Il nulla che vedi è la sorgente del tuo significato
Ci sono momenti della storia in cui l’uomo è chiamato a ridisegnare i propri lineamenti, a ridefinire la propria figura, la propria identità, il suo “chi sono io?”. L’essere umano infatti è proprio quel essere che non possiede alcuna identità definita una volta per sempre, e che deve perciò ogni volta darsela questa identità, attraverso l’opera creatrice del proprio pensiero. In questa fatica millenaria esistono però momenti cruciali in cui un intero ciclo di figurazioni, e quindi di culture e di identità storiche, va a compiersi, e l’uomo si ritrova come davanti al Vuoto del proprio Mistero, che può apparirci sia come Nulla e annientamento di ogni senso, sia come Sorgente del nuovo senso che viene appunto a ri-definirci.
In questi momenti cruciali l’essere umano comprende a livelli sempre più profondi di essere veramente un essere singolare e unico entro la molteplice creazione, un essere il cui essere è un movimento, una pro-creazione, alla quale egli stesso partecipa ascoltando e pensando, producendo in un certo senso il discorso che gli dice chi egli sia e che cosa sia il mondo. In questi momenti l’uomo comprende perciò la natura verbale, linguistica e dialogica, di questa produzione di senso, di questa pro-creazione della propria identità. E comprende che questo discorso, che innanzitutto lo de-finisce di fronte al mondo e al mistero della propria provenienza, non può essere un dire da lui autonoma-mente gestito, non può essere un monologo, che non potrebbe che consolidarlo nei limiti già dati del suo essere, ma può sorgere solo da un’apertura essenziale, da un ascolto che appunto lo espone al di là dei suoi confini, al di là di tutto ciò che sa di sé, verso la Fonte sempre nuova della propria essenza.
In questi momenti cioè l’uomo si scopre inter-locutore di una Rivelazione, si scopre in dialogo col Cielo, con gli Dèi, con il mondo degli spiriti, con Dio, con quel Principio che è il Verbo di Dio, la sua Parola che da sempre ci è rivolta per illuminarci nel nostro stesso essere.
In questi momenti perciò si riattiva la potenza poetica del linguaggio, la sua essenza di Appello-Risposta, di Dialogo originario, attraverso il quale di tempo in tempo l’Uomo si de-finisce in rapporto al Mondo e a Dio.
Ogni cultura infatti sorge da una rivelazione poetica, da un discorso che irrompe al di là di ciò che l’uomo di quel tempo avrebbe potuto sapere e dire: così fu per i Rig-Veda, per la rivelazione mosaica, per il Corano, o per l’Incarnazione definitiva del Verbo di Dio in Gesù di Nazaret. Oggi noi viviamo in una fase davvero cruciale in cui sembra che tutte le figurazioni culturali del pianeta si stiano esaurendo e un’altra e nuova figurazione umana inizi a balbettare nei nostri cuori impauriti e stanchi, purificando e trans-figurando l’intero repertorio della storia.
Ecco perché oggi più che mai la dimensione poetica del pensiero torna ad essere centrale, anche se vive e cresce, come sempre d’altronde, ai margini del vecchio mondo che va in frantumi, nelle periferie dell’Impero.
Poetica è quindi oggi ogni attività umana che si apra al Nuovo Disegno di una umanità sempre più consapevole della propria essenza co-creatrice, di una umanità che diviene finalmente consapevole di essere lo strumento poetico, libero e responsabile, della stessa creazione: l’Interlocutore originario di Dio: il suo Tu eterno: la realizzazione corporea della sua Sostanza: la sua immagine vivente e parlante: il suo Figlio prediletto: il suo Cristo, attraverso il quale tutte le cose sono ri-create.
In tal senso è certamente più poetica l’opera di Jung nel XX secolo o di Bohr, di Gandhi o di Heidegger, piuttosto che tante versificazioni e lamentazioni in versi, prodotte da uomini imprigionati nei limiti di ciò che dell’umano sta morendo.
Poetico è oggi solo quel pensiero, quell’opera, quel discorso che porti avanti la pro-creazione dell’umano come essere che libera-mente produce la propria nascita.
Poetica è ogni conoscenza che si scopra co(n)-naissance, come diceva Claudel, co-nascita di me e del mondo ogni volta che provo a dire che cosa sia la realtà e chi sia io stesso.
Poetico è oggi ogni pensiero che illumini l’essenza dinamica del darsi della verità: il suo darsi cioè solo attraverso la pro-creazione poetica dell’uomo, come scriveva molto bene Nicolaj Berdjaev: “La verità non è un dato obiettivo: è una conquista creatrice, una scoperta dello spirito creatore, e non una conoscenza riflessa di un oggetto, dell’esistenza oggettivata. La verità non si confronta con una realtà predefinita, d’origine esterna; un tale confronto è impossibile: essa è la trasfigurazione creatrice di questa stessa realtà.”
Questa è la grande rivoluzione in corso: ridisegnare l’essenza e l’autoconsapevolezza dell’uomo a questo livello di libertà e quindi di responsabilità.
Qui ritroviamo i misteri cristologici della Nuova Umanità (libera, regale, profetica, e sacerdotale) e della Nuova Alleanza tra Dio e Uomo, determinata dall’Incarnazione umana del Verbo stesso di Dio, e ritroviamo al contempo tutti i sogni migliori della modernità, le aspirazioni ad un Mondo Nuovo, ad una Scienza Nuova, ad una Tecnica Nuova, ad un uomo libero e fraterno, ad una società di uguali. Ma ritroviamo queste radici ad un livello assolutamente inedito, per cui sia il cristianesimo storico che le culture laiche della modernità vivono oggi, al di sotto di tutte le mascherate trionfalistiche, un processo sconvolgente di purificazione e di ricominciamento.
Rinnovare la cultura in ogni suo settore richiede perciò, a mio parere, di diventare coscienti di questo trapasso e di favorirne i processi dissolutivi-ricreativi. Molto infatti deve anche scomparire nella transizione in atto, e ce ne rendiamo pienamente conto osservando in particolare i resti, i brandelli della nostra “civiltà letteraria”.
“Infine se distruggi, fallo con attrezzi nuziali”, diceva Char. Distruggiamo cioè solo ciò che ostacoli la coniugazione in atto tra Dio e l’Uomo, e quindi tra di noi. E questi ostacoli sono innanzitutto interiori, psicologici e spirituali: sono le nostre paure ricorrenti, le nostre difese, le nostre arroganze, i nostri dubbi, i nostri riduzionismi e minimalismi, le nostre presunzioni e disperazioni, i nostri banalissimi sogni di “passare alla storia”.
Il cristiano poeta del XXI secolo non vuole affatto passare alla storia, non gli interessano più i Sepolcri, vuole passare invece ogni volta di nuovo all’Eternità, all’esperienza dell’Eterno, già qui presente.
Assolutamente niente di meno.
Se vogliamo per davvero entrare attivamente nel processo in corso siamo chiamati perciò ad un lavoro continuo dentro la spelonca del nostro cuore, perché è lì che avviene il transito antropologico. Dobbiamo ogni giorno lasciar cadere le tante immagini mortificanti e limitanti di noi stessi e dell’essere poeti o qualsiasi altra cosa. Dobbiamo abbandonare l’estetica aristotelica occidentale che relega la dimensione poetica al rango del verosimile, del soggettivo, dell’arbitrario in fondo, lasciando il territorio della verità alla scienza. Dobbiamo conquistare una sorta di semplicità folle, diventare puro silenzio, puro orecchio, flauti, canne vuote e risonanti, vele veloci al girare del Vento, varchi, ponti, pontefici del Nuovo che avanza, madri del nascente, e bimbi che succhiano il latte di una dolcezza infinita. E’ l’umiltà radicale, paradossalmente, quella che appunto non sa più nulla neppure di sé, se non ciò che oggi le viene detto e dato come pane quotidiano di sapienza, l’unica porta verso quella Nuova Regalità cui siamo chiamati.