Per Martin Heidegger a trenta anni dalla morte
Vorrei riflettere con voi con molta umiltà intorno a questioni davvero grandi. Mi sembra che oggi la vera umiltà, che è fedeltà alla terra (humus) e alla nostra umanità, ci costringa a pensare in grande, ad arrischiarci in visioni sintetiche, ad allargare lo sguardo su panorami millenari. Molti autori viceversa, che oggi sembrerebbero percorrere vie più modeste, privilegiando l’osservazione di una quotidianità sempre più piatta, volando basso, e spegnendo ogni ardore visionario, mi pare che il più delle volte nascondano una sorta di infantile presunzione, quella cioè di chi appunto presume di non avere più nulla di grande da imparare, e pretende per di più di imporre la propria miopia come visione universale insuperabile. La psicologia del profondo ci ha insegnato che questi atteggiamenti sono in realtà delle semplici difese. Questi autori, questi registi, questi artisti, questi filosofi hanno solo una paura tremenda di esporsi all’ignoto e alla propria trasformazione. E purtroppo, in questi ultimi decenni, come già diceva Oscar Wilde, proprio chi non è più in grado di imparare, si è messo ad insegnare.
Questa piccola riflessione che vi propongo si terrà prossima alla mia esperienza poetica personale, ma vorrebbe essere anche un omaggio alla memoria di Martin Heidegger, a trenta anni dalla sua morte, e al contempo una specie di lettera di augurio a tutti i miei amici e a tutte le mie amiche che scrivono versi. Ci sono dapprima però alcune coincidenze temporali che vorrei indicarvi. Il mio primo scritto su Hoelderlin è del 1976, anno di morte di Heidegger, mentre la mia prima conferenza per il Centro Montale la tenni nel 1986 proprio su La Svolta di Heidegger, per i dieci anni dalla sua morte. E oggi nel 2006 torno con Maria Luisa Spaziani, in un nuovo esordio delle nostre attività seminariali, a parlare proprio di un’interpretazione di Hoelderlin fatta da Heidegger, per il trentesimo anniversario della sua morte. Ma la catena continua ampiamente all’indietro. Heidegger tenne la famosa conferenza “Perché i poeti” nel 1946, esattamente 60 anni fa, in occasione dei 20 anni dalla morte di Rilke (1926). D’altronde Hoelderlin, autore del verso “Perché i poeti nel tempo di carenza”, che ispirò il discorso di Heidegger, fu ricoverato nel 1806, proprio 200 anni fa, mentre la sua prima raccolta uscì nel 1826 (cento anni prima della morte di Rilke), seguita dalla più completa edizione Schwab nel 1846 (a cento anni esatti dalla conferenza di Heidegger). Nel 1936 infine, esattamente 70 anni fa, Heidegger tenne proprio qui a Roma la sua prima conferenza su Hoelderlin e l’essenza della poesia.
Dico questo perché io credo che non esista alcuna casualità degli eventi e che la maturazione segreta del destino lanci sempre segnali per chi osa credervi. All’inizio della sua conferenza Heidegger, riferendosi appunto al verso “..e perché i poeti nel tempo della povertà?”, diceva: “Oggi comprendiamo a stento la domanda. Come potremo intendere la risposta che Hoelderlin dà?”. Già Hoelderlin ci aveva d’altronde avvertito: “Lungo è il tempo, ma avviene/ Il Vero”. Forse oggi possiamo comprendere qualcosa di più di ciò che le intuizioni di Hoelderlin intravidero e le visioni di Heidegger incominciarono a descrivere.
Mi soffermerò solo su 2 punti cruciali impliciti nel titolo stesso della nostra conferenza: innanzitutto vorrei dire qualcosa sulla singolarità del nostro momento storico, qualificato addirittura come “fine di un mondo”, e poi vorrei indagare su che cosa significhi essere poeti in questa fase.
“L’epoca a cui manca il fondamento pende nell’abisso. Posto che, in genere, a questa epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge a partire dall’abisso.” Così Heidegger descrive questa fase della storia, e questa frase così apodittica e severa posi a fondamento del mio primo libro teorico La Svolta – La fine della storia e la via del ritorno (Jaca Book 1987). Ora ciò che vorrei sottolineare è l’estrema ambiguità del tempo che ci è toccato da vivere. Da una parte stiamo attraversando una sorta di liquidazione universale dei significati, in cui tutto sembra con-fondersi o disgregarsi, perdendosi in una notte caotica e senza vie di uscita. Dall’altra, proprio in questo calderone planetario in cui tutto si mescola, sembra emergere e farsi strada qualcos’altro. E’ come se stessimo sopportando in presa diretta, anzi negli stessi metabolismi fisici del nostro corpo, l’alternanza tra due mondi e quindi tra due figurazioni del nostro stesso essere uomini, una morente appunto e un’altra appena nascente. Questo spiega, tra l’altro, perché tutta la mia poesia sia strutturalmente dialogica e a due voci: è infatti proprio nella notte del mio più penoso tramonto che irrompe l’Altra Voce, come scrivevo nella Nota al mio primo libro di poesie Il Giorno (Scheiwiller 1988): “Quando la Voce del Giorno, la Chiamata, irrompe nell’atmosfera plumbea della coscienza ordinaria ego-centrata (…) allora rispondere davvero significa aprirsi, spalancare le vetrate dell’ascolto”.
Il problema che si apre è: Chi parla dentro il mio annottamento? Chi risponde alle mie domande sempre più inquiete? E’ su questo punto che si concentra e si infiamma l’esperienza poetica davvero contemporanea: Qualcuno parla in me e tramite le mie parole, ed è proprio questa scoperta l’inizio di una nuova era antropologica. I poeti non sono altro cioè che i precursori di una modalità inedita di sperimentare la propria umanità come soggettività in relazione: Io sono solo in quanto sono in dialogo con Te. Ricordate Rimbaud: “E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino.” L’io umano è solo uno strumento, sia pure libero e cosciente, di una trasmissione di pensiero. Non è il lettore CD a creare la musica. Non è il cervello a produrre la nostra parola. Noi siamo semplici recettori, la fonte dell’armonia è ben altra. E questa rivelazione segna propriamente la fine del mondo dell’io monologante, e il primissimo mattino di un mondo in cui l’io umano scopre (ad un nuovo e inedito livello di profondità) di essere abitato, ispirato, e guidato in un dialogo pieno di amore con la fonte stessa del proprio essere.
E qui arriviamo al secondo punto della nostra riflessione: che cosa significa essere poeti oggi, alla fine del mondo dell’io ego-centrato? Torniamo alla conferenza di Heidegger del 1946: “L’essenza del poeta che in tale tempo è veramente poeta richiede che in lui poeticità e vocazione alla poesia divengano questioni poetiche a partire dalla povertà del tempo. Perciò i poeti del tempo della povertà debbono espressamente poetare l’essenza stessa della poesia. Quando questo succede è da presumersi l’esistenza di un mondo poetico conveniente al destino dell’epoca. Noi dobbiamo imparare a udire ciò che dicono questi poeti, se non vogliamo vivere superficialmente e inconsapevolmente”. I poeti contemporanei non possono che poetare l’essenza dialogica del proprio dire, non possono che sperimentare il miracolo continuo di un’Altra Voce che parla in me e mi fa vedere in altro modo ciò che sto vivendo, ciò che sta succedendo sulla terra. Non possiamo che farci porta-voce di questa Voce, in quanto è la sua emersione liberatoria ciò che sta accadendo, e i poeti non possono che testimoniare e cantare il Presente Accadere. Perché i poeti alla fine di un mondo, dunque? Per far risuonare la Voce del Giorno dentro l’avanzatissimo annottamento, per essere umilissimi strumenti dell’attuale passaggio di umanità, al servizio del Nascente.
Farci canali sempre più servizievoli di quest’Altra Voce è un compito arduo e pericoloso sotto molteplici punti di vista. A livello di società letteraria non verremo facilmente capiti né accettati. La maggior parte della produzione editoriale infatti è restata “monologante” non solo dopo Hoelderlin, ma anche dopo Rimbaud, o dopo Celan o Luzi, e anche i più giovani sembrano quasi tutti ancora incapaci di un vero ascolto dell’Altra Voce. Rimbaud colpiva perciò nel segno quando diceva: “tanti egoisti si proclamano autori”, ci sono tanti “funzionari, scrittori”, ma “autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito”. Ma forse Rimbaud esagerava anche un po’, forse è solo una questione di proporzioni. Proviamo ad essere solo un po’ meno egoisti, proviamo a metterci un po’ più in silenzio, proviamo a fare domande e a porci in ascolto di risposte inaudite non nostre. Vorrei veramente che tanti amici e amiche che scrivono versi potessero uscire dalla chiusura claustrofobica del nostro io morente, che continua il suo secolare e inutile piagnisteo, e potessero sperimentare di persona la verità inebriante di queste parole di Paul Celan: “Quaggiù/ filtra donata da notti/ una voce/ dalla quale attingi la bevanda”. Perché non vogliamo bere e dissetarci? Perché continuiamo a credere che esista solo il nostro deserto? Perché non ci slanciamo nel processo della nostra liberazione? Perché continuiamo ad inquinare l’aria e i cuori con i fumi mefitici delle nostre presunzioni infantili? Perché ci accontentiamo come poeti di questa spaventosa irrilevanza sociale, determinata dal fatto che le nostre parole non trasmettono la forza sorgiva di ciò che sta nascendo nel cuore di tutti?
Abbiamo bisogno di poeti che siano canali umilissimi di Colui che sta venendo in noi, e che può avvenire solo nel nostro diventarlo. Ma questo richiede l’abbandono di molte istituzioni letterarie che appartengono al mondo del passato, e quindi una grande propensione alla povertà e una sconfinata fiducia nella gioia della vita vera: “La sventura della parola, la crisi di identità che essa manifesta in chi la esperimenta, è ciò che accade allorché ci si rifiuta – e certamente per orgoglio, perché esso deriva dai sogni di sovranità della persona – di lasciarsi invadere e trasformare da un’identità superiore: quella che unisce a se stessa, nell’immediato, il tutto dell’universo come tale; quella che fa di noi una delle sue parti, semplicemente, ma ci ricolma in questo modo di una evidenza, di una musica”(Y. Bonnefoy). Slanciamoci, fratelli e sorelle, nel turbine salvifico della nostra trasformazione, impariamo ad ascoltare le lezioni che l’Altra Voce, la Voce del Nascente, continua a darci, se la ascoltiamo con tutto il nostro cuore svuotato, povero, e devoto. Queste lezioni sono parole davvero nutrienti, sono energie potenti, contengono i ricostituenti della nostra umanità e le direttrici del disegno divino che guida i destini del mondo.
Permettetemi di chiudere questo splendido incontro con voi con una piccola poesia che si intitola appunto Dal parlatoio, e che si trova nella mia ultima raccolta Nella mia storia Dio (Passigli 2005). All’inizio sono citate queste parole tratte dal Vangelo di Matteo: “quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”(10,27):
Dal parlatoio dell’altro mondo
Io sento il tuo respiro
Di visitatore.
Dalle grate
Che sfumano io avverto
Venire le parole, e la legione
Virale dissiparsi.
Non c’è più odio.
“Credimi!
E’ forte la parola che ti mando.
La guarigione
Passa per gocce
Medicamentose, per idee.
Scrivile
Tu.
E’ il ricostituente
Planetario.
Non c’è armamentario
Che ti serve. Va’ come sei.
Spargi il mio contagio”.
Conferenza tenuta presso la Biblioteca della Camera dei Deputati in Roma il 14 marzo 2006.