era già tutto nuziale e natalizio, già tutto “a due voci”. Teatro Cattolico (1991) poi, con i suoi Atto Primo: le Nozze, e Atto Unico: il Parto, segnò ulteriori passaggi della coniugazione divino-umana, delineandone quasi uno schema immaginale, un itinerario per tappe iniziatiche. Figure dell’ira e dell’indulgenza (1997) mostrò le asprissime fasi che la coniugazione divino-umana comporta, il suo terribile metabolismo interiore. Tutto ciò infatti che si oppone alla coniugazione viene via via tirato fuori, evidenziato, riconosciuto, e poi stritolato e distrutto: i nostri blocchi infantili, le nostre presunzioni, le nostre emozioni primitive, il narcisismo “da poeta”. Ogni libro ed ogni fase cruciale della mia esistenza sembra procedere in questo modo: ricevo un afflusso di luce, che è parola, visione e conoscenza, e questa mi dona la forza per scendere sempre più dentro nelle aree oscure della mia carne, per sciogliere antichi nodi, e andare oltre. La luce verbale infatti vuole scendere, vuole incarnarsi, vuole far procedere la coniugazione appunto, e questo produce a volte molto dolore sulle nostre ostinate resistenze.

Preparativi alla vita terrena (2002) portò avanti questa discesa della luce nella carne, questa resa dei conti. Le immagini divennero perciò sempre più semplici e concrete. Le mie scissioni interiori infatti diminuivano, e quindi si attenuavano anche molti processi ancora inconsci che prima potevano esprimersi soltanto in immagini furenti e sulfuree. Il dolore della trasformazione fu accolto nel centro cosciente dell’io, e questo placò,, decantò,, e dette misura al mio dettato. Il dolore in un certo senso aumentò,, ma accolto consapevolmente, divenne meno aspro, meno avvelenato, più umano. E questa assunzione più consapevole del processo trasformativo mi preparò ad un confronto estremo e in un certo senso definitivo con aree ancora più abissali e dolenti del mio cuore. Un cammino di purificazione, durato circa sette anni, che questo quinto libro racconta e attraversa.

Ora che il campo dell’integrazione mi si è offerto con maggiore potenza, ora che resisto un po’ di meno al suo dilatarsi in me, credo di essere più vicino all’inizio. Credo di poter incominciare a vivere un po’ più consapevolmente la coniugazione divino-umana, e cioè il mistero di Cristo, e quindi anche il mio matrimonio, la mia esistenza terrena, e il mio impegno nella storia.
In fondo mi sembra che il senso del nostro destino terrestre sia tutto qui: dobbiamo solo imparare a coniugarci con Dio e con una donna, o con un uomo, ben determinati, senza alcuna scissione, senza resti, fino a combaciare. Questo ci rende sempre più capaci di redimere il mondo. Dobbiamo sposare Dio con la nostra storia, indissolubilmente. Dobbiamo far scendere il Cielo sulla Terra, perché la Terra riceva il Cielo tutto dentro di sé trasfigurandosi, e dia in tal modo al Cielo una casa terrena. Proprio così pian piano, e in gesti umili e quotidiani, tutta la Terra diviene Cielo e tutto il Cielo diventa Terra. Solo così, nell’estrema e minuziosa e delicatissima cura dei particolari, procede la storia terrena, personale e collettiva, e tramite il nostro lavoro si trasforma in storia della salvezza. Questa è la gloriosa vocazione della nostra santa umanità, ma questo è anche il mistero stesso di Dio, il suo desiderio di essere (in) noi.

M.G.

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Il titolo della nuova, bellissima raccolta di MG (Nella mia storia Dio, Passigli, nella collana che fu ideata e diretta da Mario Luzi) esibisce, da subito, il tema di fondo che trascorre, come un’acqua lustrale, ogni spunto del testo. E’ il tema della “coniugazione”. Al termine di quest’ultima tappa del suo cammino poetico Guzzi può annunciare, attraverso la limpidezza di una luce quieta e folgorante, di aver raggiunto quel che premeva al cuore di ogni suo verso: vale a dire il superamento di ogni “parzialità” e ogni divisione, nell’approdo a una completa integrazione (“coniugazione”) fra umano e divino. A dirla con lo stesso Luzi ogni nostro frammento è stato infine battezzato. Ma per arrivare a questo Guzzi ha dovuto inoltrare ogni suo passo – che è stato, ed è, passo di anima e parola – nello spazio ferito del mondo; perché il mondo – le apparenti, anche cruente, lacerazioni del mondo – nasconde un volto unico, che va solo svelato e rivelato ai nostri occhi e al nostro cuore: il volto, plurale ma indivisibile, del Dio dal quale deriviamo. Così, in questa raccolta, la prosodia franta e scheggiata, fitta di dissonanze e controtempi, dei versi con cui Guzzi si era fatto conoscere, resta un’ombra presente, ma istantaneamente superata nella luce. Anche il morso espressionistico finisce per disciogliersi in una nuova armonia che nasce dal componimento, appunto: dal superamento dei contrasti. Il Cielo è sceso sulla Terra in cui continueremo ad abitare. L’uomo nascente è ormai nato.

Stefano Lecchini – Gazzetta di Parma, 19.5.2005

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“E’ solo coniugando l’Eterno con tutte le nostre povere cose umane che ci salviamo”, scrive Guzzi nella Nota che conclude il suo ultimo libro di poesia. Ricerca poetica e teorica si intrecciano, formano un unico esercizio di vita e di scrittura. Così l’una non può darsi senza l’altra. Ma il linguaggio poetico, proprio per la sua natura profetico-iniziatica, è quello che meglio può servire a creare l’uomo nuovo rigenerato, secondo il pensiero dell’autore. Il libro, nelle sue varie sezioni, è concepito come un vero e proprio percorso di trasformazione, intuizione del senso complessivo di un lungo ciclo esistenziale.(…) La poesia, “un’esistenza di parole”, diventa il luogo abitabile, la casa che ospita e da cui il mondo prende forma, si configura di volta in volta (…) La rigenerazione, dunque, è l’essenza stessa di questa poesia: rigenerazione del Soggetto, ma anche del linguaggio, delle parole, che sono “cellule emotive della vita”. L’esperienza, “per gli altri” e “per amore”, si costruisce nei testi, attraverso una lingua comunicativa, talvolta con espressioni riprese dal quotidiano. Poesia-diario, confessione e auspicio di un tempo nuovo, tutti gli elementi costruiscono passo dopo passo l’identità.

Alberto Toni – Letture, agosto 2005

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“Donami anche per oggi il buonumore,/ l’ilarità vincente dei bambini/ prossimi al pianto,/ quasi non ci fosse differenza/ nella dolce demenza, nell’insieme./ E’ la fluidità/ l’arte del cuore/ che m’insegni, lo scorrimento/ a vuoto.”
Impressiona sempre assistere, nel bambino, al passaggio repentino dal pianto più disperato al sorriso pacato e sereno. Può sembrare un’assurdità, una “dolce demenza”, ma alla fine è anche un’uscita di sicurezza, una smitizzazione della realtà, è il superamento di una razionalità troppo codificata e rigida. E’ quella qualità che MG illustra nei versi che ho desunto dalla sua ultima raccolta. Certo viviamo in un mondo in cui, come ha suggerito il sociologo Z. Bauman, tutto è “liquido”, ossia inconsistente, transitorio, relativo. (…) Tuttavia esiste anche il rischio opposto, quello della rigidità, dei pensieri rattrappiti, dei sentimenti legnosi, degli odi imperituri, delle idee fisse, degli scoraggiamenti definitivi. Ecco allora questa “fluidità” che ci permette di transitare da una situazione all’altra, di fare qualcosa anche “a vuoto”, in libertà e gratuità. Questa – dice ancora Guzzi – è “l’arte del cuore”, che ci rende meno schiavi del calcolo e più lievi, meno pedanti e più generosi, meno ostinati e più dolci, proprio come i bambini.

Gianfranco Ravasi – Avvenire, 23 luglio 2005

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MG è un autentico poeta cristiano che cerca l’eternità nelle tracce della presenza umana. (…) Scavando senza risparmiarsi nel cuore autentico della propria fede, che “toglie il superfluo/Penetrandone per anni ogni sfumatura”, Guzzi abita la poesia, casa delle parole, in modo che essa possa edificare l’avvento del tempo dell’uomo. (…) Tra l’accensione di un pensiero e la scrittura il poeta dialoga con il divino e giunge a concepire una folgorante intuizione: “E’ solo coniugando l’Eterno con tutte le nostre povere cose umane che ci salviamo.” Cercare la luce di Dio nel quotidiano è questo lo stato di grazia che il poeta raggiunge da uomo immerso appunto nel quotidiano delle piccole cose. (…) Guzzi in ogni parola che scrive, in ogni riflessione che elabora, si lascia conquistare dall’estasi profondamente umana della sua passione cristiana. (…) E’ in stato di grazia che egli scrive, ispirato dalla struggente visione dell’eterno. (…) Guzzi è poeta esistenziale e allo stesso tempo mistico, che ha deciso di intraprendere un percorso personale di conoscenza interiore. Così il poeta ricrea le cellule emotive della vita, trasforma il disgusto in benedizione, ama i propri nemici, cerca nel contatto dell’amore un risveglio interiore per arrivare all’uomo nuovo.(…) Altro non aggiunge MG nel suo libro di poesia, senza dubbio uno dei migliori di questa stagione. La poesia indica all’uomo la possibilità di abbracciare la vita spirituale e coniugarla con le nostre passioni terrestri per trovare la forza di sciogliere antichi nodi, e soprattutto andare oltre.

Nicola Vacca – Secolo d’Italia, 17 maggio 2005

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Nella mia storia Dio potrebbe essere un titolo sentimentale o evocativo, descrive invece con esattezza precisa fino alla prosa il contenuto del libro di MG, che è un colloquio serrato con Dio. MG espone i suoi pensieri, le sue fatiche, e Dio risponde, lo corregge, lo sorregge, lo conforta. E’ chiaro che leggendo si sa che quel Dio che parla è il poeta, e tuttavia, da come Guzzi ha costruito nell’andare delle pagine il colloquio, l’impressione è vivida. Si legge con curiosità la domanda e la risposta, non proprio come se a rispondere fosse davvero Dio, ma tuttavia, ecco, ci si chiede se Dio risponderebbe così. E’ un Signore imperioso e misericordioso quello in cui crede Guzzi, tanto da dargli voce.(…) L’ultima parola è lasciata al divino: “Ora lo sai,/ Io sono l’impeccabile espansione/ Dei tuoi sguardi./(…) Lasciate/ Che io scriva per terra / Una storia di persone più felici.”

Pierangela Rossi – Avvenire, 25 aprile 2005

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In Passigli Poesia, nella collana curata da Mario Luzi, appare un volume di grande interesse. L’autore, poeta e saggista, ha condotto alcune trasmissioni Rai e dirige la collana Crocevia presso le Edizioni Paoline. Il testo che oggi visitiamo è tanto un dialogo con Dio, che una risalita dell’io in scia di luce, che la coniugazione dell’Eterno con l’umano. La luce è della fede, ma anche della parola e ancora della voce. Le liriche conservano il silenzio interiore, sono lettere liberate dal dolore e dalla gratitudine e vivono nell’aura prossima all’inno: “Derivo da te/ sono la tua deriva.”

Alberto Cappi – La Voce di Mantova, 2 giugno 2005

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(…) Sconvolgenti i versi che aprono la raccolta: “Diventare adulti in Dio / E’ qualcosa che ha a che vedere con la morte.”; così anche la seconda poesia del volume intitolata “In eterno” possiede la schiettezza e la forza inedita che hanno le grandi poesie: “Chiara, te lo prometto, risorgeremo./ Io, te, mamma, e Gloria e Gabriele/ Rideremo in eterno e un nuovo gioco/ Impareremo a vivere tra Sirio/ E l’Orsa Maggiore.” In questo libro MG conclude il ciclo della sua poesia, che si era aperto con Il Giorno (1988)(…) Si tratta di un tentativo, unico nella poesia italiana contemporanea, di coniugare la modernità con la fede in un percorso di purificazione interiore che è andato di pari passo con una “conciliazione” linguistica. (…) Il testo è scandito secondo una bipartizione tra due voci: una è la voce del poeta, l’altra è altra voce: voce della coscienza, voce della Conoscenza, voce della Verità, voce della Sapienza…Verbum. La poesia di MG prosegue la ricerca avviata dai massimi poeti del Novecento in ordine alla possibilità di costruire una dimora linguistica abitabile per tutti gli esseri umani. (…) la conseguenza sul piano esistenziale-stilistico è una poesia della “ferita”, del dolore, della speranza, della preghiera, della fede, della gioia, della vita, della morte e della gloria, una poesia dunque che punta tutte le sue possibilità sulla capacità di tenuta dell’impianto linguistico, sottoposto agli urti laceranti e alle tremende sollecitazioni del dolore. (…) Poesia altamente colta dove convergono reperti dei Padri della Chiesa, di Dante, di Francesco d’Assisi fino a Campana, Celan, Bonhoeffer, Montale, Luzi, Char, Maritain, Claudel, in un mare agitato dove galleggiano i relitti linguistici ed esistenziali della modernità onnivora.(…) Una poesia che elegge quale sua dimensione eloquente l’esperienza del dolore è senz’altro da ascrivere ad un impegno alto e nobile, un impegno solitario ma non elitario, lungo un tragitto “coniugale” (per usare una sua espressione); un cammino di purificazione attraverso il mistero di Cristo, che il poeta annuncia con voce irripetibile.

Laura Canciani – Poiesis n.34/35, 2006

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Preparativi alla vita terrena
Passigli 2002, pagg.140. Euro 12,50

Non è facile dire se i versi di Marco Guzzi possano essere tranquillamente ascritti all’area espressionista. Di primo acchito tutto farebbe pensare di sì: il tono sapienziale, la tensione emotiva costantemente al diapason, la continua deformazione del disegno, la frequente frantumazione del metro, la violenza del colore, il ricorso “quasi cruento” all’allitterazione dicono di un’esperienza-limite, che parrebbe eccedere ciò che la cosiddetta realtà pone quotidianamente sotto i nostri occhi. Ma a ben vedere, non vi è nulla di più concreto e “reale” di questa esperienza. Come ci è noto fin dalla prima raccolta, Guzzi vede intorno a noi la notte, il buio del dolore irredimibile: e non ce lo nasconde. Ma al tempo stesso sa che questa notte non è eterna: che un varco esiste, e noi possiamo attraversarlo. (…) Come Bonnefoy, Guzzi crede che la luce dell’Altrove possa di nuovo investire il cammino pietroso del “qui”, e scorge in questa riconciliazione l’adempimento della speranza e della carità cristiana. Ma per raggiungere la mèta, dobbiamo uscire dalle pastoie, dalle griglie soffocanti della nostra identità – l’Io murato in sé come centro cieco e pseudoonnipotente -, e metterci in moto, e fare di noi stessi un transito, il transito: verso l’Altro, verso l’Altrove che ci chiama. (…) Nei versi di Guzzi ogni tragedia è già alle spalle: e ciò a cui ci si prepara, a cui si sta per nascere, è l’adesione al giorno che si annuncia, la residenza, dopo tanto esilio: questo, per ora, può bastare, la residenza nel benedetto qui.

Stefano Lecchini – Gazzetta di Parma, 8.3.2002

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Tra i poeti recenti d’ispirazione cristiana (da Elio Fiore a Paolo Valesio a Davide Rondoni) si distingue per il suo appassionato bisogno di resistere alla marea montante del caos la voce di Marco Guzzi, una voce nutrita insieme di un’energia critica aspra e pungente e di un fortissimo sentimento creaturale; una voce macerata nella stretta della sofferenza, eppure capace di additarci, con indomito coraggio, dei sentieri di fuga dai feticci della Storia e del pensiero, delle soglie ancora praticabili per ridare fiato al nostro doloroso bisogno di verità. Anche nella sua ultima raccolta, Preparativi alla vita terrena, Guzzi squaderna a tutto campo le molte corde della sua passione e del suo stile (timbri espressionistici e aforistici, cadenze gnomiche e tocchi epifanici, trepide volute liriche e scatti sarcastici) per richiamarci a un compito non più eludibile in questa età che potrebbe essere di sfacelo finale o di svolta verso un nuovo inizio: al compito di ritrovare la promessa in fondo al nostro “gene”, o di fare chiarezza in noi radicando la nostra attenzione nel corpo vivo del mondo, sapendo riconoscere anche nel dolore una forza vitale, educando le curve del nostro destino all’eventualità (sempre e comunque traumatica, al pari d’una scossa elettrica) della grazia, dell’occasione che potrebbe salvarci.

Paolo Lagazzi – Poesia, Gennaio 2003

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La posizione di questo poeta nel panorama poetico italiano è assolutamente autonoma: refrattario a qualsiasi inquadramento in linee o in gruppi, l’autore si ispira a Hoelderlin, Rimbaud, Char, Celan, che hanno impostato il lavoro su una parola “forte”, capace di “rivelare” e di diventare profezia del presente (…) La poesia dell’autore romano nasce su un complesso impianto di pensiero che rappresenta una manifestazione assai rara in epoca di minimalismo, di “pensiero debole”, quando le composizioni si limitano ad asettiche descrizioni o a scialbe narrazioni. (…) Sotto il profilo poematico Guzzi ha fatto tesoro degli sviluppi della poesia del Novecento. In primo luogo il volumetto è costruito in modo molto attento affinché la singola composizione sia dotata di autonomia semantica e nello stesso tempo sia parte di una struttura semica generale: in questo modo essa contemporaneamente assume e dona significato al contesto per similitudine, per contrasto e per continuità di discorso. (…) Ci troviamo, dunque, di fronte ad una raccolta che impegna nella sua superiore sintesi poetica l’intera realtà dell’uomo, dalla vita privata, agli uffici sociali, al suo passato culturale, letterario, emotivo e religioso, al presente tecnologico e scientifico, alla grazia all’interno di una dimensione itinerante difficilmente inquadrabile in un breve studio. (…) Non meno interessante è l’aspetto stilistico. “La grazia che mi arriva nel cervello”, “Sto mescolando due sostanze, ma una sola / inquadratura uscirà”: il poeta vuole prospettare la fine del dualismo platonico e rappresenta tale obiettivo anche sotto il profilo stilistico mediante l’adozione di termini concreti (il lavandino, l’abbaino, le scale, il cesso, l’intestino) e di situazioni desunte dalla realtà contemporanea, come il cinema, la cucina, la gita in montagna, il canto, il suono, con il preciso intento di incidere sul reale e di cancellare ogni sospetto di visioni metafisiche o retoriche. (..) Per questo motivo le immagini assumono una mobilità inconsueta, prevale il verbo in un modello sintattico spoglio ed essenziale, domina la brevità del periodo e del verso, le scene sono solo abbozzate, dislocate, come indicato dall’uso alterno del corsivo, in persone diverse, ma soprattutto in situazioni croniche e acroniche. Probabilmente non è ancora giunto il tempo per comprendere la straordinaria ricchezza di questa raccolta.

Giuliano Ladolfi – Atelier Settembre 2002

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Figure dell’ira e dell’indulgenza
Jaca Book 1997, pagg. 144. Euro 12.

Nel suo ultimo libro Marco Guzzi riunisce magnificamente il poeta ricco di guizzi metaforici e il pensatore rigoroso, interpreti entrambi del nostro tempo magico e infernale, generosi nell’accogliere i nuovi fermenti e inflessibili nel delimitare uno spazio morale e una gerarchia. Leggiamo la perfetta “Lettera a un giovane europeo”: “Impara a morire / Finché c’è tempo / In questa pace spoglia di gennaio / Che aspetta il rendiconto / Di tutto l’anno. // Prima di morire / Impara a morire, per scoprire / Che la nascita sovverte il tuo cronometro”. Trapela lo spirito sapiente e sapienziale di Guzzi, con il tono netto, a volte perentorio e a volte dolcissimo, come il Seneca delle Lettere a Lucilio, stilisticamente riletto attraverso la lezione agostiniana: ricerca di una parola esatta, che vibra di una “sbranata aurora”, di “qualcosa che preme sulla punta del cuore”.(…) Il Nascente auspicato da Guzzi coincide con l’immagine umanissima di un poeta araldico, messaggero che annuncia la fine occidentale in una grande insurrezione-risurrezione.(…) Il grido logico e visionario di questo libro: uno dei pochi a proporre, a imporre un’idea di poesia come “ammonimento”, generoso esporsi di se stessa al rischio del giudizio. La parola – e la stessa esistenza – di Marco Guzzi ci dice che non è sufficiente scrivere dei versi belli o riusciti prescindendo da un pensiero poetico, da un pathos, da un insegnamento. Le porte del tempio si sono chiuse. Ciascuno è solo con Dio, o senza Dio. Ciascuno porta in sé l’indifferenza del malvagio o il dolore del pentito, il trionfo della giustizia o quello dell’idiozia, la fede che attende la promessa imminente o quella che ne sente infinita la distanza, il giudizio evidente o quello imperscrutabile. Ciascuno è solo in una luce sovrumana. Non ci sono condizionamenti, ci ripete Guzzi contro ogni filosofia dello smascheramento, contro ogni realismo e ogni critica dell’ideologia. Il miracolo riappare nella storia. Il senso cristiano di una letizia. “Al cardellino / zuppo torna il fiato / In gola il dì di festa”. E’ il nascente. E’ l’uomo che rimane, che si pone sotto la protezione del cielo. E’ l’uomo inedito, a cui non è precluso nulla, a cui non è precluso il nulla o l’invito a risorgere in Cristo, a sentire il proprio dramma in uno sfondo perenne, a sentire l’impianto fermo e rasserenato del dogma.

Giovanna Sicari – Poesia, Aprile 1998

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Il terzo libro poetico di Marco Guzzi si propone con tono decisamente perentorio, come si può notare oltre che dal titolo, dai numerosi imperativi e dalla strutturale insistenza sul verbo essere. Lo stile di quest’autore si è ormai distillato e risulta perciò inconfondibile, la forza d’urto linguistica della sua ultima opera è davvero notevole. In pienezza di canto, l’autore supera qualsiasi impaccio letterario, offrendo al lettore un libro ricchissimo, lussureggiante, persino sfrontato e disinibito (“mi sono emancipato”) nella virulenza creativa, che a ogni pagina sprigiona una nuova immagine, costruendo con generosità una vastissima galleria di figure, dimostrando una fertilità quantomeno insolita nell’asfittico panorama di questi anni. Persino l’apparato concettuale che questi testi presuppongono (o determinano?), e che si concretizza nelle pubblicazioni teoriche dell’autore (che andrebbe letto dunque sinotticamente), sembra essersi sciolto pienamente nella sua poesia.

Marco Merlin – Atelier, 1998

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Teatro Cattolico
Jaca Book 1991, pagg. 150. Euro 9.

Il lavoro poetico di Marco Guzzi, che dopo Il Giorno (’88) giunge a piena maturazione con Teatro Cattolico, è inseparabile dalla sua riflessione filosofica concentrata soprattutto nel volume La Svolta (’87), opera di epocale e assoluto respiro. Ma questo rapporto non deve essere inteso nel senso di un generico approccio philosophisch alla scittura poetica, che anzi in Guzzi possiede una forza che non ha bisogno di nulla, di nessun supplemento o aggiunta. Occorre invece pensare alla relazione tra poesia e pensiero nell’ottica di un decisivo richiamo al lògos essenziale-aurorale, ad una lingua dell’essere che in Guzzi brucia la materia del suo dettato nel fuoco rigenerante dello spirito. (…) Teatro Cattolico, opera in cui si avverte, secondo le giuste osservazioni di Roberto Mussapi “la coscienza di vivere un’età decisiva della storia dell’uomo”, costituisce la scena di una germinazione, di una dolorosa passione che prelude al risveglio nella parola e tramite essa (“Chi mi fa salvo è presso la parola”), nell’universale disegno dove il martirio cristico, il dramma della rivelazione in humilitate, nell’umiliazione filiale della croce, si convertono in nuova nascita.(…) Teatro Cattolico mette in scena l’abisso e il suo rovesciarsi nel nuovo giorno, parla con trakliano dolore ai popoli morenti e indica tuttavia un regno oltre la loro sfigurante agonia, conosce l’oscurità ma in essa mostra un sacro lucore; è un canto spirituale che domanda l’ascolto di tutti, al di là di ogni confessione e di ogni chiesa, che scommette sul farsi amore della parola, fondamento di una comunità universale nello spirito rigenerata.

Roberto Carifi – Poesia, Febbraio 1992

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Già la suddivisione in due sezioni dal titolo Le nozze e Il parto ci introduce nel vivo del dramma cattolico: le nozze tra il cielo e la terra, la luce e il buio, la parola e le cose, l’uomo e la donna; il parto, che è generazione di sé, filiazione, il fare del Verbo, il fare della poesia, l’amore. (…) Non c’è per fortuna nulla di consolatorio, anche se sappiamo che severa e drammatica è la religione cattolica, al di là dei compromessi cui la confessione ha cercato di coinvolgerla. “Non vedo il fondo, non vedo che la vita / In un gremito fremito di corpi / E quel morirvi dentro, senza storie”.

Franco Loi – Il Sole 24 ore, 22.3.1992

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Quando aveva trentadue anni Marco Guzzi pubblicò un libro molto bello, La Svolta, che ci donò una lettura di Heidegger fondamentale, per molti la sola condivisibile. Secondo Guzzi Heidegger non fissava l’Occidente nel tempo di crisi senza uscita del nichilismo, ma gli chiedeva di immergersi nell’abisso della nostra mortalità, per risorgere nel luminoso albore del Giorno. E Il Giorno si intitolò il volume di poesie pubblicato da Scheiwiller l’anno successivo. (…) Ora Teatro cattolico radicalizza ulteriormente le tensioni che attraversano Guzzi, frustandolo a percuotere con domande incessanti la porta di Dio e delle nostre anime.(…) Guzzi usa un linguaggio impervio. Non seduce con la facilità e costringe il lettore a bussare alla porta delle sue parole così come egli stesso fa alla ricerca dei sensi delle cose: sempre complessi, densi, raggrumati.(…) Pochi hanno l’attenzione di Guzzi verso ciò che nella vita è grave, lacerante, perfino corrosivo oppure affondato nel sangue e nel fango. In lui un’ansia di luce scatena gravità, addensamenti di pensieri che turbinano o esplodono come saette.(…) In Guzzi poesia e filosofia si intrecciano in nome di una domanda continuamente posta sui grandi temi della nostra epoca.

Rosita Copioli – L’Avvenire, 29.4.1992

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Di altra natura è la complessità in Teatro Cattolico di Marco Guzzi, poeta tra i quattro o cinque sicuramente più notevoli di una generazione successiva rispetto a quella di Krumm (l’uno è infatti nato nel ’42, l’altro nel ’55). Complessità che tende al tono tragico, che è più asciutta e violenta, che si fonda, in questa fine d’epoca, in una prospettiva di rigenerazione. (…) non è certo a definizioni dogmatiche, o a una rigida ortodossia che Guzzi si riferisce. L’interpretazione delle figure del pensiero cristiano è infatti libera e aperta, ed è perciò punto di riferimento e di partenza per una lettura profonda dell’esistenza umana. E si svolge, naturalmente, secondo i modi e le associazioni, le vibrazioni speciali del pensiero poetico.

Maurizio Cucchi – Il Giornale, 15.11.1992

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Mi auguro che tutti, la notte del 31 dicembre, abbiano disertato discoteche, cenoni e veglioni, per celebrare il nuovo anno en privé, in compagnia della propria anima assetata di luce e riscatto, leggendo i bellissimi versi che Marco Guzzi ha racchiuso nella sua nuova raccolta. Gran libro di morte e rinascita, agonistico, “agonico”: tutto vi è sparso, diviso, squartato: il cuore è morto, il mondo sta marcendo, è sangue e sanie, e macello, e distruzione – ma non tardiamo molto ad accorgerci (giusta il cartiglio che marca una celebre sezione di Bonnefoy) come lo sparso sia, nel medesimo tempo, l’indivisibile: velieri veleggianti verso il nome che battezza, l’amalgama, la sede dell’Oceano, la foce. Quel che mi piace, di Guzzi, è la perentorietà misericordiosa dello stile: tutto coagula in immagine, in metafora; confiteor alla Merini, proclami alla Rimbaud, emblemi alla Bonnefoy; la prosodia, continuamente fratta e rilanciata da cesure e enjambements, è fecondata dall’urto spoglio e straripante della luce: soffio, canto orfico che muta il mattatoio in fattoria, ed evoca e anticipa, nella ferma, luminosa fanfara della voce, l’avvento della salvezza, della salute irrevocabile del mondo.

Stefano Lecchini – Gazzetta di Parma, 4.1.1992

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Il Giorno
Scheiwiller 1988, pagg. 74.

La luce che bagna la poesia di Marco Guzzi suggerisce la trasparenza della grazia, il nutrimento celeste che libera, ciome già in Simone Weil, dalla colpa della pesanteur e dell’ombra. Con la raccolta Il Giorno Guzzi sviluppa un discorso poetico che ha la cadenza della preghiera, la gioia della pura contemplazione, lo stupore umile e mistico del distacco. (…) Affidando al Giorno il senso di una “chiamata”, di un “evento”, di una resurrezione che la poesia ha il compito di annunciare, Guzzi si espone al “tormento liberatorio” di una luce “che approssima alla vita”, che nel transito doloroso atraverso la notte del mondo approda alla “piena visione”. Una poesia che traccia con autorevole e personale ricchezza, il percorso di una martyria che perviene infine alla figura cristica e filiale del “risveglio”, che converte in ritorno l’esilio della moderna coscienza infelice.

Roberto Carifi – Leggere, Maggio 1989

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Marco Guzzi, Il Giorno. Metafora della luce “senza inizio”, perché “è già”. Oltrepassamento del tempo della povertà heideggeriana: “Non solo gli Dèi e Dio sono fugggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale” (Heidegger). Dio vuol dire luce, splendore, giorno. Siamo “già” nella luce, nello splendore del giorno. Sono i nostri occhi troppo ciechi. “Perché i poeti?”. Perché si riconosca il luogo che già si abita, come la nostra casa che non è mai pensata.

Umberto Galimberti – Il Sole 24 Ore