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La conversione della chiesa

Essere cristiani nel tempo del ricominciamento

Interpretare i segni dei tempi per ripensare la formazione dell’uomo

Nell’intervento pubblicato nello scorso numero della Rivista abbiamo incominciato ad interpretare il nostro tempo come una singolarissima fase della storia del pianeta, in cui la modalità bellica di costruire l’identità (sessuale, politica, religiosa, e culturale) umana, contrapponendosi appunto polemica-mente all’altro da sé, si sta manifestando ad ogni livello come insostenibile. Questo processo costituisce una vera e propria svolta antropologica, in quanto finora tutte le civiltà e le religioni umane si sono definite e rafforzate nella loro identità proprio combattendo, perseguitando, ed escludendo le altre.

Tutti viviamo perciò in una sorta di fase purificativa in cui, sia pure con una certa lentezza e tra molteplici resistenze, le forme belliche di tutte le nostre identificazioni sono messe in giudizio, condannate ed abbandonate. Anche le traenze evolutive della modernità hanno spinto in questa direzione, educandoci alla tolleranza reciproca, e ai valori irrinunciabili della libertà di coscienza e dell’uguaglianza universale tra tutte le persone umane.

La Chiesa cattolica a sua volta sta vivendo, almeno a partire dal Concilio Vaticano II e grazie alle fondamentali richieste di perdono operate da Giovanni Paolo II, la propria stagione purificativa, abbandonando ogni carattere bellico e violento della propria predicazione, e assorbendo i valori positivi della modernità, riconoscendoli anzi come sgorganti dalla propria stessa sorgente evangelica.

In questo nuovo intervento vorrei approfondire proprio questo aspetto: come possiamo vivere noi cristiani la nostra fede in questo tempo di straordinarie trasformazioni? Come vengono a trasformarsi le forme storiche della nostra fede? Quali sono le direttrici principali di questa trasformazione? E cioè che cosa sta morendo e che cosa sta nascendo entro il cristianesimo storico espresso nella nostra Chiesa?

A me sembra che se non ci poniamo preventivamente questo tipo di domande, ben difficilmente potremo poi delineare a qualsiasi livello itinerari formativi adeguati al momento storico presente. Ecco perché ho desiderato premettere ad altri articoli più specificatamente dedicati alla formazione queste riflessioni generali sulla natura del tempo che stiamo attraversando.

Seguiremo dunque una scaletta molto sintetica, in base allo stile della semplicità di secondo grado, che tenta di riassumere appunto semplice-mente concetti e ragionamenti complessi:
1)Prima osserveremo alcuni effetti che la liquidazione delle configurazioni egoico-belliche delle identità storico-religiose sta avendo sul cristianesimo storico.
2)Poi vedremo in che senso l’identità cristiana sia di per sé post-bellica e aperta alla trasformazione mediante la relazione.
3)Individueremo in seguito le due grandi tentazioni che dobbiamo affrontare in questa fase di svolta, e cioè la regressione fondamentalistica e la deriva nichilistica.
4)E infine disegneremo qualche lineamento di quella fedeltà creativa nei confronti della tradizione che oggi ci è massimamente richiesta per vivere i processi trans-formativi in modo attivo e positivo.

Dalle verità oggettive all’esperienza della fede

Desidero subito ribadire che secondo me questa grande crisi trasformativa, cui è sottoposta anche la nostra fede nelle sue configurazioni storiche, è una crisi di crescita, una crisi salvifica, anzi una vera e propria grazia. Concordo perciò pienamente con l’allora cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger quando all’inizio degli anni ‘80 scriveva: “Ho l’impressione che forse la nostra epoca è dopo l’antichità una delle prime in cui il cristianesimo suona come una novità.(…) In questa nuova era il cristianesimo appare finalmente nella sua giovinezza che torna a manifestarsi”.

E passiamo al primo punto della nostra riflessione, agli effetti cioè della liquidazione delle figure belliche di identità sul cristianesimo cattolico.
Dal Concilio Vaticano II fino alla storica richiesta di perdono della prima domenica di Quaresima del 2000 ci stiamo rendendo conto di quanto violenta possa diventare la pretesa di possedere una verità oggettiva chiusa in se stessa e data una volta per sempre, e stiamo privilegiando la prospettiva di un cammino comune di tutti gli uomini verso una verità che comunque ci sorpassa sempre e procede innanzi a noi. Quando Giovanni Paolo II, nell’enciclica Novo millennio ineunte, sostiene che “gli stessi discepoli di Cristo” possono essere aiutati “a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori” (n.56), se si dispongono ad ascoltare le altre culture e le altre religioni, ci rendiamo conto del balzo in avanti verso questa concezione dinamica, processuale, e relazionale della verità che egli fa fare alla Chiesa.

In realtà il concetto di una qualunque verità del tutto oggettiva, e cioè indipendente dal soggetto che la conosce e dalla sua intrinseca storicità, è stato superato perfino in ambito scientifico lungo il XX secolo. Siamo sempre più consapevoli che ogni atto conoscitivo coinvolge ed è determinato completamente dal soggetto conoscente, che vede e conosce solo ciò che è in grado di vedere e di conoscere, e mai qualcosa di assoluto fuori di sé. E questo vale tanto più per la nostra comprensione della Rivelazione. Forse per questo nella Scrittura si parla del Dio di Abramo, del Dio di Giacobbe, del Dio di Mosé, e del Dio di Gesù, i quali sono profondamente diversi tra di loro, pur essendo certamente lo Stesso, proprio in quanto determinati da ciò che Abramo o Mosé o Gesù erano in grado di conoscere del suo immenso mistero. E non dimentichiamo poi che ad una verità “oggettiva” statica corrisponde sempre un soggetto conoscente altrettanto statico, chiuso in se stesso, e quindi tendenzialmente bellico. Per cui è inevitabile che allo smantellamento della configurazione bellica dell’identità umana corrisponda la crisi e la liquidazione di tutte le concezioni troppo oggettivistiche della verità.

La crisi della conoscenza “oggettiva” inoltre fa entrare in crisi tutte quelle forme della fede in cui l’esperienza personale del soggetto, il suo coinvolgimento nell’atto viene quasi eclissato da una presunta oggettività della cosa fatta. Se ci guardiamo bene attorno, nelle nostre parrocchie, vediamo, ad esempio, che è profondamente in crisi la teologia metafisica tradizionale, che voleva dirci appunto come è Dio oggettiva-mente, in sé, ridotto cioè ad un Ente come gli altri, anche se magari Supremo. Mentre prevalgono le teologie narrative, più spirituali, più poetiche, più legate a come io posso raccontare la mia esperienza di Dio, e quindi in definitiva più bibliche, in quanto la Bibbia ci racconta preminentemente storie molto umane, attraverso le quali Dio manifesta processualmente e in relazioni personali concrete il suo mistero di salvezza.

Da ciò deriva poi la liquidazione della catechesi intesa come indottrinamento concettuale, e cioè appunto come trasmissione di nozioni oggettive e astratte sull’essenza di Dio. Ma anche le forme rituali estrinseche, alle quali le persone sono chiamate ad “assistere” come spettatori passivi di eventi “oggettivi”, dotati di efficacia in sé e per sé, stanno perdendo ogni attrazione, svincolandosi dalla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Ed infine la sacralizzazione del potere ecclesiastico, inteso anch’esso come potestà oggettiva, come fonte irrelata di norme, alle quali ognuno deve obbedire, fuori da ogni relazione personale, perde di giorno in giorno la propria forza, a favore di una autorità che nasca proprio e soltanto dalla e nella relazione, di una autorità cioè che si fondi sull’accrescimento, l’illuminazione, e la guarigione reali delle persone sottopostele. Come era l’autorità di Gesù. Tutti questi dati mi sembra che illuminino in modo determinante anche le forme dei nuovi cammini formativi che dovremo ideare e animare ad ogni livello.

Ogni persona cerca oggi un’esperienza molto più personale della propria fede, un’esperienza che ci trasformi e ci guarisca per davvero. Torna in un certo senso, tra le ceneri di una religiosità oggettivata nei riti, antropologico-culturale, e abitudinaria, una fame di Vangelo vero, di liberazione autentica, vogliamo vedere con i nostri occhi i ciechi che tornano a vedere e gli storpi che tornano a saltare di gioia. Aneliamo inoltre un po’ tutti a nuove forme di relazione umana, ad una fede che rivoluzioni fino in fondo gli schemi del potere e dell’asservimento propri di questo mondo. Da questo anelito, tra l’altro, sono nati anche i vari movimenti ecclesiali e carismatici degli ultimi quaranta anni.

L’identità cristiana come trans-formazione nella relazione

In questo vortice culturale profondissimo il cristiano è chiamato a riscoprire la natura della propria più autentica identità. E qui tocchiamo il secondo e il terzo punto della nostra scaletta.
Oggi si torna a parlare con forza dell’esigenza di riaffermare l’identità cristiana nel marasma della babele linguistica in cui siamo immersi. Benissimo, ma di quale identità cristiana parliamo? Di quella in base alla quale abbiamo commesso tutti i peccati di cui ci stiamo finalmente pentendo? Dovremmo cioè riaffermare un’identità cristiana bellica, polemica, che ci separi e ci contrapponga di nuovo in modo violento all’eretico o al non credente di turno? Oppure dobbiamo riscoprire l’identità cristiana proprio come dinamica aperta, esodo costante e a volte doloroso da sé e dalle proprie presunte certezze, rivelazione in atto e mai possesso autocompaciuto?

Benedetto XVI ha sottolineato con parole fresche e poetiche la natura trans-formativa dell’identità cristiana nel suo discorso di Verona: “La sua resurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte.(…) E’ stata cambiata così la mia identità essenziale e io continuo, tramite il Battesimo, ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza”.

La mia identità cristiana è dunque un processo di trans-loco permanente in un’altra dimensione dell’essere rispetto a quella spazio-temporale propria della mia soggettività naturale. Per cui io sono tanto più cristiano quanto più vivo questo transito continuo, questa continua trans-formazione in Cristo, e cioè nella mia vera identità. L’identità cristiana è migrazione, nomadismo, mai stanzialità o staticità mentali, è cioè continua meta-noia, mutazione della mente. Ed in questo è molto prossima ad alcuni caratteri dell’identità post-moderna nella sua liquidità, flessibilità, precarietà metamorfica. L’identità cristiana però può dare un orientamento a questo nomadismo, accogliendone a sua volta tutti gli aspetti evolutivi.

Oggi, anche in ambito cattolico, c’è chi vorrebbe riproporre un’identità cristiana di tipo premoderno, precritico, pretrasformativo, e quindi un’identità cristiana profondamente anti-cristica. Questa tentazione fondamentalistica, rinforzata dalle nostre paure e dalle nostre pigrizie rispetto alle asperità del mutamento, va accolta e superata come una parte presente in ognuno di noi. Senza cioè surriscaldare un altro spirito polemico, magari in nome di un cristianesimo post-bellico. Proviamo invece a comprendere che le tensioni fondamentalistiche, e dall’altra parte quelle nichilistiche, sono componenti dialettiche presenti, in proporzioni diverse, in ogni credente. Proviamo a convivere con queste tensioni, a farle dialogare tra di loro, invece di contrapporle polemica-mente. Proviamo ad ascoltare le buone ragioni che sia il fondamentalista che il nichilista presente in noi può avanzare. Anche il fondamentalista infatti possiede le proprie ragioni, quando teme ad esempio di perdere le ricchezze di una tradizione millenaria, così come il nichilista, che rischia di identificare il processo di liberazione con la perdita di ogni identità storica, ha però ragione, quando vuole preservare l’elemento critico, la critica di ogni imposizione autoritaria della verità.
La nuova umanità cresce in noi proprio attraverso il dialogo fraterno tra queste componenti che imparino a non separarsi bellicamente, ma piuttosto a riconoscersi come forze provenienti dalla stessa sorgente, dallo stesso anelito ad una verità che ci supera e ci chiama a sé.

La vera identità cristiana dunque, al di là delle tentazioni fondamentalistica e nichilistica, è quella di un uomo che resta fedele al processo trasformativo attraverso il quale viene trans-figurato nell’Uomo-Dio (2Cor 3,17), fedele perciò alla tradizione nella sua vitalità attuale, fedele ad una tradizione che è di per sé dinamismo e trasformazione. E qui tocchiamo l’ultimo punto della nostra scaletta. Questa concezione dell’identità umana e della verità che le dà sostanza è molto moderna, in quanto identità e verità si danno in un processo che è storia e storia di relazioni personali: tra me e Dio, e tra me e le mie sorelle e i miei fratelli. La verità in altri termini, non sta in nessun luogo là fuori di me, raggiungibile oggettiva-mente; ma si incarna nella nostra umanità, e quindi si gioca completamente nella nostra storia e nelle relazioni in cui ogni storia si dipana, e proprio così, lungo questa storia, mi si rivela anche la mia vera identità, il mio essere di Cristo, e quindi vera-mente cristiano.

Verso una formazione dell’umanità nascente

Oggi stiamo comprendendo, per vie diverse e talvolta apparentemente antitetiche, da credenti o da non credenti, il mistero della natura umana ad un nuovo livello di radicalità, stiamo intuendo che siamo un processo di rivelazione in atto, il quale è consegnato alla nostra libertà. In questa nuova consapevolezza di chi è l’uomo, che va a coincidere per molti versi, come abbiamo visto, con la stessa esperienza cristiana dell’identità umana, siamo tutti chiamati a rivedere e a rinnovare le nostre storie: biografiche, familiari, religiose, ecclesiali, nazionali, come associazioni o stati, gruppi politici o culturali. Ci troviamo tutti cioè su un grandioso spartiacque che è anche un setaccio della storia e, se vogliamo, una sorta di Giudizio Universale. Siamo infatti chiamati a chiederci con molta umiltà: che cosa è ancora egoico e bellico, che cosa resiste al mutamento evolutivo in atto nel mio modo di essere cristiano o non credente, italiano, lumbard, o europeo? Nel mio essere di destra o di sinistra? Nel mio modo di lavorare o di organizzare la mia associazione? Dove e perché continuo a contrappormi, ad odiare, a separarmi? E noi cristiani dovremmo guidare questo straordinario processo in nome di una Umanità Radicale, che per noi è il Cristo Gesù, ma che potremmo declinare anche in modo del tutto laico e razionale, in quanto questa umanità postbellica, che si rafforza aprendosi alla relazione, sembra essere l’unico passaggio evolutivo ancora possibile su questa terra.

Ma questo lavoro di setaccio, che ognuno di noi è chiamato a fare, non ci viene per niente naturale. Esso richiede viceversa un lavoro costante su vari livelli integrati. E qui arriviamo alla centralità formativa in questi tempi. Solo un lavoro formativo, o meglio trans-formativo permanente, infatti, che integri una nuova consapevolezza storico-culturale, i processi concreti della liberazione psicologica personale, e pratiche spirituali efficaci, ci può rendere capaci di discernere nel magma contemporaneo ciò che appartiene ad un passato ormai morto da ciò che è germoglio del Nascente.
Una grande stagione di ricerca e di sperimentazione si apre dinanzi a noi.
Un tempo grandioso in cui ricominciare.

Pubblicato nella Rivista Formazione & Lavoro, 1/2008.