L’identità umana rimessa in gioco
La svolta antropologica come causa profonda della crisi di tutte le identità
Viviamo tutti insieme, in diretta mondiale, e in simultanea, la più grande, la più profonda, la più radicale, e quindi anche la più sconvolgente trasformazione culturale di cui abbiamo memoria storica. Ma ancora non ne siamo pienamente consapevoli, e sembra anzi che facciamo a gara a distrarcene, a far finta di niente, e ad occuparci di particolari più o meno insignificanti.
Attraverso questo straordinario processo metabolico, che è in atto in verità da secoli e che procede negli ultimi decenni con un’accelerazione impressionante, ogni concezione teorica, ogni consuetudine sociale, e ogni prassi consolidata, ma anche ogni struttura istituzionale e forma di aggregazione umana, viene sottoposta ad un travaglio, ad una digestione direi, dopo la quale niente è più come prima.
Parliamo di una vera e propria svolta antropologica, che però, a differenza per esempio della svolta del neolitico, per compiersi richiede la piena e libera e consapevole e personale partecipazione degli esseri umani, uno per uno. Ecco perché il processo è così lento e faticoso. Non “svolteremo” mai, in altri termini, verso la nuova età, se non lo desidereremo con tutto il nostro cuore, se non ci impegneremo personalmente nei processi trasformativi che la svolta richiede. Non inaugureremo mai l’era planetaria incipiente se ognuno di noi non si eserciterà a sviluppare in prima persona una coscienza planetaria, uno sguardo trans-particolaristico, e appunto globale. Ecco perché questo straordinario passaggio epocale ci sta sconvolgendo tanto dentro quanto fuori, sommuove come un vero e proprio terrae-motus tanto le strutture del mondo esterno quanto quelle dell’anima, e si manifesta infatti, già lungo tutto il XX secolo, tanto con rivoluzioni politiche, crolli di imperi, catastrofi nazionali e guerre mondiali, quanto con tracolli psichici, pandemie depressive, nevrosi ossessive, psicopatologie della vita quotidiana, e crisi d’identità dilaganti.
Da qui dobbiamo partire perciò se desideriamo comprendere qualcosa di consistente intorno al problema dell’attuale sfaldamento di ogni identità umana.
La liquidazione delle identità belliche sociali e culturali
Essere uomo non è mai stato facile. L’uomo infatti è abitato da un dèmone, come diceva Eraclito, da uno spirito infinito, dentro la propria struttura fisica de-finita. Per questo è costitutivamente lacerato. Per questo la sua identità non è mai niente di sicuro, né di stabile, non è mai un dato di fatto, non è mai un terreno solido su cui abitare permanente-mente. L’essere umano ha sempre saputo di essere un compito per se stesso, di essere un paradosso: un piccolo e fragile animaletto che deve in ogni momento dare un significato al mondo, scavando dentro di sé quel mistero di sé che lo abita e lo inquieta. “Conosci te stesso” fu perciò, da Delfi in poi, il maggiore comandamento per l’uomo occidentale. Ma è lo stesso che risuona fin dalle origini della tradizione vedica hindu: atmanam viddhi: conosci il tuo atman, la tua anima, te stesso appunto, la tua vera identità.
Anche il salmista si chiede: “che cosa è l’uomo perché te ne ricordi/ e il figlio dell’uomo perché te ne curi?// Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,/ di gloria e di onore lo hai coronato”(Sl 8,5-6). Ma quanto è difficile sentirsi “divini”, riconoscersi tali, e vivere da figli di Dio e coeredi di Cristo. Forse per questo la ricerca della vera identità umana è rimasta riservata a pochissimi, mentre le popolazioni umane si costruivano identità più rassicuranti e più umanamente controllabili.
Potremmo pensare cioè che le rigide identità sociali e culturali e religiose, su cui si fondano tutte le civiltà che conosciamo, derivino in fondo da una profondissima dimenticanza. Potremmo immaginare che i popoli della terra abbiano costruito tutte le ripartizioni/separazioni sociali, e cioè le identità del re e del sacerdote, dello scriba e del faraone, e poi del greco e del giudeo, del patrizio e del plebeo, del romano e del barbaro; ma anche del capitalista e dell’operaio, della casalinga e del barbone, solo in quanto avevano dimenticato chi è veramente l’Uomo. Abbiamo edificato sulla dimenticanza della vera (e universalmente unitaria) identità umana immense e violentissime costruzioni di identità di casta, di ceto, di classe, di nazionalità, di religione, e ne abbiamo fatto quasi sempre strumenti per combatterci, per asservirci, per dominarci, e schiacciarci vicendevolmente, senza alcuna pietà, mentre le grandi tradizioni spirituali rimanevano, ai margini del mondo, a ricordare all’uomo la sua più recondita appartenenza all’assoluto.
Queste figure di identità, sorte sulla rimozione della vera identità umana e della sua ricerca, riservata a pochissimi sapienti e profeti e santi, tanto ammirati quanto inascoltati o direttamente fatti fuori (da Socrate a Gesù, fino a san Francesco e a Gandhi), sono in realtà tutte belliche, in quanto separano gli uomini e li contrappongono gli uni agli altri sostanzialmente in base a pregiudizi e a prepotenze: io sono nobile e tu sei plebeo, io sono borghese e tu sei un proletario, io sono prete e tu sei laico e magari anche donna, io sono cristiano e tu sei un infedele, io sono tedesco e tu sei ebreo, io sono comunista e tu sei un reazionario, io sono maschio e tu sei una femmina, e devi stare zitta a casa a cucinare, e così via.
E’ proprio questa figurazione complessivamente bellica dell’identità umana che si sta dissolvendo, già a partire dall’inizio dell’epoca moderna, spesso portando le tensioni e i conflitti identitari fino all’estremo.
Per cui in fondo non dovremmo avere poi troppi rimpianti o nostalgie, se queste strutture della violenza e del sopruso vanno una dopo l’altra alla malora, come tante società in fallimento, e quindi vengono anche giustamente liquidate. Il problema vero è: in che cosa, in quale forma o sostanza di nuove relazioni ci stiamo liquidando? In quale nuova figura umana si stanno trans-figurando tutte le figurine (di identità) del mondo?
Ma andiamo con ordine, e tentiamo di osservare la svolta antropologica dal punto di vista della liquidazione delle strutture identitarie di classe sociale e di professione.
Il processo liquidatorio della modernità giunge ad un bivio
Normalmente gli studi sociologici considerano un passo evolutivo rilevante il passaggio dalle identità premoderne di ceto e di stato a quelle moderne di classe. Prima infatti l’identità socio-culturale era determinata una volta per tutte alla nascita, per diritto di sangue, mentre in seguito la determinazione sociale dovette essere costantemente confermata, divenne cioè un po’ più flessibile, e quindi un po’ più libera. Insomma un nobile veneziano del XVIII secolo, come un membro appartenente alla casta brahminica hindu, rimaneva (e quest’ultimo rimane) tale dalla nascita fino alla morte, e non aveva nessuna difficoltà a riconoscere in questo suo stato la propria identità. Un borghese del XX secolo, al contrario, avrebbe potuto anche perdere il suo status sociale, e ritrovarsi magari in povertà, a chiedere l’elemosina su un marciapiedi. Jean-Paul Sartre lo disse con grande chiarezza: per essere un borghese devi vivere da borghese, devi dimostrare ogni giorno di essere un borghese, comportandoti in un certo modo, che fino a ieri era ben codificato in ogni suo particolare, altrimenti venivi appunto de-classato.
Ricordo mio padre, che era avvocato, ed era nato nel 1919. Per lui essere avvocati era una struttura molto precisa della sua identità. Significava avere studiato in determinati licei, avere fatto il servizio militare in determinati reggimenti, possibilmente di cavalleria, abitare in determinati quartieri della città, avere ben precise e qualificate amicizie, e addirittura vestire in un modo abbastanza definito, tanto che riconosceva spesso i suoi colleghi per strada, semplicemente in base al loro abbigliamento, e così via.
Il passaggio dai ceti premoderni alle classi fu certamente un progresso, ma le società occidentali del XIX e del XX secolo, rimasero comunque molto rigide nelle loro interne divisioni. Oggi le cose stanno ulteriormente cambiando. Zygmunt Bauman parla perciò del passaggio da una modernità solida ad una modernità liquida, in cui le stesse strutture borghesi vengono liquidate dal processo di mobilitazione sociale che la borghesia aveva avviato con le sue rivoluzioni liberali. La modernità liquida finisce così per destrutturare ogni identità sociale e per annacquare ogni differenziazione: “Ritengo che la principale forza motrice dietro a questo processo sia stata sin dal principio la sempre più rapida ‘liquefazione’ delle strutture e delle istituzioni sociali. In questo momento stiamo passando dalla fase solida alla fase fluida della modernità: e i fluidi sono chiamati così perché non sono in grado di mantenere a lungo una forma, e a meno di non venire versati in uno stretto contenitore continuano a cambiare forma sotto l’influenza di ogni minima forza”.
Tornando all’esempio di mio padre, oggi essere un avvocato (ma anche un operaio o un deputato) non significa più molto dal punto di vista dell’identità, non ci dice quasi niente sulla storia e sulle abitudini di quella determinata persona, in quanto le “solide” strutture sociali, a cui faceva riferimento mio padre, sono quasi tutte liquidate.
Questa situazione provoca effetti molto contraddittori. Mio padre direbbe che il livello del ceto forense (per non parlare di quello politico) è spaventosamente precipitato verso il basso, che ormai molti avvocati lavorano in freddi uffici spersonalizzati e non più in accoglienti studi legali, mirando solo a far soldi; direbbe cioè che è quasi sparito il disinteresse, la moralità della professione, ogni stile. D’altra parte è evidentemente giusto che si possa diventare avvocati provenendo da qualsiasi condizione sociale, e magari avendo frequentato un Istituto tecnico, e abitato in periferia. Il problema è che lo svuotamento delle identità “belliche”, nazionali o sociali o religiose che siano, porta simultaneamente verso due esiti tanto vicini quanto opposti tra di loro: in basso, verso l’annientamento di ogni identità e di ogni senso legato ad appartenenze di qualsiasi tipo, oppure in alto, verso la rifondazione (non più bellica) delle differenze identitarie a partire da un nuovo principio, e cioè da un’identità umana fondamentale, che è sempre baluginata in tutte le tradizioni spirituali, e che per il cristiano è già presente sulla terra a partire dall’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo, come proveremo a spiegare nei prossimi paragrafi.
Il bivio che ci si apre davanti è insomma tra il nichilismo postmoderno ed un ricominciamento dell’intera storia umana sul pianeta terra a partire da una figura inedita (più profonda e più vera) di Umanità che scavalchi, purifichi, e appunto trans-figuri tutte le figurazioni belliche che finora hanno dominato nella storia.
Verso un’identità umana radicale?
Questo è dunque il bivio. Proviamo a comprenderlo un po’ meglio.
Per millenni gli esseri umani hanno costruito e rafforzato le loro identità contra-ponendosi, ponendosi contro l’altro da sé, per differenze polemiche cioè, attraverso l’inimicizia e la guerra. Questa forma di identificazione di sé, mediante la guerra all’altro da sé, sta vivendo ad ogni livello la propria dissoluzione . E così l’essere maschi per contrapposizione/separazione sociale dalla donna, o l’essere italiani attraverso le guerre contro l’Austria, o l’essere di destra o di sinistra odiando a morte il comunista o il fascista di turno, o l’essere nobile o borghese disprezzando ed escludendo e ponendo ai margini della società l’operaio e il contadino, e così via, tutte cioè le figure identitarie tradizionali si stanno mostrando insostenibili, insopportabili perché irreali, e vivono perciò una vera e propria liquidazione, che in superficie appare come il dissolvimento di ogni possibile identità.
Sembra cioè che stiamo precipitando verso un mondo omo-geneizzato, senza differenze e senza qualità, in cui tutto può mutarsi nel proprio opposto, e niente possiede più una propria essenza stabile, un proprio lineamento d’identità: essere maschio o femmina diventa una questione di gusto e di scelta personale; l’appartenenza politica è sempre più fluida, momentanea, “leggera”, e insignificante; le relazioni affettive assumono i connotati delle veloci e disimpegnate connessioni telematiche; il lavoro si fa flessibile, instabile, si delocalizza, mentre le identità nazionali e culturali vengono frullate e amalgamate nel grande calderone della globalizzazione e del multiculturalismo.
Il sogno che inaugura la modernità, e cioè la possibilità per l’essere umano di diventare ciò che vuole, infrangendo ogni limite di natura, sembra finalmente realizzarsi, come scrive ancora Bauman: “C’è voluto qualche secolo perché i sogni di Pico della Mirandola (dell’essere umano che diventa come il leggendario Proteo, cambiando forma da un momento all’altro e attingendo liberamente qualsiasi cosa gli piaccia in quel istante dal contenitore senza fondo delle possibilità) si innalzassero al livello di credo universale. La libertà di cambiare ogni aspetto e ornamento dell’identità individuale è vista oggi da molti individui come qualcosa di realizzabile all’istante o quantomeno come una prospettiva realistica per il futuro prossimo”.
Le culture postmoderne puntano con forza e determinazione verso questa forma tutta costruita e volubile dell’identità umana. Da Derrida a Habermas, si concepisce soltanto un’identità sostanzialmente creata dall’uomo stesso nei processi storico-linguistici e “costituzionali” in cui organizza la propria vita sociale. E ogni passo di destrutturazione delle identità tradizionali e “naturali” viene applaudito e visto come un passo verso la libertà e l’autenticità. Il che in parte è anche vero, come abbiamo visto. Ma queste tendenze, che pretendono di parlare in nome appunto della vera autenticità umana, non ci spiegano poi quasi mai Cosa o Chi sia questo Autòs, questo Sé, questa Identità appunto più vera, in nome della quale ci dobbiamo e ci possiamo liberare delle false identità belliche precedenti. Per cui l’autenticità umana, non radicata in nessun Autòs in sé consistente, finisce poi per coincidere con il puro arbitrio autarchico di piccoli “ii” rissosi e prepotenti, mossi e in realtà del tutto etero-diretti dalle pulsioni più epidermiche e meccaniche, dai peggiori automatismi psichici, o semplicemente dalla pubblicità. Altro che auto-nomia. L’autenticità finisce inoltre col coincidere con l’espressione di un’emotività forzata e infantile, e per altro anch’essa del tutta pilotata, come nei “drammoni”, tutti ovviamente bellicissimi, della De Filippi o del Grande Fratello o di XFactor. Altro che aut-enticità, essere cioè autori della propria vita, qui i veri autori sono scribacchini al servizio dell’ufficio commerciale di Mediaset… Gli ultimi uomini, insomma, previsti con sgomento da Nietzsche, proprio dopo essersi liberati dalle rigide leggi gerarchiche delle società tradizionali, si ritrovano ad essere molto più schiavi dei loro nonni contadini, e molto più volgari e insipienti e privi di dignità dei loro padri operai…
Non possiamo, in altri termini, invocare un’autenticità, e quindi una più vera identità umana, al di là delle differenziazioni secolari della storia, senza fare riferimento a qualcosa che possieda appunto un significato, una profondità, e una potenza che superino e trascendano le stesse determinazioni storiche, e quindi a maggior ragione i nostri immediati e mutevolissimi interessi o gusti personali.
Senza questo trascendimento evolutivo verso una figura nuova e veramente più integra e vera di umanità, il disfacimento delle identità tradizionali ci porta soltanto verso il nulla, e la disintegrazione sociale.
Siamo chiamati perciò, in questo momento fatale della storia, ad accogliere pienamente le critiche e le spinte moderne verso l’autenticità, ma al contempo a comprendere come queste spinte provengano da un mistero dell’Identità Umana che ci trascende e ci guida, da una Figura di Uomo, finora in gran parte inedita, e custodita nel cuore della stessa fede cristiana, che chiede proprio adesso di emergere con più forza in ciascuno di noi e sugli scenari pubblici della storia. Su questo punto mi sembrano molto incisive le riflessioni di Charles Taylor: “Ciò che dobbiamo fare è batterci sul significato dell’autenticità, e, dal punto di vista qui sviluppato, dobbiamo cercare di persuadere la gente che l’auto-realizzazione, lungi dall’escludere rapporti incondizionati e imperativi morali che trascendano l’io, li presuppone, in una forma o nell’altra. La lotta dovrebbe riguardare la definizione del suo giusto significato. Dobbiamo sforzarci di innalzare la cultura dell’autenticità, di avvicinarla all’ideale che la anima”. L’umanità nascente cioè, più autentica e concretamente più realizzata, dovrà riconoscere se stessa come intrinsecamente aperta al proprio Principio spirituale, e nel proprio stesso essere in relazione con gli altri e con il creato: è infatti proprio questa apertura relazionale la sostanza post-bellica della sua natura.
Dobbiamo insomma comprendere meglio che il dissolvimento secolare dei contenuti bellici delle identità tradizionali, in nome di una autenticità umana più radicale, sta facendo emergere una figurazione antropologica nuova, post-bellica e relazionale. Questa è la traiettoria evolutiva di tutta la modernità. Ed è questa figurazione umana nuova, e appunto più evoluta, che dobbiamo impersonare in questa svolta dei tempi, non più in nome di buoni propositi morali, ma semplicemente per sopravvivere.
Questa è la certezza cui arriva d’altronde lo stesso Bauman al termine delle sue riflessioni sulla modernità liquida: “La globalizzazione ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Ora dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la sola scelta che abbiamo è tra l’assicurarci reciprocamente la vulnerabilità di ognuno rispetto a ognuno e l’assicurarci reciprocamente la nostra sicurezza condivisa. Detto brutalmente: nuotare insieme o annegare insieme. Credo che per la prima volta nella storia dell’uomo l’interesse personale e i principi etici di rispetto e aiuto reciproco puntano nella stessa direzione e richiedono la stessa strategia. (…) Ciò di cui si può essere ragionevolmente sicuri è che tali forme (istituzionali), per svolgere il ruolo che si propongono, dovranno dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello planetario, al livello dell’umanità”.
L’umanità post-bellica rigenera tutte le figure di identità
In questa svolta antropologica dobbiamo imparare dunque a sentirci innanzitutto nella radicalità del nostro essere umani: esseri che sono in stretta relazione tra di loro e con il creato, esseri in trans-formazione permanente, aperti all’infinito e in continua ricerca di se stessi. E poi, traendo sempre di nuovo da questa identità dinamica fondamentale l’ispirazione e l’orientamento, siamo chiamati a divenire maschi, femmine, italiani, cristiani, avvocati, operai, casalinghe, o infermieri, in modo del tutto nuovo.
Questa è la seconda strada del nostro bivio, e l’unica ancora evolutiva: la possibilità di ri-generare tutti i contenuti delle nostre identificazioni a partire da una identità umana radicale, post-bellica e relazionale, che sta emergendo proprio attraverso i travagli e le dissoluzioni secolari della modernità.
Per un cristiano d’altronde questa via dovrebbe apparire del tutto familiare, anzi sembrerebbe addirittura che la storia stia dando conferma, secolo dopo secolo, e ormai decennio dopo decennio, alla profezia evangelica della consumazione dei tempi dell’uomo vecchio, legato alle proprie identificazioni belliche.
Il cristiano insomma è oggi provocato dalla storia, dai fatti, a rovesciare per davvero il centro del proprio essere, e a diventare perciò un cristiano marito, un cristiano medico, una cristiana deputata, e non più una moglie cristiana o un operaio o un nobile cristiani, e cioè un essere umano che possieda già una propria identità “bellica”, rivestita in seguito da una crosta di “valori cristiani”. Oggi siamo invece chiamati ad essere innanzitutto cristiani, e cioè esseri radicalmente umani in costante trans-formazione, aperti nel più profondo di noi stessi verso l’abisso infinito della vita sorgente, e in relazione strutturale con gli altri, e da questo Centro (che è poi il Cristo in noi) scoprire ogni giorno di nuovo come essere maschi e femmine, lavoratori e pensionati, senatori e netturbini, casalinghe e papi per davvero post-bellici.
Questo processo sta già portando ad un lungo e difficile cammino di conversione della Chiesa cattolica stessa, e cioè ad una progressiva individuazione e purificazione di tutti quegli elementi bellici (dottrinari, ecclesiali, giuridici, etc.) che tuttora offuscano la sua missione di salvezza, e il suo annuncio di essere appunto la Nuova Umanità.
La sfida è davvero grande e del tutto singolare: “Per quanto spinga in là la mia immaginazione, la battaglia dell’umanità per l’autoaffermazione non sembra facile, men che mai dall’esito scontato. Il compito che ha davanti non è semplicemente ripetere una volta di più un’impresa che è stata realizzata molte volte nella lunga storia del genere umano: sostituire un’identità con un’altra, più inclusiva, e spingere più in là i confini dell’esclusione. Nessuno si è mai misurato col genere di sfida che l’ideale di ‘umanità’ ha di fronte a sé, perché una ‘comunità onnicomprensiva’ non è stata mai all’ordine del giorno nell’agenda del genere umano” (Z. Bauman).
La singolarità della sfida, la radicalità antropologica della svolta, coinvolge in modo inedito la forza delle tradizioni spirituali. Le grandi religioni, infatti, depositarie della memoria della ricerca più radicale intorno alla identità umana, vengono reintrodotte nella riflessione tardomoderna sul destino anche storico dell’uomo, direi in modo del tutto laico, perché l’Identità umana radicale, il volto inedito e trans-bellico dell’Uomo Nascente non possiamo che ricercarlo sempre di nuovo al di là di tutto ciò che la storia può offrirci, in quello spazio aperto che chiamiamo trascendenza, Presente Eterno, Dio in noi, o altro, che è comunque raggiunto e abitato da quelle forme di conoscenza che appartengono all’ambito della spiritualità. Se d’altronde le tradizioni religiose stesse non si convertono al volto inedito dell’Uomo, che tutti ci trascende e ci chiama, non potranno che alimentare nuovi scontri tra figurazioni belliche del vecchio uomo, di tipo culturale, etnico, o pseudo.religioso, come purtroppo constatiamo ogni giorno.
Ma qui, sul nuovo inevitabile nesso che lega la cultura tardomoderna, la nuova politica planetaria, e l’esperienza spirituale si aprirebbe un altro e forse ancora più complesso capitolo della nostra riflessione.
Pubblicato nella Rivista “Formazione e Lavoro” – 1/2009.