Essere cristiani dentro il travaglio della storia
La natura storica di ogni domanda essenziale
Quando ci interroghiamo su come possiamo vivere una radicalità evangelica oggi, credo che dovremmo innanzitutto riflettere sulla natura di questo “oggi”, in quanto è sempre nello specifico storico delle nostre esistenze che la fede si incarna inventando le sue forme sempre nuove.
I contenuti essenziali della fede sono ovviamente gli stessi di secolo in secolo, ma è la loro comprensione, e quindi le modalità della loro effettiva incarnazione, che fa la differenza. Abbiamo sempre creduto, per esempio, che non si debba uccidere, come ci ordina il Decalogo, ma ben diversa è la comprensione di questo comandamento oggi, rispetto a solo cento anni fa, quando la guerra o la pena di morte o addirittura il delitto d’onore erano considerati, da quasi tutti i cristiani, eventi del tutto leciti. E la stessa dinamica coinvolge ogni contenuto della nostra fede, che per sua natura cresce e continua a rivelare le proprie verità nel travaglio concretissimo della sua incarnazione storica.
Da ciò deriva che una qualsiasi tematica teologica, ma anche qualsiasi domanda filosofica, non possa approfondirsi se non attraverso una lettura del momento storico in cui viene posta, anzi direi attraverso una comprensione della fase esistenziale di chi se la pone. E’ lì, in questa concretezza estrema, esistenziale e quindi anche storico-collettiva, che può farsi strada una risposta nuova, e cioè un ulteriore passo dell’incarnazione della verità. In tal senso la Costituzione pastorale Gaudium et spes precisa che il popolo di Dio “cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio”(11a). Eppure quanta astrazione teoreticistica circola ancora, quanta presunzione di poter definire in modo metastorico e disincarnato le grandi questioni della vita, quanta illusione di poter conoscere Dio, ma anche l’uomo, fuori dalla storia complessa e tortuosa in cui Egli si comunica a noi rivelandoci a noi stessi giorno dopo giorno, donandoci le razioni quotidiane del pane della conoscenza, e impedendo che possiamo accumulare la manna del nostro sapere in scatole di nozioni surgelate.
Il tempo della trans-figurazione antropologica
Detto questo, dobbiamo subito rilevare che stiamo vivendo una fase del tutto singolare, e per molti aspetti ultimativa, della storia del nostro pianeta. Ci troviamo in un punto estremo, in cui l’umanità sembra chiamata a prendere decisioni che determineranno il nostro destino per un lasso di tempo difficilmente determinabile. Sembra infatti che molti cicli storici stiano precipitando tutti insieme in questo punto fatale della storia. Non stiamo infatti solo faticando ad uscire dal XX secolo, ma sta finendo anche il ciclo della civiltà industriale con tutte le ideologie che aveva prodotto (1789-1989), e si sta compiendo contemporaneamente l’intera epoca della modernità, come Romano Guardini aveva indicato trenta anni prima che il pensiero “postmoderno” divenisse tanto popolare. Ma non basta. Il filone più rilevante del pensiero contemporaneo, che da Nietzsche arriva a Heidegger, parla addirittura della fine dell’intero ciclo greco-cristiano-occidentale, del collasso di un intero sistema di pensiero, incapace ormai di comprendere l’evento in atto. Cosa d’altronde che fu profondamente avvertita e sofferta, sia pure in modi e con interpretazioni diversificate, da tutta la grande cultura (artistica, poetica, psicoanalitica, scientifica, e politica) del 900. Basti pensare a personalità come Jung o Einstein, Eliot o Ungaretti, Teilhard de Chardin o Gandhi. C’è infine chi, come Raimundo Panikkar, parla della fine in atto dell’intera storia, intesa come il ciclo, interamente bellico, che inizia intorno al 3300 a. C. con la scrittura sumerica.
Non posso addentrami nella descrizione del passaggio cruciale che stiamo attraversando (si cfr. M. Guzzi, La nuova umanità – Un progetto politico e spirituale, Ed. Paoline 2005). Mi limiterò, in questa sede, a dire che ciò che sembra esaurirsi in questi decenni decisivi è un’intera figurazione antropologico-culturale che potremmo definire egoico-bellica: quel modo di essere un io umano che definisce e rafforza la propria identità (di genere, culturale, di classe o di casta, religiosa o nazionale) contrapponendosi polemica-mente, e quindi combattendo o eliminando o soggiogando l’altro da sé. Questo modo di essere umani, che ha sostanzialmente dominato per tutta la storia che conosciamo, si sta mostrando in modi sempre eclatanti ed evidenti come un principio di morte e di distruzione: il XX secolo, con le sue guerre mondiali, la Shoa, i Gulag, e la bomba atomica, ha posto l’umanità di fronte a questa nuova consapevolezza: l’io bellico è un principio incompatibile con l’evoluzione del pianeta.
Questa nuova coscienza ci sta faticosamente spingendo verso una forma nuova di figurazione antropologica, che potremmo definire relazionale e trans-figurativa: un io cioè che si definisce e rafforza la propria identità aprendosi alla relazione con l’altro da sé, riconosciuto come parte di sé, lungo una traiettoria di trasformazione unificante e pacificante.
Questa nuova figura di umanità sta portando davanti al tribunale della storia la vecchia figurazione egoico-bellica, confessando tutti i crimini contro l’umanità che essa ha commesso. Jacques Derrida parlava perciò dell’apertura in atto di un tempo universale di conversione e di richieste di perdono: tutti infatti, sia a livello di identità nazionali e familiari che di identità religiose o ideologiche, abbiamo moltissimo di cui pentirci e purificarci.
Radicalmente cristiani: uomini e donne in trans-figurazione
Questa situazione provoca profondamente il cristiano, in quanto è come se la nuova figura emergente di umanità avesse quasi tutti i lineamenti di quel Uomo Nuovo che il Cristo Gesù ha inseminato in ciascuno di noi. E’ come se l’Uomo Nuovo cristi-forme premesse dentro le fibre viventi della storia, con la potenza della sua pressione messianica, a prescindere da specifiche adesioni di fede, come una sorta di necessità vitale, e cioè mostrandosi come l’unica reale direzione di sopravvivenza e anzi di rilancio del progetto umano sul nostro pianeta.
E’ in questo crocevia che mi sembra si delineino i compiti veramente attuali del credente e della chiesa nel suo complesso. Si tratta di compiti sia di chiarificazione culturale, su cui mi soffermerò molto meno, che di rinnovamento interiore ed esistenziale.
A livello culturale la chiesa è innanzitutto chiamata a mostrare come questa nuova figura postbellica e relazionale di umanità che sta emergendo non nasca affatto dal nulla, o da un processo di pura razionalità metastorica, ma sia viceversa la naturale fioritura di una storia ben precisa, che è quella della tradizione ebraico-cristiano-occidentale sfociata a sua volta nelle culture della modernità.
In secondo luogo la chiesa è chiamata a portare avanti, proprio dialogando con le culture della modernità, riscoperte e purificate a loro volta entro le loro radici profondamente evangeliche, quel processo di conversione e di purificazione dalle proprie componenti ancora belliche, che si è avviato col Concilio Vaticano II e che ha trovato nella storica richiesta di perdono, compiuta da Giovanni Paolo II durante la prima domenica di quaresima del 2000, un momento fortissimo, direi quasi il sigillo profetico di un ricominciamento.
A livello personale invece ognuno di noi, immerso nel vortice di questo grandioso passaggio di figurazione antropologica, sta sopportando una profonda crisi delle proprie identità: tutti i contenuti storici delle nostre identità sono infatti in travaglio, si stanno purificando degli elementi egoico-bellici che ancora li caratterizzano. Il cristiano dovrebbe vivere la propria radicalità evangelica mostrando come questi contenuti identitari possano purificarsi proprio attraverso la reiterata esperienza del mistero iniziatico della rinascita nello Spirito. Il credente dovrebbe cioè mostrare che cosa diventi un medico o un politico che viva veramente il proprio processo di trans-figurazione, e cioè che si vada liberando dalle modalità egoico-belliche in cui finora queste identità sono state incarnate. Dovremmo mostrare che cosa significhi essere maschio o femmina, padre, madre, italiano, europeo, maestra o giudice attraversando la passione trans-figurativa in atto in senso evolutivo, come liberazione dalle componenti egoiche che tuttora corrompono le nostre vite. Il cristiano dovrebbe, in altri termini, indicare con la propria esistenza concreta e con la propria parola le direzioni creative ed evolutive della crisi antropologica in atto in ogni ambito della convivenza sociale, annunciando ai fratelli e alle sorelle, prese con noi nel grande vortice metamorfico, che tutto questo travaglio porta con sé straordinarie possibilità di crescita, che cioè questa crisi non è affatto per la morte, ma per una nascita, per un natale: il natale dell’uomo nuovo, di un uomo riconciliato con il proprio principio, con Dio.
Verso una nuova centralità contemplativa per rianimare il mondo
Questa funzione rigenerativa dell’intera società umana, propria del cristiano radicale-mente centrato nella propria fede, era vista già da Jacques Maritan come indispensabile alla salvaguardia della stessa civiltà umana: “Se una nuova era di civiltà, non di barbarie, deve schiudersi, l’esigenza più profonda di tale era sarà la santificazione della vita profana, una fecondazione dell’esistenza sociale-temporale operata dall’esperienza spirituale, dalle energie contemplative, dall’amore fraterno”. E questo è il punto centrale. Affinché possiamo vivere la nostra radicalità cristiana come testimonianza profetica del senso dell’intero travaglio storico in atto, siamo chiamati ad una nuova e ben più potenziata centralità contemplativa. La dinamo energetica delle nostre esistenze deve diventare per davvero il processo trasformativo stesso, l’azione rigenerativa di Dio in noi. E questo richiede una pratica costante di autoconoscimento e di preghiera, una inedita spiritualità per il cristiano nel mondo. Ogni giorno dobbiamo riconoscere ciò che in noi appartiene ancora all’uomo vecchio, egoico e disperato, e ogni giorno dobbiamo lasciare allo Spirito la possibilità di riplasmarci secondo l’immagine divina che è in noi (2Cor. 3,17).
Il cristiano, per vivere questi tempi straordinari in modo attivo e creativo, ha urgente bisogno di cammini spirituali concreti e da vivere in comune, entro i quali possa essere aiutato a compiere le trasformazioni esistenziali e professionali che urgono. Questi cammini devono integrare una formazione culturale permanente, che aiuti a comprendere in senso evolutivo i fenomeni anche drammatici che viviamo, ma anche strumenti di autoconoscimento psicologico che purifichino la nostra fede, evitando che diventi una via di fuga dal fuoco della controversia storica e personale. In tal senso Enzo Bianchi, introducendo un libro di André Louf scrive: “la tentazione di fuggire questo confronto o di opporre psicologia e vita spirituale è sempre molto forte. Era importante che un uomo di incontestabile autorità spirituale ribadisse che alcune acquisizioni della psicologia sono ormai un dato insopprimibile e che la relazione d’accompagnamento le deve tenere in considerazione se non vuole imboccare vicoli ciechi letali per la dinamica della vita spirituale cristiana. Noi siamo sempre stati convinti che errori di spiritualità diventano patologie psicologiche e che i disturbi psicologici non sono mai estranei alla vita spirituale e proprio per questo una sinergia di dati e di attenzioni ci pare feconda secondo le indicazioni di André Louf”.
Dobbiamo perciò aprire una grande stagione di sperimentazione in questa direzione, in quanto c’è ancora un divario troppo vasto tra le indicazioni anche magisteriali in materia e le applicazioni pratiche nella pastorale e nella catechesi ordinarie.
Solo questa nuova centralità contemplativa, radicata in percorsi da vivere in piccoli gruppi, può poi aiutarci a riorientare anche l’intero ordine delle nostre priorità, a semplificare le nostre esistenze, e quindi anche a trovare quel tempo necessario al lavoro interiore, che sembra sempre più carente nell’affanno delle nostre esistenze iperattive e a volte addirittura deliranti.
Dobbiamo testimoniare e annunciare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che senza un profondo baricentro spirituale, ogni giorno ritrovato e rinforzato attraverso l’autoconoscimento e la preghiera, le nostre esistenze divengono letteralmente dis-integrate, perdono di gusto e di sostanza, affondandoci in una cupa disperazione. La radicalità cristiana dentro il mondo deve invece mostrare con chiarezza che tutto può ricominciare a fiorire da un cuore re-integrato, riunificato, sanato.
Tutta la storia chiede di ricominciare dal nostro cuore pacificato. Tutte le nostre esistenze, le nostre identificazioni, i nostri mestieri chiedono urgentemente di essere ridisegnati a partire da un centro più profondo del nostro piccolo io, da un cuore meno diviso e lacerato. E dobbiamo annunciare e testimoniare questa esigenza trans-figurativa mostrandone già con le nostre vite la possibilità concreta e in atto. Dobbiamo mostrare che è possibile essere uno scrittore o un avvocato, una casalinga o un operaio non alienati, non dispersi nel labirinto di specchi della nostra società illusionistica. E’ possibile anche ora, anche nelle nostre metropoli più o meno desertificate, essere persone che curano le proprie relazioni, che pongono al centro della loro vita gli affetti e l’attenzione al prossimo, che sanno inventare modi nuovi di stare insieme, di creare insieme un mondo diverso, più umano, più bello.
Questo attende da noi il mondo. Questa è la sfida con cui si apre il nuovo millennio.
Pubblicato nel numero monografico di “Credere oggi”, dedicato alla Radicalità cristiana, 165/ 3-2008