Dal turismo di massa alla gioia del cuore
La vacanza come fuga
La nostra società è caratterizzata dallo spreco, dalla sovrabbondanza di cose e di parole inutili, da una cupidigia occhiuta e onnivora, da una frenesia principalmente che non conosce né soste né riposo, e da tutte le malattie che ne derivano, come già negli anni ’50 osservava con acume profetico Ernst Junger: “L’apparente benessere indotto dal nostro sistema di vita assomiglia a una sottile vernice.(…) Gli ingranaggi che girano senza sosta, l’ininterrotto movimento dei nastri non costringono solo il cuore entro il loro ritmo. Tengono in loro potere anche le cellule. Di conseguenza, non incrementano solo le malattie del cuore, ma anche e soprattutto le degenerazioni dei tessuti”.
Siamo un po’ tutti fautori di uno stile paranoide che è poi divenuto, non a caso, uno slogan pubblicitario della RAI: di tutto, di più. Siamo convinti che, per esempio, avere sempre più connessioni, canali televisivi, siti e social networks, sempre più e-mail, SMS, Facebook, blog, forum e chat varie, sia in ogni caso un bene, costituisca comunque un progresso, qualcosa cui anelare.
Questa tendenza furibonda all’accumulo delle cose e degli impegni, e alla moltiplicazione degli impulsi e dei bisogni, sta però raggiungendo un limite, un punto di saturazione, che richiede un’appropriata revisione di questa ideologia del primato della quantità, che si basa poi su uno sviluppo economico tutto proteso ad accelerare la produzione e la sostituzione dei beni di consumo.
La nostra esistenza ordinaria viene sottoposta ormai ad una pressione davvero insostenibile di impegni e di sollecitazioni. Siamo tutti succubi di una complessità che rende ogni giorno di più la nostra vita familiare come l’ambiente lavorativo, ma anche la gestione di una parrocchia o di una comunità religiosa, una sorta di corsa ad ostacoli, fatta di incombenze amministrative, di scadenze improrogabili, di relazioni professionali gelide e violente, e di vere e proprie “rogne”, che corrodono da dentro ogni possibilità di autentico scambio umano.
Sottoposti come siamo a questo stress sembra a volte che viviamo come in apnea, nell’attesa spasmodica di un momento di relax, che ci sottragga ad una vita compressa e perciò spesso depressa, anche se magari furiosamente “attiva”.
In questo contesto patologico l’uomo occidentale, chiuso nel suo ufficio infestato dai demoni della “comunicomania”, come la chiama lo psicoanalista americano James Hillman, e oberato da cataste di impegni arretrati, sogna come ogni ergastolano la sua ora d’aria: le Maldive, Sharm el Sheik, l’Eremo di Camaldoli, o Rimini, sogna New York o la Cina, il Tibet, l’Amazzonia o il deserto sahariano.
Sogna e si avvia. Ad ogni week-end emigra in massa. Milioni di italiani si mettono in autostrada e incolonnati per ore, sottoponendosi a stress e a pericoli di vita che fanno rimpiangere perfino la scrivania del Ministero dei Lavori Pubblici, cercano l’Eldorado, un solo momento di riposo. Che però purtroppo il più delle volte non trovano. La vacanza, sia quella lampo e mordi-e-fuggi di fine settimana che quella (ormai poco) più ampia delle ferie estive diventa spesso a sua volta un lavoro faticosissimo, fatto di agenzie-viaggio e imprevisti, litigi furibondi con moglie/figli/suoceri/amici/vicini di tenda/stanza/caravan/residence/villa/bungalow, e così via. Dall’inferno all’inferno, verrebbe da dire, fino a quando esausti non torniamo al nostro lavoro, quasi contenti, per riposarci finalmente dopo lo stress della vacanza.
Può far sorridere tutto questo, ma in realtà, come dicevamo, nasconde e al contempo manifesta una vera tragedia epocale, una soglia terminale, un limite di sopravvivenza, e la necessità di ideare un nuovo equilibrio personale e sociale tra velocità e lentezza, tra riposo e azione, tra pieno e vuoto, e più in generale tra la funzionalità fulminea della mente (ora spesso telematica-mente attivata), e la temporalità organica e molto più lenta della crescita umana, corporea, culturale, e spirituale. Questo tempo di radicale riformulazione culturale e sociale sarà inevitabilmente lungo e richiederà purtroppo fasi critiche di imprevedibile durata e gravità. Già da subito però possiamo incominciare ad apprendere alcune piccole nozioni, che appartengono d’altronde alla sapienza di ogni tradizione spirituale, e che possono predisporci e prepararci alla ineluttabile transizione, fare di noi cioè dei piccoli esperimenti di nuova umanità post-frenetica.
La vacanza come stato interiore di presenza gioiosa
Dobbiamo subito ricordarci che è del tutto illusorio presumere che un qualunque spostamento di luogo possa modificare in modo significativo il nostro stato interiore. Sì, certo, ogni cambiamento può offrirci qualche minuto di ebbrezza, ma dopo uno o al massimo due o tre giorni, anche sdraiati ai margini dell’agognata piscina di Barcellona, torneremo al nostro abituale clima interiore. Anche sull’Himalaya torneranno ad affollare la nostra mente gli antichi rancori non sanati, le preoccupazioni di sempre, le ferite sanguinanti, i morsi della nostra insoddisfazione lacerante, e così via. Ecco perché i così detti viaggiatori di professione, come certi romanzieri, non possono fermarsi mai, debbono continuare a fuggire da sé, e dallo specchio interiore che li insegue. Ed ecco perché i loro racconti sono sempre più ripetitivi e noiosi.
Per cui se cerchiamo per davvero una vacanza dovremmo prima di tutto imparare a svuotarci, a liberarci, a fare il vuoto dentro di noi (cosa che appunto evoca il verbo latino vacare), a conquistare cioè quel silenzio interiore in cui per davvero ci riposiamo. La vacanza cioè è prima di tutto uno stato della mente, quello stato che sia la tradizione ebraico-cristiana che quella asiatica (sia hindu che buddista) hanno sempre ricercato come presupposto non solo per il nostro rapporto con l’Assoluto, ma anche più semplicemente per una vita ordinata.
Lo stato mentale della vacanza non è cioè la condizione di passività, di sbraco, e di disperata “nullafacenza” che associamo ordinariamente alle ferie, ma tutto al contrario la condizione interiore della giusta azione, quella che è al contempo impegno e riposo, fatica e gioco, lavoro appunto e vacanza.
La donna e l’uomo occidentali dovrebbero imparare a coltivare questo stato di concentrazione e di quiete mentali, questa autentica vacanza, in primo luogo per risanare la propria vita psico-fisica. Sono infatti ormai infinite le ricerche scientifiche che ci attestano gli effetti prodigiosamente curativi della meditazione . Da qui poi, da questa ritrovata maggiore armonia interiore potremo cercare anche diversi modi per organizzare in modo più umano i nostri mondi sia lavorativi che affettivi, e avviare i processi rivoluzionari cui tutti in realtà aspiriamo.
Quando vedremo sfilare per le strade di Milano o di New York cortei di studenti e di lavoratori reclamare a gran voce il diritto alla meditazione, allora vorrà dire che siamo per davvero entrati in una nuova era, come sognava lo psichiatra buddhista Jean-Pierre Schnetzler: “Si può sognare: a quando le manifestazioni rivendicative dei lavoratori frustrati, sventolanti bandiere su cui leggeremo:’La preghiera e la meditazione per tutti, sempre’, e altri slogans così autenticamente rivoluzionari?”
La pratica meditativa ci insegna ad essere qui e adesso, a lasciare andare le nostre preoccupazioni, a comprendere che molti dei nostri pensieri sono come ventose che si attaccano alla nostra anima per toglierle vita, sono come rampini del passato, pregiudizi e paure e ricordi che vogliono trattenerci indietro o proiettarci in avanti, verso un futuro fatto anch’esso a immagine e somiglianza del nostro passato, e ci impediscono perciò di essere qui, adesso, freschi, per godere di ciò che c’è.
Perché questo è il punto: non possiamo godere di niente, non possiamo più in generale fare esperienza di niente, se non siamo adesso aperti e recettivi rispetto a ciò che viviamo.
Ma è proprio questa attitudine di presenza che normalmente non possediamo, e che possiamo riscoprire, come cristiani, facendoci aiutare anche dalle grandi tradizioni orientali.
La vera vacanza dunque comincia così: imparando ad essere presenti con tutto il nostro essere, pienamente vivi, adesso, senza ventose mentali, senza attese né pretese, dimentichi del passato e perciò liberi e gioiosi, e quindi capaci di godere, di respirare e di godere del semplice respiro, di guardare e di godere della magnolia davanti alla finestra e della sua luce dorata.
Questa è la vacanza: essere qui e ora, sazi di ciò che c’è, di esistere, di respirare, colmi a tal punto dell’esistenza presente da sentire con chiarezza: sì, io sono felice, piena-mente felice, ho tutto ciò che desidero, non manco proprio di nulla.
Poi, se vorrò, potrò anche andare alle Maldive o semplicemente a Ladispoli, ma sarò in grado di andarvi per davvero, portandovi la mia capacità di ricevere, la mia vacuità, la mia ricettività, e quindi la mia apertura all’esperienza che mi si offre.
In sostanza o si è già in vacanza oppure non ci si arriva mai.
La vacanza come apertura all’amore
Questo vacare poi non ci chiude affatto in una interiorità autoreferenziale. Tutt’altro, ci apre anzi alla vera relazionalità, ci fa scoprire che siamo da sempre in relazione con tutto e con tutti, e quindi ci dona quell’altro immenso godimento che è la relazione stessa, l’uscita dalla nostra prigionia mentale autarchica e disperata.
Un verso del mio primo libro di poesie diceva:
“Andrò in vacanza per esserti fedele”.
Andare in vacanza, infatti, è la precondizione della nostra apertura all’alterità, e innanzitutto a quel Assoluto che ci sostanzia, la relazione con il quale ci rende uomini.
Ma come posso aprirmi al mistero dell’Assoluto che è in me e in tutto, se non imparo a spegnere, e cioè a svuotare (vacare) la mia mente piena di agganci troppo vincolanti a ciò che è relativo? Come posso essere fedele al Dio Vivente, che è presente adesso in me, se non vado prima in vacanza, nello spazio vuoto dell’ascolto e del riposo?
Perciò “andrò in vacanza per esserti fedele”.
André Louf, abate di Mont-des-Cats, scrive a tal proposito, parlando della quiete spirituale: “Ogni attività (negotium) cessa, per godere il riposo (otium). Si è liberi da occupazioni e da vincoli, e si è così leggeri, vuoti (vacans) nel senso letterale della parola: in vacanza. In vacanza, ma per dedicarsi a Dio (vacare Deo)”.
Andare in vacanza significa dunque entrare in un’esperienza spirituale in cui l’Infinito, come Intelligenza e Amore e Gioia senza fine, gorgoglia dentro di me e mi pulisce gli occhi, affinché io veda le meraviglie che mi circondano: un garofano rosso sul terrazzino, la luce più aurea sui pini di Roma al tramonto, il volto di mia figlia o di mia moglie che ride, il disegno straordinario di una mano.
Essere in vacanza significa cioè essere presenti al Dio Presente, al suo Adesso eterno – perché Dio è ora o non è mai, come diceva Agostino – al fine di essere presenti in tutte le nostre relazioni. Solo in questo essere-presente io stesso divento un presente, un dono cioè, per le sorelle e i fratelli che adesso incontro.
E questa gioia è la vera vacanza.
La vacanza è perciò essenzialmente un luogo di amore, uno stato della mente e del cuore, una specie di campo magnetico in cui o entriamo o ne restiamo fuori, ovunque andiamo e qualsiasi cosa facciamo, come dicono questi versi: “Entravo nel campo del perdono/ Quando esso entrava in me”.
Benedetto XVI usa proprio questa metafora del “campo” per parlare di quello stato di apertura del cuore, che stiamo chiamando vacanza, e cioè l’uscita gioiosa e stupefatta dalla prigione del nostro vecchio io: “nel mondo segnato dal peccato il baricentro intorno a cui gravita la nostra vita è caratterizzato dall’attaccamento all’io e al ‘si’ impersonale. Questo legame deve essere spezzato per schiudersi a un nuovo amore che ci trasferisca in un altro campo gravitazionale e ci faccia così vivere in modo nuovo”.
Se non amiamo, in definitiva, e non godiamo di ciò che amiamo non siamo in vacanza, ma in prigione.
Potremo anche fuggire ai Caraibi, ma tutta la terra rimarrà sempre e comunque la nostra orribile galera, se il nostro cuore non ospita l’amore, se non siamo cioè beati.
Essere in vacanza significa infatti apprendere ad essere beati, e quindi imparare a lodare, a celebrare la vita, a cantare, perché la vita in noi straripa. A quel punto ogni luogo è uguale, ogni tempo è uguale, perché Tutto diventa Uno: una vera e propria vacanza premio, la gioia, l’eternità, la salvezza.
Pubblicato nella Rivista della Conferenza Italiana Superiori Maggiori “Religiosi in Italia”, n.373, Luglio/Agosto 2009