Premi "Invio" per passare al contenuto

Accogliere gli affaticati e gli oppressi

L’educazione alla fede come processo di liberazione e di guarigione

Ricominciare a credere nella salvezza

Educare alla fede cristiana oggi significa entrare in una dimensione di ricerca e di sperimentazione, in un vero e proprio “laboratorio della fede”, per usare un’espressione cara a Giovanni Paolo II, un laboratorio che è innanzitutto interiore, dentro il nostro cuore, ma poi anche comunitario.
Non si tratta cioè di trasmettere meccanicamente contenuti teologici o pratiche liturgiche chiuse nei loro significati garantiti una volta per tutte, quanto piuttosto di convocare le persone entro un processo di profonda trasformazione, e cioè in fondo di ritrovare tutto il dinamismo spirituale, tutta la potenza di guarigione e di liberazione, che la vera fede innesta in noi.
In tal senso l’educazione alla fede sta vivendo certamente una sorta di rivoluzione copernicana, una crisi senza precedenti di moltissime forme (linguistiche, rituali, ecclesiali etc.) in cui si è espressa per secoli, ma questo rivoluzionamento va interpretato come maturazione e purificazione, come momento drammatico di crescita, come confronto più radicale e più autentico col mistero della fede, e cioè come entusiasmante ricominciamento.

Dobbiamo chiederci con molta semplicità: ma che cosa significa per me credere nel vangelo? Che cosa significa educarmi alla fede? Proviamo a non interrogarci sulle forme della trasmissione della fede assumendo subito il ruolo degli insegnanti o dei catechisti. Sentiamoci piuttosto noi i soggetti da educare, come propone di fare André Fossion, un gesuita che ha presieduto l’équipe europea dei catecheti: “La questione, allora, non è più di sapere che cosa dobbiamo dire agli altri per toccarli e convertirli, ma anzitutto che cosa dobbiamo ascoltare noi”.
Allora, che cosa abbiamo bisogno di ascoltare noi adesso, in questa fase cruciale della storia? Che cosa stiamo cercando? Di che cosa abbiamo una fame da morire, spesso senza nemmeno rendercene conto? E in che modo la parola evangelica può rispondere a questa mia fame?

Mai come oggi l’essere umano ha sperimentato una riformulazione tanto radicale di tutte le convinzioni e le istituzioni storiche su cui è fondata l’esistenza personale e collettiva. Tutte le idee, filosofiche, scientifiche, religiose, morali, politiche, sono in travaglio. Il mondo sembra preso da un movimento interno accelerato che centrifuga ogni cosa, ogni concetto, e non si sa che cosa ne verrà fuori. Nella costituzione conciliare Gaudium et spes leggiamo: “Il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva”(n. 5). Solo che gli stessi parametri moderni di questa evoluzione, come il concetto di progresso scientifico e tecnologico, si stanno liquefacendo, e quasi nessuno è più così sicuro della direzione positiva di questo “progredire”.

Allora proviamo a stabilire un primo punto molto semplice: educarmi alla fede oggi significa innanzitutto imparare a vedere, ad intuire che nella mia esistenza così come nella storia del pianeta, anche in questa fase di apparente caos, sussiste una direzione, un senso direzionale, stiamo cioè andando da qualche parte, e certamente, e nonostante tutta la nostra sofferenza, verso il meglio. Questa è intanto per davvero una buona notizia.
Io, uomo o donna del 2008, ho assoluto bisogno che qualcuno mi aiuti a discernere questa direzione. Educare alla fede significa oggi avere gli strumenti (culturali e spirituali) per ri-leggere le biografie e le storiografie come percorsi entro i quali sta maturando una salvezza. Non si tratta di spargere copiose catechesi, più o meno aggiornate e accattivanti o multimediali, sulla divinità di Gesù o sull’importanza dei sacramenti, sopra i coperchi ormai metallizzati di tante anime irrigidite dentro le loro paure. Ma di aiutare umilmente queste persone, e una ad una, a rivedere tutta la loro storia lasciando che in mezzo ai tanti dubbi e alla disperazione che ci divora, tra la rabbia e la vergogna che ci accompagnano insieme al senso bruciante del nostro fallimento, si faccia lentamente strada una luce diversa, quel indomabile impulso alla crescita, quel germe divino e indenne (1Gv 3,9) che c’è nel più profondo, e che proprio ora vuole venire fuori, vuole venire al mondo per rinnovarlo dall’interno.

Educarci alla fede perciò significa oggi accompagnarci vicendevolmente a fare esperienza di questa luce crescente, e cioè in definitiva aprirci alla più vera speranza. E questo sia a livello personale che a livello storico-collettivo. Abbiamo assoluto bisogno perciò di rileggere anche i secoli della modernità e lo stesso novecento come ambiguissimi tracciati verso una nascita che sta erompendo in ciascuno di noi: la nascita di una umanità sempre più integralmente liberata, perché liberata alla fine anche dalla schiavitù della morte (1 Cor 15,26). E che questo stia accadendo proprio ora è un’altra buona notizia, un vero e proprio evangelo.

Accompagnamento personale e gruppi in una chiesa che accoglie tutti

Le persone che vengono nei gruppi “Darsi pace” , che conduco da circa dieci anni, sono persone come me, smarrite e in cerca di aiuto. Vengono cattolici praticanti, ma anche non credenti, cristiani fuori dalla chiesa e persone che frequentano discipline orientali o che hanno avuto esperienze psicoanalitiche o psicoterapeutiche di vario tipo, e poi artiste, musicisti, impiegate, medici, trentenni precari, donne di casa, insegnanti, sessantenni in pensione, e così via. Eppure, poco sotto queste molteplici differenze economiche e culturali, troviamo presto la stessa identica e straziante voglia di ricominciare. E’ questo spirito di ricominciamento che non dobbiamo perdere quando parliamo di educazione alla fede. Anzi, dovremmo aiutare a comprendere che questa esigenza è proprio l’essenza stessa della nostra fede, la sua temporalità: credere in Cristo Gesù significa infatti sapere che oggi, anzi ora, in questo momento io posso ricominciare tutto daccapo, essere sciolto dai legacci del mio passato e aprirmi immacolato, puro e senza colpa all’avvento del Nuovo. Accade questo nella nostra pastorale ordinaria? Diamo questo senso di ricominciamento e di novità? Oppure la percezione che comunichiamo troppo spesso è che aderire alla fede significhi piuttosto entrare in un sistema ben recintato di regole e di certezze consolidate? Mettere la firma sotto un contratto in cui tutto è previsto e regolamentato? Non è proprio per questa sensazione oppressiva e del tutto fuori tempo che tanta gente si allontana dal cristianesimo? Eppure, come ricorda ancora Fossion: “la fede cristiana si trova oggi in uno stato generalizzato di cominciamento o di ricominciamento”, o forse la fede cristiana sta riscoprendo la propria essenza di ricominciamento e di rivoluzione permanente.

Se dovessi delineare una specie di identikit del classico “ricominciante”, di colei o colui che torna ad interessarsi in modo personale alla fede, nei nostri paesi di antica e radicata tradizione cristiana, dovrei fare un elenco delle cose che queste persone percepiscono come morte e perciò rifiutano ed uno di ciò che invece richiedono e accolgono con gioia.
Ebbene per prima cosa viene rifiutato ogni linguaggio astratto e impositivo, moralistico o dogmatico, che ci piombi addosso da altri secoli senza toccarci nelle nostre piaghe quotidiane, senza parlare cioè a noi, senza darci alcun sollievo, come dice bene Amedeo Cencini: “Rischiamo così di parlare davvero un’altra lingua, che solo pochi capiscono, c’intestardiamo a usare linguaggi ‘religiosi’ senza accorgerci che abbiamo inevitabilmente sempre meno uditori, perché quei linguaggi, spesso fin troppo pii e logorati dall’uso, ma pure astratti e disarticolati dalla vita e dai suoi problemi hanno un referente antropologico che non solo non è quello della cultura e della sensibilità attuale, ma che all’uomo d’oggi dice ben poco”.

Vengono perciò rifiutati, ad esempio, o perlomeno non compresi, e messi da parte o subìti, molti aspetti della liturgia, della struttura gerarchica e monosessuale della chiesa cattolica, molte rigidità unilaterali della morale, specialmente sessuale. Ci si chiede: come mai in materia sessuale si pretende una sorta di immediata perfezione, codificando perfino i comportamenti leciti entro il letto matrimoniale, mentre in materia economica (dove tra l’altro Gesù è stato infinitamente più categorico e preciso) si lascia un po’ tutto alla coscienza individuale?
E questa occulta obiezione viene fuori con chiarezza anche dalle più recenti indagini sociologiche, che ci indicano, ad esempio, che su una popolazione come quella italiana che per più dell’80% si dichiara cattolica, “è diffusa l’idea (70% dei casi) che si possa essere buoni cattolici anche senza aderire alle indicazioni del magistero in campo etico”. Inoltre il 63% non condanna il divorzio, il 69% i rapporti prematrimoniali, il 65% la convivenza, e addirittura il 72% accetta l’uso dei contraccettivi.

Potremmo forse dire che ciò che viene rifiutato sia l’elemento rigido, astratto, e oggettiva-mente imposto della fede, tutti quegli aspetti cioè che sembrano prescindere dai faticosi processi della assimilazione personale, e quindi:
* le filosofie appunto oggettivistiche della metafisica tradizionale, che vorrebbe insegnarci come è Dio in sé e per sé, riducendolo in verità ad un Ente, sia pure Supremo, ad un oggetto appunto della nostra mente razionale;
* L’indottrinamento catechistico che ne deriva, come se la fede corrispondesse ad un tener-per-vero una serie di concetti più o meno comprensibili;
* le forme rituali teatralizzate, cui siamo chiamati appunto ad assistere come spettatori passivi di fronte ancora una volta ad eventi “oggettivi”, che altri mettono in scena;
* la sacralizzazione di un potere ecclesiastico che esprime anch’esso un’autorità “oggettiva”, che emana norme e verità a prescindere da qualsiasi relazione personale con i destinatari di questi ordini.
Tutto ciò risulta sempre meno utile per una efficace e contemporanea educazione alla fede, e si sta infatti liquidando sotto i nostri occhi, di secolo in secolo, e ormai di decennio in decennio e di anno in anno, come una vecchia società in fallimento.

Quali sono invece i caratteri emergenti del ricominciamento? In quale clima possiamo ricominciare a credere nella nostra salvezza? Anche qui proviamo a stilare un breve elenco.
Innanzitutto il centro si sposta dall’oggetto (concettuale) da trasmettere verso la persona che è chiamata a ricevere un insegnamento che deve trasformarla. Questo è un dato sociologico ovunque rilevato: “Un’ulteriore tendenza è rappresentata dalla maggiore importanza che si attribuisce all’esperienza religiosa più che ai contenuti intellettuali della fede”(Garelli).
Anche qui si passa perciò da una prospettiva oggettivistica ad una relazionale ed esperienziale, cosa che d’altronde sta avvenendo in ogni ambito formativo: “Un elemento comune a tutte le definizioni del complesso termine ‘formazione’ è lo spostamento di attenzione, il cambio di focus, del processo pedagogico. Mentre ancora in un recente passato l’azione pedagogica consisteva essenzialmente nello studio delle modalità attraverso cui il pedagogo, l’insegnante, trasmetteva il sapere (la scienza, la tradizione), oggi l’accento viene posto sulla modalità attraverso cui l’educando perviene alla propria maturità”(L. Meddi).

Ma purtroppo siamo ancora ben lontani dall’applicazione “catechistica” di questa prospettiva. Per adeguarci infatti a questa modalità di trasmissione della fede dovremmo creare, nelle parrocchie ma anche al di fuori, dei gruppi liberi in cui accogliere le persone così come sono, senza pretendere nessun “arruolamento”, ma solo per accompagnarle, ancora una volta one by one, in una revisione della loro esistenza. Dovremmo concepire e costruire forme di appartenenza flessibile alla chiesa, ed una chiesa, che sia essa stessa un organismo plurale, composito, e vivo: una famiglia di chiese che si aiutino a vicenda, un corpo in continua trasformazione.
Saprà la chiesa accettare il principio di démaitrise, e cioè di non controllo, in base all’insegnamento di Gesù: “Non glielo impedite” (Mc 9,39)? Sapremo accettare di essere puro lievito e carne donata, che la gente prende e divora per quanto è in grado di comprendere e di assimilare? Sapremo sviluppare rapporti liberi e multiformi con il cristianesimo? Sapremo diventare cioè noi per primi cristiani? La risposta a questa domanda non è affatto scontata, ed è lasciata all’azione dello Spirito in noi e alla nostra capacità di lasciarci trasformare, liberare, illuminare, e rendere perfetta-mente divini.

Articolo pubblicato nella Rivista “Via, Verità, e Vita – Comunicare la fede” – numero 5, settembre/ottobre 2008.