Lo stato della poesia in Italia
Un mondo in disfacimento e la sua rivoluzione
1. Se dovessimo valutare l’attuale situazione del mondo poetico soltanto in base a ciò che ne vediamo, dovremmo ritenere di trovarci entro una fase di decadimento definitivo, di spappolamento e liquidazione di qualsiasi residua istituzione letteraria dotata di senso.
Ma questa considerazione vale anche per l’intera società italiana, e più in generale per l’Occidente moderno, inteso non tanto come area geopolitica, quanto piuttosto come epoca della planetarizzazione del tramonto di tutte le culture tradizionali e dell’emersione di un pericolosissimo totalitarismo tecno-mercantile.
Per non vedere solo il disfacimento e la corruzione che ne deriva, dobbiamo fissare il nostro sguardo nelle dimensioni di ciò che ancora non si vede, negli spazi interiori del futuro, in quelle profondità del cuore in cui, proprio attraverso tanta disgregazione e tanto dolore, qualcosa di altro si sta configurando: sta effettivamente nascendo.
Questo sguardo nell’invisibile richiede però uno straordinario sforzo di concentrazione, e un’attitudine altrettanto straordinaria all’ascolto e in definitiva alla preghiera, come forma suprema di ascolto di ciò che ancora non siamo, non sappiamo, ma stiamo diventando e amiamo: “noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2Cor 4,18).
2. Più o meno tutti i critici letterari sono d’accordo nel sostenere che a partire dalla seconda metà degli anni ’70 svaniscano gli ultimi strumenti di orientamento nell’universo poetico italiano, e si entri in un periodo di puro e assoluto caos. Pochissimi però si chiedono seriamente il perché di questa situazione. Piuttosto si tenta di supplire a questa deficienza teoretica moltiplicando le forme private di interpretazione, e cioè potremmo dire le antologie “personali”. Ognuno si fa la sua. Ci sono quelle “generazionali” e quelle “di gusto”, del tipo: ci metto dentro chi piace a me e ai miei amici; ci sono poi quelle che ancora pretendono di conservare un certo decoro e rigore accademici e quelle invece fatte solo per escludere qualcuno e includere qualcun altro. Anche grazie a queste operazioni il caos cresce e il fango dell’insensatezza sale.
3. In realtà i poeti italiani non hanno quasi più nessuno che li legga. Vivono un isolamento crescente, uno scollamento dolorosissimo dalla società e dai suoi problemi, spesso una più o meno cupa disperazione. Esistenzialmente ognuno di noi cerca un modo per sopravvivere, tra angoscia di morte e vanità del tutto, mentre di fuori prolifera una competizione “letteraria” tanto più feroce e spietata quanto più vana e autoreferenziale, da bande armate, da mafie. Nessuno può più legittimare nessun altro infatti: introduzioni, inserimenti in collane prestigiose, premi o cose del genere sono tutti strumenti in gran parte svalutati, monete false: niente e nessuno può più garantire ad uno scrittore di essere finalmente accolto in una sfera di reale esistenza, nella “storia della letteratura”, essenzialmente in quanto è proprio quest’ultima che non esiste più…
Questa situazione rende il nostro ambiente particolarmente infetto, in quanto le piccole e a volte microscopiche ambizioni sono spesso le più avvelenate, e la frustrazione è il sentimento di base dell’odio e della rabbia.
4. Lo stesso fenomeno infettivo, la medesima pandemia la si riscontra d’altronde nel mondo dell’arte come della filosofia, dell’editoria come dell’università o della comunicazione di massa, in ogni ambito cioè della cultura. Tutto ciò che non può canalizzarsi nei labirinti spettrali del “mondo accademico”, né inserirsi nel settore dell’industria e dello spettacolo, rifluisce in aree autoreferenziali o nelle catacombe. Nel 1968 Pasolini descriveva così la riduzione della cultura a settore commerciale, e dell’intellettuale a “numero” di attrazione del circo mediatico: “L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole. In altre parole l’intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta, ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli”. Per chi non si adatti a tanta vergogna resta l’esilio, la scomparsa sociale, il suicidio, o lo spostamento definitivo su un diverso piano di realtà.
5. Dobbiamo però renderci conto che questo fenomeno disgregativo è in cammino da tempo ed è molto più radicale e profondo di quanto Pasolini riuscisse a vedere attraverso le categorie ancora economicistiche che utilizzava (sviluppo inevitabile di un capitalismo più avanzato in Italia etc.). Per comprendere un po’ meglio il caos attuale dovremmo reinterpretare piuttosto, leggendoli a ritroso, almeno due momenti cruciali della nostra storia: la crisi degli anni ’60 (Novissimi, Concilio Vaticano II, ’68); e la catastrofica risposta totalitaria alla crisi della democrazia borghese agli inizi del XX secolo (Rivoluzione sovietica; fascismi europei; avanguardie poetiche e artistiche; Seconda Guerra Mondiale).
In base ai limiti di questo lavoro dobbiamo limitarci a dire che il vero problema che attraversa il XX secolo (politico e poetico), e che arriva irrisolto e aggravato fino a noi, è quello della Rivoluzione. Oggi stagniamo poeticamente e politicamente in quanto non siamo ancora capaci di pensare in modo nuovo la Rivoluzione, che pure è già da tempo in corso, non abbiamo ancora elaborato una interpretazione post-marxistica (e post-ideologica) della Rivoluzione che stiamo vivendo, e quindi ne subiamo gli scossoni, invece di assumerne la guida consapevole.
Ma di quale Rivoluzione parliamo?
E’ appunto la risposta a questa domanda che rimetterà in moto la ruota inceppata della storia. Io qui mi limiterò a tentare una riflessione che tragga dalla storia della poesia alcune indicazioni utili a definire la natura della Rivoluzione in atto.
Il futuro della poesia: la Rivoluzione dell’Uomo
1. Partiamo da Benedetto Croce e dal suo netto rifiuto di tutta la poesia contemporanea da Rimbaud fino alla così detta “poesia pura”: “E lascio da parte il Rimbaud, che, nella sfera del pensiero così estetico come morale non dié nulla che valga, e nella poesia, dopo alcune prove di precoce virtuosità, fece confessione del suo definitivo fallimento, che fu l’unico atto serio e virile da lui compiuto”. Per Croce questa nuova poesia è semplicemente assurda, falsa, irreale: “Della cosiddetta nuova poesia accetto solo, come ho detto, quelle parti o quelle faville nelle quali essa si dimostra o si dimostrerà della stessa natura dell’antica ed eterna, contenutisticamente intuitiva al modo di quella di Omero e di Dante, di Shakespeare e di Goethe”. Insomma questa nuova poesia per Croce sostanzialmente non è poesia, ma “dovrebbe, se mai, chiamarsi col nome di una nuova categoria spirituale, ancora non definita e che sarebbe da scoprire”.
2. Croce coglie, da profondo pensatore, un aspetto cruciale della questione, sia pure interpretandolo in modo negativo: questa poesia è altro rispetto a tutta la tradizione letteraria precedente: una inedita esperienza umana e dell’umano, addirittura “una nuova categoria spirituale” si fa strada in essa. Di questa assoluta originalità della propria esperienza erano d’altronde pienamente e orgogliosamente consapevoli Novalis e Rimbaud, Mallarmé, Campana e tutti gli altri… Se intanto tenessimo per ferma e approfondissimo il significato di questa acquisizione critica fondamentale una parte della nostra confusione potrebbe dissiparsi, potremmo infatti incominciare a discernere meglio nell’attuale produzione (e talvolta nell’opera di uno stesso autore) la poesia che tenti di proseguire per la via trans-letteraria tracciata da Rimbaud e Ungaretti, da quella che in un modo o nell’altro non porti dentro di sé le lacerazioni e le aperture di quella frattura. Perché di una vera e propria frattura si tratta, e non solo stilistica, quanto piuttosto eonica, in quanto attraverso di essa sembra che due mondi, addirittura due figurazioni antropologiche vadano alternandosi: una morendo e l’altra nascendo con molta fatica. Ricordate l’Ungaretti delle Apocalissi?: “Si va facendo la frattura fonda”. E’ a questo livello antropo-cosmico che dovremmo reinterpretare oggi il termine Rivoluzione, alla fine del ciclo ideologico giacobino-marxistico (1789-1989), e quindi comprendere meglio ciò che (ci) sta succedendo sul pianeta terra e sta sconvolgendo anche il mondo della poesia.
3. Ebbene, come dicevamo poco sopra, questa coscienza di attraversare un crinale rivoluzionario di portata antropologica è presente in tutti i poeti più significativi che hanno fatto parte di quella “nuova categoria spirituale”, intuita da Croce: Rimbaud come Trakl, Eliot come Char, Campana come Ungaretti, Celan come Luzi potrebbero benissimo sottoscrivere queste parole di uno dei capostipiti di questa linea genealogica, e cioè di Friedrich Hoelderlin, che il 10 gennaio del 1797 scriveva all’amico Ebel: “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”. Ed eravamo ad appena 8 anni dalla Rivoluzione Francese…
Da allora l’estraneità dei poeti rivoluzionari rispetto agli assetti di questo mondo (anche letterario) è cresciuta a dismisura. In certe fasi alcuni di loro hanno creduto che un movimento di avanguardia o un movimento politico potessero incarnare il moto rivoluzionario che vivevano dentro; ma ogni volta questi conati si sono mostrati o patetici o catastrofici: o si finiva per tornare nelle atmosfere asfissianti del “mondo letterario” (surrealismo, neoavanguardie, gruppo ’63, etc.); o si finiva per sperimentare la distruttività di quelle ideologie che controfiguravano il senso della vera e ben più radicale rivoluzione in atto: quanti poeti comunisti più o meno illusi, quanti poeti fascisti (da Thomas a Pound, da Marinetti fino a Fortini, a Gatto, o allo stesso Pasolini…). Molti scelsero la morte di fronte ai disastri delle loro illusioni, come Majakovskij. Molti impazzirono. Altri si chiusero nella loro esperienza interiore, in attesa di un tempo più opportuno, come la Dickinson o René Char.
4. Due mondi dunque, che prima di essere poetici, sono antropologici, si stanno alternando: questo è il senso segreto di una Rivoluzione che trova in realtà il suo primo momento di rilancio “mondiale” con la svolta della modernità, acquista una velocità vertiginosa nel XX secolo, e giunge fino a questo nostro bivio decisivo tra oscuramento finale e ricominciamento. E’ questa Rivoluzione che esplode nel corpo della poesia aprendo in esso una scissione irrimediabile tra Morente e Nascente. Campana ne era già pienamente consapevole: “Su qual terreno potrebbero intendersi p. es. Baudelaire e Palazzeschi? Povera nostra poesia!” Oggi si vorrebbe credere invece che uno stile valga l’altro, siamo diventati tutti molto pluralisti, post-moderni, ognuno si esprima come vuole, tanto è lo stesso: siamo diventati così archivisti, catalogatori, compilatori di elenchi telefonici, spesso becchini: allineiamo salme per il funerale della storia.
Ma non è affatto così, carissimi amici poeti e critici. Non è affatto così! Ogni opera poetica si inserisce perfettamente in uno stadio preciso del processo trasformativo in atto, e lo esprime con maggiore o minore potenza rivoluzionaria. Si tratta solo di avere gli strumenti critici per capirlo. Nella poesia italiana, per esempio, la linea che va da Ungaretti e Montale fino a Gatto e a Luzi oscilla continuamente tra i due mondi in alternanza: a volte ci si protende verso il giusto ascolto delle parole che vengono a illuminarci l’inedito cammino, mentre troppe volte si rifluisce nel letterario, nell’ego-espressivo, nella noia mortale di inutili sagacie o ironie. Anche esistenzialmente questi poeti oscillarono tra la figura del sapiente e quella del professore, tra quella del veggente e quella del giornalista, tra quella del maestro e quella del dirigente editoriale: e cioè si barcamenarono ambiguamente tra due figurazioni antropologiche opposte. Non presero perciò mai una decisa posizione nella Rivoluzione in corso, perché non la comprendevano. Tennero sempre i piedi in due staffe, e questo fece perdere loro ascolto e credibilità, forza poetica e forza spirituale.
5. Già nel 1964 Franco Fortini coglieva molto bene questa debolezza morale degli scrittori italiani: “Gli avanguardisti e i loro avversari sono disposti a mettere tutto in dubbio e a seppellire la carogna delle belle lettere. Non a modificare le strutture delle istituzioni letterarie. A disputare lungamente sul capitalismo e sulla industria culturale, sul marxismo e sulla rivoluzione. Non a modificare di fatto lo status della loro professione.”
Non si poteva d’altra parte arrivare a mettere fino in fondo in discussione lo statuto sociale del proprio essere poeti, in quanto non si aderiva ancora al livello autentico della Rivoluzione in corso, fraintendendone marxisticamente o ignorandone borghesemente la reale portata.
Oggi quelle mediazioni, già ampiamente tarlate negli anni ’60, continuano a sopravvivere e a proliferare, ma sempre più stancamente, in una sorta di depressione permanente, e di progressivo sbriciolamento. Oggi migliaia di poeti (e milioni di persone) in Italia sperimentano il collasso della loro vecchia identità ego-centrata, su cui si fonda ancora questo mondo, e non sanno come vivere questo travaglio, e si affaccendano tra blog e case editrici, tra rivistine di provincia e gruppetti vari di auto-aiuto, rincorrendo un riconoscimento da parte di un sistema letterario, che nella sostanza è già crollato almeno da decenni.
Dovremmo invece comprendere bene che ciò che sperimentiamo poetica-mente; e cioè il disfacimento delle possibilità del nostro ego di dare un ordine e un senso alla nostra vita e al mondo significa indissociabilmente il crollo dell’intero mondo letterario, per come si è andato configurando da Omero in poi, per dirla con Croce.
Per cui è contraddittorio scrivere certe cose e poi andare per il mondo come se tutto fosse come prima, come se ancora esistesse un mondo egoico ben fondato, e noi non fossimo proprio i nunzi, più o meno consapevoli, del passaggio ad un altro mondo e quindi anche ad un’altra figurazione dell’essere poeti.
6. Questo è insomma il tempo della consacrazione totale al mistero antropo-cosmico della Rivoluzione in atto.
E questo comporta l’apertura di alcuni nuovi orizzonti e anche l’assunzione di alcuni nuovi compiti, che vorrei molto sinteticamente elencare per i miei amici poeti:
a) dobbiamo innanzitutto imparare a comprendere che cosa dicano le immagini che ci arrivano al di là del controllo della nostra coscienza egocentrata, e prendere molto sul serio ciò che esse ci dicono; dobbiamo cioè sviluppare un’ermeneutica della poesia rivoluzionaria, in un senso prossimo a ciò che suggerisce Jung: “Il simbolo presuppone anche una funzione che produca simboli, e un’altra ancora che sappia intenderli. Infatti quest’ultima funzione non è inclusa nel processo di produzione del simbolo; ma è una funzione a sé che si potrebbe designare come un pensare per simboli o facoltà d’intendere attraverso di essi”. Questa facoltà ermeneutica si ricollega d’altronde anche al carisma dell’interpretazione, cui allude san Paolo nella Prima Lettera ai Corinti(14,12). Questa facoltà spirituale costituisce a mio parere l’unica fonte ancora viva di una critica davvero contemporanea, e quindi post-letteraria.
b) Dovremmo poi imparare a discernere tra queste immagini quelle che ci guidano veramente verso la luce di ciò che sta nascendo in noi, da quelle che sorgono in noi solo per accrescere il nostro caos e la nostra disperazione: ogni immagine infatti è un vettore, una motrice, un’e-mozione potente. Questo lavoro critico è perciò in realtà una sorta di discernimento degli spiriti, e richiede perciò una profonda vita spirituale del poeta come del critico consapevole-mente rivoluzionari: “C’è la tentazione di prendere per immagini spirituali invece delle idee le fantasticherie che circondano, confondono e seducono l’anima al momento in cui le si apre davanti la via verso l’altro mondo. Sono gli spiriti di questo secolo che così procurano di trattenere la coscienza nel loro mondo”(Florenskij). Molti poeti italiani oggi oscillano senza nemmeno saperlo tra immagini evolutive e immagini dissociative, tra residui egoici e irruzioni inconsce, incorporano di tutto senza discernimento: danno cioè il loro corpo linguistico, e quindi alla fine anche il loro corpo fisico, a spiriti (e-mozioni) di tutti i tipi, illudendosi di svolgere un gioco solo privato o “immaginario”.
c) Sempre più consci di essere agenti segreti e al contempo pubblici della Nascita di una nuova umanità, dobbiamo collaborare ad edificare una nuova cultura della Rivoluzione in atto: un movimento culturale e alla fine anche politico che sappia riprendere tutte le direzioni evolutive che ci arrivano dagli ultimi secoli. Questo richiede un inedito confronto con tutte le culture della modernità, ma anche con quel mistero Cristo-logico della Nuova Umanità che duemila anni fa ha dato avvio nella storia del pianeta terra a quella Rivoluzione antropo-cosmica permanente che oggi torna, per vie spesso indirette e inconsce, ad inquietare il mondo.
d) E’ solo su questo nuovo livello di comunità rivoluzionaria che i poeti potranno trovare e abbracciare il nuovo compito che la storia del pianeta ci assegna: e cioè diventare semplici diaconi, strumenti vocali, profeti, umili collaboratori al servizio della trans-formazione trans-ego(geo)-centrica dell’umanità. Fuori da questa comunità, sia pure ancora in formazione entro il corpo storico-ecclesiale del cristianesimo e dell’intera umanità, io non ho più alcun luogo sociale in cui collocarmi, perché in realtà non c’è più alcun altro luogo vivo.
Pubblicato nel volume collettivo, a cura di Loretto Rafanelli Le voci, il coro , per i “Quaderni del battello ebbro”, novembre 2007.