Alcune riflessioni sulla fecondazione artificiale
Ricordo ancora lo stupore che provai alcuni anni fa quando due ricercatori svedesi spiegarono di aver elaborato una nuova tecnica di diagnosi preimplantatoria che avrebbe evitato la nascita di tanti bambini affetti da gravi malattie genetiche. I due professori di Goteborg si chiamavano Jan Wahlstroem e Lars Hamburger e la loro tecnica era molto semplice, e da allora è stata ulteriormente perfezionata: si tratta di produrre in provetta diversi embrioni e attraverso le analisi appropriate selezionare poi per la futura gravidanza solo quelli dotati delle caratteristiche genetiche desiderate. Il mio stupore non era determinato dal nuovo progresso della tecnica applicata alla medicina, quanto piuttosto dal tipo di ragionamento che guidava i due scienziati. Essi sostenevano con grande ottimismo e incredibile ingenuità che in tal modo alcune malattie sarebbero semplicemente scomparse. E proprio questa affermazione mi riempì di stupore, e anche di un certo sgomento. Ciò che infatti risulta evidente a chi usi la propria ragione in modo corretto è che non si può affermare che con questa tecnica selettiva vengano sconfitte alcune malattie, ma che semplicemente vengono eliminate le persone portatrici di queste malattie. Si impedisce per esempio a persone affette dalla sindrome down di nascere. Tutto qui. Si decide che questo tipo di umanità non deve più nascere. Si può fare, ma è bene che ce lo diciamo con chiarezza ciò che vogliamo fare. Se crediamo che sia opportuno avviare un programma di selezione eugenetica, almeno ci si spieghi quali ne saranno i principi regolatori: chi insomma avrà diritto a nascere? Quali caratteri fisici o magari psichici, rilevabili dalle analisi genetiche sempre più accurate, saranno ritenuti sufficienti a legittimare una gravidanza? L’elemento davvero preoccupante è insomma l’ambiguità, l’ipocrisia, e la mistificazione concettuale che dominano nei discorsi di tanti difensori della libera ricerca. E il non definire le cose con il proprio nome è uno dei presupposti di ogni sistema totalitario, come ci ha ben insegnato Orwell.
Qual è il confine del lecito nella manipolazione del fenomeno della nascita?
In questi anni ne abbiamo viste di cose strane: un bambino che nasce con il seme di un uomo morto, o dopo che la madre è defunta da anni, con materiali genetici congelati o mediante uteri presi in prestito; due lesbiche decidono di diventare “mamme” facendosi inseminare artificialmente da un loro amico, omosessuale anch’egli; vendite in apposite banche di liquido seminale doc prodotto da donatori tutti laureati nelle migliori università americane e naturalmente “con lode”; al London Medical Hospital College una ventenne sana, robusta e vergine pretende di avere un figlio artificialmente perché le ripugna il rapporto sessuale, e così via. In che misura queste richieste esplicano sacrosanti diritti soggettivi o esprimono solamente aberranti richieste guidate da infantilismo e prepotenza? Chi è poi il donatore di sperma rispetto al bambino che nascerà? Come lo dobbiamo chiamare? Perché certamente un rapporto con il futuro individuo ce l’ha. Quest’essere porterà infatti nella sua carne la memoria della famiglia del donatore, quel mistero chimico e spirituale che chiamiamo ereditarietà genetica. C’è chi propone di chiamarlo “ascendente biologico”. Che rapporto sussisterà tra questo “ascendente biologico” e la donna che si è coniugata geneticamente con lui? Quali fantasmi aleggeranno tra il figlio, la madre, l’ascendente biologico, e il padre ufficiale? Come si fa a tralasciare tutto questo, e cioè la spaventosa complessità della psiche umana, in nome di una prospettiva meccanicistica, piatta, e ridicola della vita, che non possiede alcun fondamento teorico, neppure nell’ambito delle scienze esatte? Anche qui ciò che davvero stupisce è l’incredibile povertà e unidimensionalità di un certo pensiero dominante.
Quando non si posseggono più i nomi per le cose che si producono, quando una civiltà non sa più come denominare le situazioni o le relazioni che deliberatamente produce, vuol dire che si è toccato un limite che non è più etico o giuridico, ma antropologico-culturale: siamo davvero alla fine di un ciclo millenario, in un luogo difficile, pericoloso, ma anche aperto a nuove possibilità evolutive.
Che ci troviamo in una fase di trapasso cosmico-storico, come si diceva nella Germania post-hegeliana, è ormai evidente anche agli scienziati del settore. Il biologo Clifford Grobstein ad esempio scrive: “Forse all’alba del quarto millennio dopo Cristo la nostra epoca verrà vista come l’inizio di una seconda grande transizione. La prima transizione è stata quella che da una modalità biologica ci ha fatto passare a una modalità culturale. (…) La recente e sempre crescente capacità di intervenire in maniera intenzionale e diretta nei processi ereditari e riproduttivi introduce una dimensione nuova. (…) Se per lungo tempo siamo stati una specie che crea il proprio ambiente, ora dobbiamo affrontare il problema se diventare o no una specie che si autocrea. Questa è la natura della nuova grande transizione a cui ci stiamo avvicinando”.
Dato però che per la prima volta nella storia dell’umanità ci troviamo a vivere una transizione antropologica in piena consapevolezza e in diretta mondiale, perché non usare maggiore cautela? Perché non utilizzare strumenti di pensiero un po’ più complessi per valutare come procedere? Ciò che sta vacillando, infatti, è la stessa identità dell’uomo per come l’abbiamo conosciuta finora; ciò che dobbiamo configurare è una nuova figurazione di questa identità: non è poco. Dipenderà da noi se questo passaggio di figura sarà una trans-figurazione del volto dell’umanità, oppure una sua brutale e definitiva sfigurazione.
Come si sentirà l’embrione congelato? O lo dobbiamo chiamare pre-embrione fino al quattordicesimo giorno? Sì, insomma, quella cosa certamente imparentata con l’umano che quando sta nella pancia di una donna, questa esclama: “Aspetto un figlio”?
Come si sentirà quell’essere tenuto in frigorifero per anni? Ma non sente niente, ci diranno alcuni scienziati, non è una persona, non è un individuo, è una cosa… Strana cosa, però…una cosa, o, meglio, l’unica cosa da cui possa svilupparsi un essere umano (e infatti anche i più permissivi ne vogliono comunque vietare la vendita…). In realtà non sussiste alcuna prova scientifica che quella cosa non sia una persona (né che lo sia), per il semplice motivo che il concetto di persona è una nozione metafisica, e non biologica. E allora?
E allora, seguendo un consiglio tratto dalla procedura penale, si potrebbe dire: In dubio pro reo: nel dubbio, cautela.
E se le migliaia di embrioni surgelati fossero invece proprio persone, esseri umani che aspettano di nascere, che desiderano con tutto il fremito del loro essere di nascere, e che soffrono nell’inferno dei loro ghiacciai? Se tutti gli embrioni “sacrificati” nel processo della fecondazione artificiale, se tutti gli embrioni scongelati e buttati nel cestino, se tutti gli embrioni su cui si fa sperimentazione (e quindi vengono soppressi) fossero esseri umani in senso pieno, e avessero forme e modalità di percezione emotiva che ancora non conosciamo? E se, andando ancora oltre, esistesse un progetto più grande di quello che la nostra razionalità comprende, un disegno delle nascite, un senso cosmico del nascere e del morire, con quali strumenti conoscitivi ci andremmo ad intrufolare nelle sue sottilissime trame, con quale arroganza? Non è proprio la razionalità occidentale che da almeno un secolo è in crisi nella sua pretesa di porsi ad unico ed infallibile fondamento del mondo? E allora da dove tiriamo fuori tanta sicurezza? Ciò che chiederemmo alla attuale cultura laica non è perciò di credere in un ordine soprasensibile, ma proprio di dubitare di più: è il dubbio che sento carente, mentre prevale una sicumera senza fondamenti, un pensiero infantile e sgangherato applicato a poteri molto pericolosi.
La transizione che stiamo attraversando sarà lunga e complessa: molto lentamente l’umanità nascente, la nuova figura trans-egoica e planetaria di uomo che preme nel grembo di ciascuno di noi e della storia, ci insegnerà a comprendere meglio chi siamo e quali vie della tecnogenesi della specie umana e del mondo siano realmente evolutive. Nel frattempo credo che dobbiamo resistere alle derive tecnicistiche della figura egoica terminale, che invece di tramontare per far posto al Nascente, pretende di perpetuarsi in forme sempre più artificiose e malsane, e che potrebbe andare molto avanti nella produzione dell’orrore, come profetizzò più di mezzo secolo fa Martin Heidegger: “Poiché l’uomo è la materia prima più importante, ci si può aspettare che, sulla base delle attuali ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche per la produzione artificiale di materiale umano”. E lo si fa già e lo si farà sempre più certamente in nome della salute o del progresso della scienza…
Jorge Luis Borges scrisse una bella poesia su Leon Giuda, il rabbino di Praga che costruì il suo Golem artificiale e che poi amaramente se ne pentì, fino a gridare di fronte alla sua creatura irrimediabilmente tonta: “Come ho generato/ questo figlio sciagurato, e abdicai all’inazione, che è la saggezza?/ Perché volli aggregare un nuovo modello all’infinita serie?” Altre versioni della leggenda invece dicono che il rabbino fu ucciso dalla sua infelice creatura; la stessa fine d’altronde che Mary Shelley fa fare al suo dottor Frankenstein. Dal punto di vista drammatico questa conclusione mi sembra la più convincente, in quanto chi genera mostruosità finisce sempre col diventare a sua volta mostruoso, e con l’essere prima o poi distrutto dalle sue stesse produzioni divenute incontrollabili. E infatti per noi il nome Frankenstein non evoca più lo scienziato ginevrino, ma proprio il suo umanoide malamente ricucito. Quest’ultimo rubò il nome e il ruolo di protagonista al suo incauto costruttore intorno agli anni Trenta, allorché il cinema evidenziò la pochezza caratteriale e la nullità intellettuale del “dottore”, così che tutta la scena fu occupata da lui, dal gigante dalla testa quadrata, impersonato stupendamente da Boris Karloff.
Ci riflettano i troppi ricercatori senza scrupoli e senza dubbi. Pensiamoci bene un po’ tutti.