Crisi e rigenerazione del progetto democratico
La crisi della democrazia come crisi culturale dell’intero Occidente
1. Perché la politica è in crisi? Questa domanda oggi in realtà chiede: perché il progetto democratico è in crisi, proprio ora che ha definitivamente sconfitto il suo più grande avversario, e cioè il comunismo, che pretendeva di rappresentare il sistema democratico più compiuto, la democrazia davvero reale?
Giovanni Sartori sottolinea come la perdita del nemico cambi “tutti i punti di riferimento. La democrazia senza nemico non ha più problemi esterni, fuori da sé. Paradossalmente, ma non tanto, perdere il nemico esterno scoperchia il vaso di Pandora dei problemi interni”.
Ma quali sono questi problemi interni così gravi da portare il dibattito politico nazionale e internazionale a livelli così bassi e la disaffezione dei popoli a livelli così preoccupanti? Come mai non riusciamo ad elaborare un’azione culturale e politica adeguata alle sfide estreme della contemporaneità? Come mai in un tempo straordinario e per certi aspetti unico come il nostro, in cui il pianeta è già unificato tecnicamente e rischiamo di distruggerci in tanti modi, mentre centinaia di milioni di persone muoiono di fame o di malattie facilmente curabili, come mai non emerge ancora nessun progetto sufficientemente forte e autorevole che sappia fronteggiare le emergenze e ci sappia anche entusiasmare? Come mai non emerge nemmeno un pensiero critico che controbilanci l’omologazione culturale e la stagnazione delle coscienze? Come mai nell’800 e nel ‘900 le élites culturali occidentali e masse consistenti della popolazione sapevano consacrare le loro vite, nel bene come nel male, a progetti di rinnovamento radicale dell’uomo e della società, e oggi, con gli strumenti tecnici della comunicazione di cui disponiamo, sembra essere calata sul mondo una sorta di nebbia spessa di abulia, di scoraggiamento, e di depressione?
2. Di fronte a problemi di questa portata oggi si possono scegliere due direzioni analitiche molto diverse: o si decide di rimanere in superficie, limitandosi a scalfire la crosta del problema, oppure si avvia un vero e proprio scavo di pensiero che pretenda di individuare le cause profonde e le traiettorie magari secolari che ci hanno condotti al punto in cui ci troviamo, per poi tentare di delineare le possibili direttrici concretamente evolutive.
Risposte superficiali intorno al problema della crisi della democrazia ne circolano in abbondanza, e vanno sostanzialmente dall’inesauribile discussione sulle possibili riforme istituzionali o del sistema elettorale fino al grido unanime contro le ruberie e gli sprechi dei politici, contro la loro inesauribile corruzione. Ora la corruzione è l’effetto naturale che subisce un corpo quando muore e si disgrega, quando cioè perde l’unità organica della vita. Un corpo morto appunto si rompe in tanti pezzi, si co-rompe, perché non possiede più la forza coesiva di ciò che è vivente. E allora la corruzione dei politici non spiega affatto lo stato attuale di crisi del sistema, ma ne è casomai un effetto. La domanda resta inevasa: perché il corpo della democrazia è morto?
3. Scegliere la via dello scavo di pensiero richiede invece un certo sforzo di riflessione. D’altronde troppe volte si dimentica che la politica nasce in Occidente e si sviluppa nei secoli come una branca della filosofia, e la sua crisi infatti discende direttamente, come vedremo, dalla crisi ben più ampia dell’intero pensiero occidentale. Per cui soltanto uno scatto di creatività filosofica potrà rianimare anche la discussione politica.
Faremo perciò tre piccoli passi, mantenendoci in una estrema sintesi, e di conseguenza arrischiandoci anche in una nuova semplicità, che potremmo chiamare di secondo grado, in quanto prova a portare con sé tutta la complessità teorica che giunge fino a noi, estraendone però solo ciò che per davvero ci serva per il passo evolutivo che ci attende.
Prima dunque osserveremo la situazione critica così com’è, senza pregiudizi né illusioni; poi collegheremo la crisi attuale della democrazia alla storia da cui proviene; ed infine, compresa l’ampiezza e la radicalità del passaggio in atto, tenteremo di intravedere le linee di una inedita democrazia progressiva per il XXI secolo.
4. Ma prima di addentrarci in queste analisi vorrei anticipare una primissima risposta poetica alla domanda sulle cause della crisi della politica contemporanea.
Potremmo dire che la nostra condizione di esseri umani postindustriali, postnovecenteschi, postmoderni, postcomunisti, poststorici, postumi in un certo senso a noi stessi, sia ben rappresentata dalla stupenda serie televisiva americana chiamata Lost: ci sentiamo tutti un po’ perduti in un luogo ignoto e selvaggio, perduti nell’Oceano, tutte le nostre conoscenze e identità precedenti vengono perciò riformulate in base a ciò che in questa situazione inedita ed estrema ci può realmente servire. Tutto il resto crolla, svanisce. Tutta la vita torna all’essenziale, al confronto definitivo tra vita e morte, tra fede e disperazione, tra rovina e salvezza, e diventano necessarie per sopravvivere virtù apparentemente opposte: la razionalità più lucida e le intuizioni lampo, la pragmaticità tecnica e la chiaroveggenza, il coraggio intraprendente e la dedizione silenziosa.
Ora, mentre ciascuno di noi vive così, in questo stato estremo del cuore, il discorso pubblico dominante sembra quasi sempre ancora quello di un vecchio preside di qualche decennio fa, ricco di appelli retorici, di echi risorgimentali, fatto cioè di parole che non riescono più minimamente a toccarci, a raggiungere le profondità eruttive e i baratri d’angoscia delle nostre esperienze esistenziali quotidiane.
Viviamo cioè un divario crescente e drammatico tra l’attuale esperienza umana, che è un vero e proprio travaglio di portata antropologica, e la rappresentazione dominante (culturale e politica) che ce ne viene offerta 24 ore su 24. Questo divario dipende essenzialmente da una spaventosa carenza di creatività culturale, di nuove visioni che ci aiutino a interpretare ciò che stiamo vivendo. E’ in crisi in altri termini l’intera cultura occidentale. E’ ovvio perciò che la discussione politica precipiti nell’insignificanza, nelle beghe bizantine tra i partiti, o nella rissa verbale di tutti quelli che parlano e litigano tra loro, accomunati soltanto dalla medesima e radicale assenza di idee e di prospettive per il futuro!
La storia presente come immane spartiacque
1. Sul primo punto mi soffermerò pochissimo, in quanto dovremo tornarci alla fine del secondo. Ciò che i più profondi osservatori vedono già da tempo con chiarezza è che la crisi della democrazia non è affatto un fenomeno congiunturale né tantomeno solo italiano, tant’è che se ne parla da decenni proprio nei paesi angloamericani di più antica e solida tradizione democratica. Il problema è invece strutturale, in quanto è radicato nella crisi complessiva della razionalità moderna, di cui la politica liberaldemocratica è solo una delle espressioni principali. E’ cioè una fase secolare, e forse addirittura millenaria, che si sta chiudendo: non finisce solo il 900, ma l’intera era industriale con tutte le ideologie che aveva generato, l’intero ciclo delle rivoluzioni giacobine e comuniste, la stessa epoca moderna, se non addirittura la storia nel suo complesso, intesa come ciclo antropologico delle città e degli stati, fondati essenzialmente sulla guerra contro l’altro da sé. Non è questione perciò di approntare qualche maquillage istituzionale, né di reclamare soltanto una maggiore onestà da parte dei politici. E’ un intero linguaggio, un intero modo di pensare l’umano che risulta ormai insufficiente, inadeguato, fuori dal tempo, e che perciò non parla più ai nostri corpi e alle nostre emozioni.
Un politico dalla vista acuta e lungimirante come Giuseppe Dossetti descriveva così la nostra situazione nel 1993: “Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi.(…) Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918, quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. (…)
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione”.
Questo è davvero l’unico invito sensato che possiamo farci: aprire una grande stagione di ricerca e di confronto, da svolgere in un clima di nuovo entusiasmo, perché l’ora che viviamo è ardua ma anche eccezionale, e “salire costa” sempre, come cantava Ungaretti, ma è anche l’unico modo per raggiungere la vetta e vedere più ampi orizzonti.
La radice messianica del liberalismo e della democrazia
1. E passiamo subito al secondo punto della nostra riflessione: come siamo arrivati a questa fase tanto critica? Anche qui procederemo per sommi capi, in una ricapitolazione sommaria dei passaggi storici fondamentali, in base a quello stile appunto sommario, ma non superficiale, che risulta indispensabile in ogni fase terminale, in cui un intero ciclo storico o biografico va a finire per inaugurarne uno nuovo.
Innanzitutto dobbiamo ricordare che tutti i processi politici che noi definiamo liberali e poi democratici, scaturiscono dal cuore di quella svolta moderna, che pretendeva di dare vita ad una inedita età della storia, caratterizzata dalla libertà individuale, dalla ricerca scientifica, e da forme sempre più avanzate di giustizia e di uguaglianza sociali. E dobbiamo tenere ben presente che questa pretesa moderna non nasce affatto per caso o dal nulla, né possiede alcuna necessità puramente razionale, ma fiorisce su un terreno simbolico-storico ben preciso e determinato, che è poi quello della rivelazione ebraico-cristiana, e più precisamente dalla radice messianica di questa fede, dalla speranza cioè nell’avvento di un Regno, e cioè di un “ordinamento pubblico”, basato appunto sulla giustizia, sull’uguaglianza, e sulla pace: un Nuovo Sistema, come lo pensa san Paolo, che in realtà sta già crescendo nel grembo della storia come un seme sempre “sovversivo” di rinnovamento antropologico e cosmico al contempo, un seme che sviluppandosi distrugge progressivamente e ineluttabilmente tutti i poteri del Vecchio Sistema.
Il teologo Jurgen Moltmann sintetizza bene il clima messianico in cui fermentò la svolta della modernità: “all’inizio dell’evo moderno si percepisce chiaro il segnale dell’ora nuova: ora è il momento in cui le cose si dovranno compiere, oggi la speranza potrà essere realizzata. Secolarizzazione non significa ‘mondanizzazione’, ma attuazione del fatto religioso.(…) Ora la storia del mondo giunge al suo ‘compimento’, ora l’umanità è arrivata alla sua perfezione, ora ha inizio un progresso inarrestabile che interessa tutti gli ambiti della realtà.(…) Ora i santi regnano sulle genti, ora viene ripristinato il potere degli uomini sulla terra. Scienza e tecnica restituiscono agli esseri umani ciò che essi avevano perso a causa del peccato originale: il dominium terrae (Francis Bacon). Ora l’umanità esce dal suo stadio infantile e giunge alla maggiore età”.
Dunque il progetto liberale e democratico, come tutta l’età moderna nel suo spirito di radicale rinnovamento dell’uomo e del mondo, non è affatto uno schema neutro della ragione pura, ma un prodotto storico profondamente radicato entro il terreno simbolico del messianismo ebraico-cristiano. E oggi, alla fine delle ideologie razionalistiche della modernità, siamo chiamati a ricomprendere questo nesso vitale.
Cittadini o santi?
1. Il sogno illuministico consisteva nella creazione di una società perfettamente razionale, formata da cittadini che avrebbero perseguito il bene comune guidati appunto dai Lumi della ragione. Il progetto è in fondo di tipo pedagogico: si tratta, per esprimerci con il Condorcet del 1794, di “rendere qualità quasi universali un giudizio retto, una ragione sana e indipendente, una coscienza illuminata e una sottomissione abituale alle regole di umanità e di giustizia”. E tutto ciò come? Mediante appunto la scolarizzazione di massa resa possibile a sua volta dall’incremento della ricchezza, dell’industria, e quindi del benessere.
Lo scopo è in fondo quello di tradurre nella figura del cittadino “illuminato” l’ideale cristiano del santo. Il cittadino sognato dagli illuministi e poi dai liberali e dai democratici moderni è in sostanza un santo, il cui Dio è la pura ragione e la cui chiesa è lo stato. Uno schema teorico che arriva dritto dritto fino al nostro risorgimento. Francesco De Sanctis, per esempio, scriveva nel 1877, che l’ideale moderno della libertà e della inviolabilità della persona umana non è altro che la trasposizione in veste filosofica dell’ideale cristiano, la trasposizione in questa vita terrena della “purificazione e santificazione dell’uomo”.
E le cose non sono cambiate di molto se uno dei maggiori costituzionalisti contemporanei, Gustavo Zagrebelsky, in una sorta di felice decalogo per il rilancio della democrazia, arriva a dire: “La democrazia è forma di vita di esseri umani solidali. La virtù repubblicana di Montesquieu è questa: amore per la cosa pubblica e disponibilità a mettere in comune qualcosa, anzi il meglio di sé: tempo, capacità, risorse materiali”. E non è questa “virtù repubblicana” molto prossima alla santità cristiana?
2. Purtroppo questa visione politica si basa su una concezione gravemente limitata e quindi in definitiva fallace della natura umana. Si basa sul presupposto che l’uomo sia un essere sostanzialmente integro, positivo, e razionale, traviato al massimo dagli agenti esterni della società, eliminati i quali non potrà che servire felicemente il bene comune, come vagheggiava Rousseau. Il sociologo francese Michel Maffesoli fa risalire questa visione idilliaca della natura umana all’eresia pelagiana: “Il monaco Pelagio, che negava il peccato originale, può essere considerato come il fondatore della pedagogia razionalista che si è progressivamente imposta nell’organizzazione sociale del mondo occidentale. Fondatore, quindi, del moralismo e del conformismo sociale. Attraverso i quali il lato più profondo e oscuro della natura umana, quello che fa appello al sensibile, deve essere ineluttabilmente superato. Moralismo pedagogico che fa della società e poi di tutte le sue istanze spirituali – espresse ad esempio da università e mass media – un’immensa manifattura di impiegati al servizio di un’ideologia imprenditoriale dominata da un onnipresente utilitarismo/razionalismo”.
La storia delle società liberali ci ha ampiamente mostrato quali abissi di distruttività possa nascondere l’universo umano imprigionato negli schemi moralistici di una (presunta) pura ragione: quali Hyde mostruosi, quali Dèmoni assassini covino dentro le città industriali “più avanzate”, e nei cuori dei loro cittadini bene educati, come alcuni grandi profeti avevano visto con chiarezza già nel XIX secolo: e pensiamo, per esempio, a Poe e a Stevenson, a Dostoevskji e a Rimbaud.
Il carattere “messianico”e anticristiano dei totalitarismi novecenteschi
1. Le società liberaldemocratiche proprio per questo erano profondamente in crisi già all’inizio del XX secolo, tanto che, come disse Leo Valiani in un convegno su Salvemini del 1975, “tutta la cultura europea del primo quindicennio del secolo” considerava la democrazia parlamentare ormai “fradicia e marcia”. Lo straordinario e rapidissimo successo dei totalitarismi in Europa non si comprenderebbe se essi non avessero avuto le loro ragioni. Il comunismo come il fascismo italiano si presentarono come i movimenti storici che avrebbero portato avanti per davvero gli ideali della modernità, che avrebbero per davvero costruito l’uguaglianza e la giustizia sociale, che avrebbero accolto in questa dinamica di liberazione le masse escluse dalle caste e dalle oligarchie liberali, che avrebbero rilanciato i processi bloccati di trasformazione del mondo e di unificazione planetaria, che avrebbero costruito relazioni umane davvero comunitarie e liberate dall’egoismo individualistico borghese. I totalitarismi si presentarono cioè come i nuovi autentici agenti “messianici”, portatori di quelle esigenze essenzialmente “spirituali”, che erano alla base di tutto il movimento moderno, ma che la liberaldemocrazia ottocentesca non era più in grado di vivificare.
Anche i totalitarismi, già a partire dal Terrore robespierriano, mantengono la prospettiva illuministica (e psicologicamente “proiettiva”) di un male e di una ingiustizia preminentemente esterni, per cui assunsero forme sempre più violente di azione politica. Se, infatti, il male è incarnato essenzialmente dalle forze reazionarie o antinazionali che schiavizzano l’uomo, la violenza necessaria per estirparle non soltanto sarà legittima, ma addirittura benefica e salutare: un bel bagno di purificazione che rafforzerà la nuova stirpe, che, come auspicava Trotskij nel 1924, si sarebbe innalzata così “a un più elevato tipo socio-biologico, o, se si vuole, a un superuomo”.
I totalitarismi ebbero un così grande successo, e il comunismo in particolare affascinò così profondamente le masse e gli intellettuali europei, in quanto assunse in sé tutti i caratteri “messianici” della modernità, obliterati dai regimi liberali ottocenteschi, inventandosi una soteriologia tutta immanente, storica e politica, e perciò dal fortissimo carattere anticristiano.
Come all’inizio del XX secolo
1. La liberaldemocrazia anglo-americana ha battuto prima il nazi-fascismo sul piano militare, dove quest’ultimo pretendeva di primeggiare e su cui fondava tutti i suoi valori; e poi il comunismo sul piano economico, che il marxismo a sua volta pretendeva di avere scientificamente e definitivamente illuminato nelle sue leggi di evoluzione storica. La democrazia liberale si è cioè dimostrata alla fine più moderna dei sistemi totalitari, più flessibile, e quindi più adattabile ai velocissimi mutamenti della modernizzazione. Ma proprio ora che non ha più nemici esterni, se non di natura terroristica, si trova a dovere riaffrontare, ad un nuovo livello di profondità, ad un nuovo tornante della storia, quegli stessi problemi che già emergevano nel 1910 e ai quali i totalitarismi tentarono di rispondere in modo catastrofico.
Ci si torna a chiedere: questa forma di liberaldemocrazia, con la sua razionalità ridotta alla ragione tecnico-scientifica, con la sua visione riduttivistica, unilaterale, unidimensionale, e quindi fallace dell’essere umano, sarà in grado di guidare i processi vertiginosi di trasformazione già in atto? Oppure essa rischia di ridurre l’essere umano ad un mero consumatore tecno-video dipendente, inserito in una comunità mondiale sempre più ridotta a sua volta ad un immenso supermercato, governato da logiche e da poteri finanziari sostanzialmente a-democratici (Dahrendorf)?
In altri termini: questa liberaldemocrazia non rischia di distruggere i fondamenti antropologici su cui si è costruita, come si chiede con toni quasi apocalittici lo stesso Sartori al termine della propria riflessione sul futuro della democrazia: “La democrazia è una apertura di credito all’homo sapiens, a un animale abbastanza intelligente da saper creare e gestire da sé una città buona. Ma se l’homo sapiens è in pericolo, la democrazia è in pericolo”.
2. E allora, che fare? Se il progetto democratico nasce e si sviluppa alimentandosi della energia “messianica” che vuole trasformare il mondo, che cosa resta di questo fuoco ispiratore? Solo quei “partiti del ventre” che Gobetti, addirittura nel 1922, vedeva delinearsi all’orizzonte, dopo il tramonto di comunismo e fascismo? Non resta davvero più nulla del sogno democratico di libertà e felicità per tutti? Oppure il grande fuoco messianico cova ancora sotto la cenere di questi anni depressi, pronto a divampare con nuova forza di speranza e di luce? E come potremo mediare questo fuoco, affinché non ci distrugga e non ci accechi, ma possa invece arricchire e approfondire tutte quelle libertà che già abbiamo acquistato con tanto dolore?
Riconoscere la sorgente cristiana della democrazia moderna
1. In primo luogo, come abbiamo già detto, si tratta di riconoscere l’orizzonte simbolico specifico entro il quale nasce e si sviluppa l’intera epoca moderna, e quindi anche tutti i suoi progetti politici di liberazione universale, di uguaglianza, di unità tra i popoli e di pace. Si tratta di riconoscere fino in fondo la matrice messianica, ebraico-cristiana, dell’intero linguaggio politico moderno, comprese le sue forme più laicistiche o addirittura atee, e di tutti i nostri attuali discorsi di riforma della democrazia, fino ai sogni di un “mondo altro” dei no-global. Tutto ciò si nutre di un terreno simbolico ben preciso, senza il quale perfino l’idea più generale e apparentemente più ovvia, e cioè che si debba trasformare il mondo, sarebbe semplicemente impensabile.
Riconoscere la matrice ebraico-cristiana della democrazia moderna, il suo orizzonte messianico, entro il quale vengono sintetizzate anche le eredità romana e greca, è d’altronde un procedimento culturale del tutto laico e razionale, che prescinde da qualsiasi adesione di fede; anche se poi ci ripone inevitabilmente dinanzi alla domanda sul significato di quella rivelazione da cui deriviamo gran parte dei concetti portanti della nostra vita personale e civile.
2. Nel suo famoso discorso sulla civiltà (1938) Winston Churchill sostenne che nelle società libere e regolate da parlamenti e corti di giustizia: “Le tradizioni sono venerate, e l’eredità tramandataci dagli uomini saggi e coraggiosi del passato rappresenta un ricco patrimonio a disposizione di tutti. Principio fondamentale della civiltà è la subordinazione dell’autorità del governo ai costumi tradizionali della gente e alla sua volontà, espressa nelle forme stabilite dalla Costituzione.” E’ cioè del tutto illusorio e teoricamente infondato credere in un sistema democratico “neutrale”, che rinneghi le proprie matrici culturali in nome di una laicità e di una apertura all’altro che di per sé non sono affatto neutrali, ma si radicano invece integralmente nella teologia e nella spiritualità occidentali. Seguendo questa linea illusoria e contraddittoria la democrazia, come scrive Domenico Settembrini “sembra tendere a segare, prima o poi, il ramo su cui è seduta”.
3. Dopo il tracollo delle controfigurazioni anticristiane del fuoco messianico di liberazione e pacificazione universali, oggi siamo chiamati perciò a riconoscerci nella nostra tradizione, non per aprire le porte a qualche nuovo integrismo di stampo medioevale, quanto piuttosto per approfondire e allargare, rilanciare e rianimare l’anelito tutto moderno (e appunto messianico) alla libertà da ogni costrizione, politica o religiosa, e ad una fratellanza più forte di ogni distinzione culturale. Sembra un paradosso ma in fondo non lo è: riconoscere la profondissima e viva radice ebraico-cristiana del progetto democratico significa ritrovarne tutta la potenza di affratellamento dei popoli e delle religioni attorno a quei valori di pura e semplice umanità che scavalcano le differenze millenarie delle civiltà. La democrazia del XXI secolo si fonderà sempre di più sul valore di ciò che è radicalmente umano, e potrà forse perciò chiamarsi semplicemente Democrazia Umana.
Democrazia e Cristianesimo a confronto
1. Che la democrazia occidentale riscopra dunque tutta la potenza e la vitalità delle sue radici, riconosca di non possedere alcuna autonomia puramente razionale, e torni a confrontarsi con queste radici, provocando le chiese e le comunità cristiane a verificare fino a che punto le loro parole siano state e siano oggi vita incarnata e testimonianza credibile. La democrazia, che si riconosca radicalmente “messianica”, torna cioè a dialogare con il cristianesimo storico in un confronto di inedita bellezza e di fortissima tensione ideale, perché entrambi riconoscono la loro strettissima parentela, il loro provenire in fondo dallo stesso tronco, da quel annuncio di nuova umanità, che il Cristo ha seminato sulla terra come un fuoco che non possiede tregua, e che nessuno può pretendere di rappresentare in modo esclusivo o perfetto. Il processo storico democratico provoca così le comunità cristiane a verificare nei fatti i propri ideali di libertà e di uguaglianza, senza lasciarli in un ambito “spirituale” disincarnato e senza bloccarli in sistemi sacrali di potere, mentre le chiese ricordano lo sfondo sempre trascendente del Regno, evitando che la sfera politica si assolutizzi (e alla fine si annichilisca) chiudendosi in se stessa e nei suoi periodici deliri. In tal senso papa Benedetto XVI rilevava come il Concilio Vaticano II avesse “nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare a una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti. Con tutto ciò bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi”.
Questa lunga e faticosa correzione reciproca sarà il grande fermento culturale della democrazia del XXI secolo.
2. La democrazia moderna è chiamata dunque a riscoprire la propria natura religiosa, la propria messianicità, proprio in quanto si afferma nella propria radicale laicità. Ed è questo apparente paradosso che le darà nuova consistenza e forza storica, come precisa molto bene il sociologo francese Alain Touraine in questo passo: “Non v’è democrazia solida se, di fronte allo stato come di fronte all’ordine costituito, non esiste una volontà di libertà personale che si fonda a sua volta sulla difesa di una tradizione culturale, giacché l’individuo separato da ogni tradizione non è che un consumatore di beni materiali e simbolici, incapace di resistere alle pressioni e alle seduzioni manipolate dai detentori del potere. Ecco perché la democrazia è stata associata tanto spesso a una fede religiosa che apportava al contempo le esigenze della coscienza e il sostegno di un potere spirituale capace di resistere al potere temporale”.
Una nuova pedagogia per una nuova democrazia radicalmente umana
1. Detto questo il rilancio del progetto democratico richiede una profonda revisione della visione antropologica che ha guidato la modernizzazione negli ultimi due secoli.
Si tratta essenzialmente di superare l’idea di un essere umano orizzontalmente e unidimensionalmente razionale, lì dove questa razionalità viene a sua volta ridotta alla ragione scientifico-tecnica, alle categorie cioè del calcolabile.
L’intero XX secolo ci ha mostrato quanto l’essere umano sia più complesso e duplice e contraddittorio, per cui oggi siamo molto più consapevoli, ad esempio, che le strutture ingiuste di questo mondo, il mondo da rivoluzionare non è soltanto fuori, ma anche dentro ciascuno di noi. Sappiamo che le radici dell’ingiustizia e della guerra si radicano in profondità nelle nostre angosce, nel nostro occulto desiderio di uccidere e di morire. Sappiamo in altri termini che se vogliamo per davvero rilanciare il sogno democratico-messianico di un mondo sempre migliore, dobbiamo inserire in esso un progetto pedagogico ben più profondo di quello ideato e attuato dagli illuministi liberali.
2. Se il processo di democratizzazione non potrà che essere un lavoro continuo nel travaglio della storia, un lavoro che non avrà mai fine, perché mai su questa terra edificheremo uno stato del tutto giusto e pacificato nella perfetta eguaglianza e nella totale libertà di tutti, esso avrà di conseguenza come soggetto operativo un essere umano in continua e consapevole trans-formazione. Il cittadino della democrazia progressiva del XXI secolo è cioè un essere umano che sa che per contribuire all’edificazione di un mondo sempre più libero e giusto, egli è chiamato per primo a trans-formarsi, a riconoscere le radici della propria ingiustizia e del proprio odio, in un’inesauribile tensione alla verità e alla libertà. Questo soggetto umano poi non è solo un io astrattamente razionale, una mente civile o morale del tutto disincarnata, ma è un io del tutto incarnato che vive e soffre nel corpo di una trasformazione umana universale, un io che comprende che i processi di liberazione, unificazione e pacificazione planetarie sono strettamente connessi a quelli di liberazione, unificazione e pacificazione interiori e personali, hanno cioè a che vedere non solo con i diritti umani ma anche con i sentimenti umani, con tutta la nostra vita e con tutta la nostra morte. A questa nuova antropologia politica dovrà perciò evidentemente seguire una nuova pedagogia che faccia tesoro delle acquisizioni della psicologia, dell’arte, della scienza, e della filosofia del secolo scorso e di tutte le ricchezze spirituali che confluiscono in questo punto siderale e fatale dei tempi.
3. Questo è il novum: il processo democratico post-ideologico, la democrazia umana del XXI secolo assorbe dentro la sua progettualità liberatoria anche i profondissimi processi interiori di liberazione dalle strutture illusorie dell’egoismo. Essere laico nel XXI secolo non può più significare disinteressarsi dei processi interiori dell’essere umano, di come siamo cioè fatti, appellandosi a principi astratti e moralistici di virtù o di bene comune. Essere laico oggi significa lottare affinché il processo di liberazione dell’uomo proceda, e questo oggi richiede una inedita stagione di comprensione e di educazione dell’uomo: una nuova antropologia e una nuova pedagogia.