Miseria dei ricchi e strage dei poveri
Un mondo spaccato a metà
L’Unione Europea ha proclamato il 2010 “Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale”, in una fase della storia in cui lo scenario del mondo ci mostra una crescente divaricazione tra chi ha e chi non ha, e quindi tra chi può fare/comprare/connettersi/arricchirsi e chi non ce la fa più neppure a sopravvivere.
I dati li conosciamo, ma riassumiamone brevemente soltanto alcuni tra i più esemplificativi.
A livello planetario il 94% delle ricchezze è in mano a circa il 40% della popolazione, mentre il restante 60% dei popoli del mondo si deve accontentare di dividersi il 6% dei beni disponibili.
Metà degli abitanti della terra vive con meno di 2 dollari al giorno, quasi un miliardo con meno di 1 dollaro.
Se Bill Gates sogna un mondo tutto interconnesso, non dovremmo mai dimenticare che questa visione è per ora del tutto priva di senso per quasi la metà della popolazione terrestre, che non ha mai usato neppure il telefono, e perfino per oltre sette milioni di famiglie americane che ancora non usufruiscono di servizi telefonici.
A livello europeo il 16% degli abitanti dell’UE e il 19% dei bambini sono esposti alla povertà, e cioè percepiscono un reddito inferiore al 60% del reddito medio familiare del loro paese. E’ da sottolineare che la divaricazione economica tra i ceti sociali tende a crescere, tanto che, per fare un solo esempio, in Gran Bretagna negli ultimi 30 anni il 10% dei cittadini più abbienti è diventato 100 volte più ricco del 10% dei cittadini più poveri.
In Italia infine si parla di circa 8 milioni di poveri, e cioè del 13,4% della popolazione.
E’ evidente che questi dati possono variare considerevolmente in base ai criteri che stabiliamo per definire la povertà, e per questo motivo io ritengo, in via generale, che siano fortemente riduttivi rispetto alla reale entità del fenomeno, sia a livello globale che a livello nazionale.
La miseria dei paesi ricchi
Ma come stanno i ricchi, i connessi, i più fortunati del pianeta, quelli insomma che possono tutto, che girano il mondo in aereo e su Internet, e soffrono di malattie da sovrappeso fisico e da sovraccarico mentale?
Ebbene anche noi non stiamo un granché bene.
Non c’è analista sociale o pensatore, non c’è artista o guida spirituale che non sottolinei, e da tempo ormai, che la nostra società opulenta e depressa, iperconnessa e schizoide, bombardata da messaggi pubblicitari di ogni genere, e frantumata in mille ambienti virtuali mediati elettronicamente, è in realtà una società terribilmente povera. Siamo tutti così interconnessi con mille onde e cavi, eppure siamo ogni giorno più soli, anzi isolati, e tristi e vuoti, tanto che Jeremy Rifkin può a giusto titolo scrivere che “per tutti i paesi la sfida è quella di creare per gli individui nuove opportunità di partecipazione diretta con i propri simili, nell’ambito di comunità territoriali. Non riuscire a farlo significa rischiare una massiccia degenerazione della capacità dell’uomo di essere in contatto con gli altri al livello più profondo dell’esperienza personale. Cioè, in ultima istanza, la perdita di umanità”.
E questa visione critica dell’opulenza occidentale attraversa ormai tutti gli schieramenti politici, e accomuna personalità molto distanti dal punto di vista della ormai obsoleta divisione tra una destra e una sinistra di tipo tradizionale. Giulio Tremonti, ad esempio, svolge analisi per molti aspetti analoghe a quelle di Rifkin, quando dice: “Il fantasma della povertà sta bussando alle nostre porte. Il fantasma della povertà materiale, ma soprattutto il fantasma della povertà spirituale, la madre di tutte le povertà.” E lo psichiatra inglese Ronald Laing, già verso la metà degli anni ’70, doveva utilizzare addirittura un linguaggio profetico e apocalittico per descrivere adeguatamente la desolazione psichica e spirituale dei nostri paesi “ricchi”, laici, scientifici, e tecnologicamente avanzati, come si suole dire: “Viviamo in un mondo secolare. Per adattarsi a questo mondo il bambino abdica alla sua estasi (L’enfant abdique son extase, Mallarmé). (…) C’è una profezia in Amos secondo cui verrà un tempo in cui si verificherà una carestia sulla terra, ‘non fame di pane, non sete di acqua, ma fame e sete di udire le parole di Dio’ Questo tempo è giunto, è l’epoca che viviamo”.
Fame di pane e fame di parole
Ci troviamo dunque a vivere su un pianeta spaccato a metà lungo tracciati e frontiere non sempre geografici, ma interni alle medesime aree geopolitiche e a volte alle stesse città: da una parte ci sono i poveri che hanno fame di pane, che vivono la loro quotidiana lotta per la semplice sopravvivenza in un mondo lontanissimo dalle connessioni satellitari e dagli schermi dei computer; mentre dall’altra ci sono i ricchi, morti anch’essi di fame, ma non di pane, quanto di parole, perché l’essere umano non vive di solo pane, ma anche del significato che è in grado di dare alla propria esistenza. Come diceva Simone Weil si può morire anche di fame di parole, perché le parole illuminanti, e capaci di dare senso alle cose, sono necessarie quanto l’acqua di fonte e il pane quotidiano.
Che cosa ci vuole indicare questa visione di un mondo spaccato in due metà, che comunque, in un modo o nell’altro, stanno morendo di fame? Sono immiserite fino all’esaurimento e all’autodistruzione? E poi queste due forme di fame sono forse in qualche modo collegate?
Io credo che questa situazione paradossale, acutizzata dalla globalizzazione delle telecomunicazioni, che ci mette tutti i giorni in contatto diretto con tutte le povertà del mondo e in tempo reale, e lascia così specchiare le due metà una nell’altra senza più filtri o distanze protettive, ci stia mostrando con evidenza crescente e ormai anch’essa insostenibile, che siamo per davvero arrivati ad un punto limite, ad una soglia, ad un bivio tra una serie di catastrofi economiche e sociali irrefrenabili e un radicale rinnovamento del progetto generale di sviluppo che ancora guida il nostro mondo. Forse dovremmo incominciare a comprendere che è la straordinaria povertà di parole e di pensiero dei ricchi che produce la povertà di pane dei miseri della terra, o che almeno non è in grado di porvi alcun rimedio decente. Forse dobbiamo renderci conto che è venuto il tempo di elaborare una grande rivoluzione culturale per mettere mano all’edificazione di una nuova stagione della storia del pianeta, l’epoca in cui i processi di unificazione tra i popoli dovranno accelerarsi ed essere guidati però da una coscienza capace di pensare globale-mente, e non più egoistica-mente. In tal senso scrive giustamente Benedetto XVI nella sua ultima Enciclica Caritas in veritate (da ora CV): “Ciò richiede una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo”(n. 32).
Verso una nuova antropologia dell’uomo relazionale
Per cui ben venga l’Anno europeo di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, ma dovremmo dirci ormai con estrema chiarezza che i problemi planetari odierni non posseggono alcuna soluzione sul piano dell’attuale antropologia dominante, che interpreta ancora l’uomo come atomo individuale, auto-mobile chiusa nel suo guscio di carne, sulla scia di un tardo illuminismo post-marxista (e ormai del tutto nichilista), ma richiedono un vero e proprio salto di coscienza che ci conduca a comprendere la natura sostanzialmente relazionale dell’essere umano, il nostro essere cioè intrinsecamente interconnessi con tutti e con tutto il creato. Sono proprio i paradossi della globalizzazione a spingerci verso questo salto di coscienza e di umanità, come ha ribadito ancora il Papa: “l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione” (CV n. 53).
La nuova umanità relazionale, che sta nascendo nei travagli di questi decenni, comprenderà in altri termini che l’essere umano è di per sé un’apertura globale di relazioni, per cui ognuno di noi è sostanzialmente, e non solo ideologicamente o moralmente, ma fisicamente, ontologicamente connesso con gli affamati del Sud del mondo o con i perseguitati del Darfur. La Rivelazione cristiana ce lo ha sempre detto che in fondo siamo tutti UNO, ma è come se adesso questa consapevolezza stesse diventando evidenza collettiva, storico-culturale, spettacolo televisivo, apocalissi quotidiana, quasi a prescindere da qualsiasi adesione di fede. Insomma lo constatiamo ogni giorno su Internet o alla TV che i vulcani islandesi determinano i nostri viaggi aerei a Roma o a Londra, e che una catastrofe a Cernobyl o in Cina prima o poi ripercuoterà i suoi effetti distruttivi su tutti noi. E’ come se la coscienza messianica dell’unità del genere umano stesse diventando la sostanza occulta della cronaca dei nostri giorni, ed è proprio questo che noi cristiani dovremmo annunciare ai nostri fratelli non credenti o diversamente credenti: che la spaventosa accelerazione a volte anche catastrofica dei processi di unificazione planetaria in atto possiede un profondissimo dinamismo messianico: è cioè propriamente una nuova umanità che si sta facendo strada tra le rovine della vecchia.
Una coscienza paleolitica è ancora al comando del mondo?
Oggi è perfino la fisica, la scienza esatta e sperimentale per eccellenza, che ci spiega l’interconnessione globale di tutto col tutto, come in queste parole del fisico Erwin Schroedinger: “Per quanto possa sembrare inconcepibile al senso comune, voi, e tutti gli altri esseri senzienti, costituite un tutto indivisibile”. Ma come può questa intuizione, mistica e scientifica al contempo, diventare coscienza diffusa, cultura, e quindi anche nuova progettualità politica mondiale?
Questo mi sembra oggi l’unico autentico problema: sussiste ancora un dislivello spaventoso tra le acquisizioni più avanzate del nostro sapere, rafforzate dalle impellenze strategiche di sopravvivenza planetaria da una parte, e gli strumenti mentali e politici che siamo ancora in grado di mettere in campo dall’altra. E’ come se un uomo del paleolitico dovesse affrontare i problemi del traffico di una metropoli contemporanea o della guida di un Boering 707… non saprebbe letteralmente dove mettere le mani…esattamente come noi…
Il problema allora sembra proprio di livello antropologico: ci troviamo in un momento cruciale dello sviluppo del pianeta in cui i processi stessi di unificazione ci costringono a passare da una cultura egoica-mente orientata (e cioè guidata da una visione parziale sia individualistica che nazionalistica), ad una cultura globale-mente ispirata. E questo passaggio implica “un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo”(CV n. 53). A condizione, verrebbe da aggiungere, che questa stessa metafisica e questa stessa teologia siano realmente in grado di pensare in modo trans-egoico, di liberarsi cioè dalla secolare tendenza a fare anche di Dio un oggetto di possesso concettuale (ego-centrato), e di aprirsi finalmente alla novità di un pensiero che è il Respiro stesso dell’Infinito Atto creativo di Dio.
In tal senso vale la pena di leggere per intero questo intenso passaggio dello psichiatra americano Stanislav Grof: “Tutti noi abbiamo il dubbio privilegio di vivere in un’epoca in cui il dramma del mondo sta raggiungendo il suo culmine. La violenza, l’avidità, il desiderio di possedere, che hanno modellato la storia umana nei secoli passati, hanno raggiunto proporzioni tali che non solo potrebbero facilmente condurre alla distruzione completa della specie umana, ma addirittura allo sterminio di tutta la vita su questo pianeta. L’impegno diplomatico, politico, militare, economico ed ecologico per correggere il corso degli eventi sembra peggiorare le cose, anziché migliorarle. Non potrebbe darsi allora che i nostri sforzi durante il tempo di pace falliscano perché nessun tentativo si indirizza in quella dimensione che è invece proprio al centro dell’attuale crisi globale : la psiche umana ?(…) Il maggiore ostacolo che dobbiamo fronteggiare in quanto specie si trova nel presente livello di evoluzione della nostra coscienza. E’ questa la causa primaria del saccheggio privo di senso delle risorse naturali, dell’inquinamento delle acque, dell’aria, del suolo e del vergognoso spreco di un’incredibile quantità di denaro e di energie nella follia della corsa agli armamenti. Ecco perché è importante capire quanto più è possibile le dimensioni psicologiche e spirituali della situazione che noi tutti ci troviamo ad affrontare.”
Una grande rivoluzione culturale
La figura di umanità ego-centrata, scientistica e materialistica, sta tracollando tra orrori e spot pubblicitari, davanti allo spettacolo insostenibile di uno sterminio quotidiano che potrebbe essere in gran parte evitato se solo diminuissimo di qualche punto percentuale gli immensi investimenti economici che oggi più che mai impieghiamo in armamenti sempre più sofisticati, come ci ripete da tempo il bengalese Muhammed Yunus, premio Nobel per la pace.
Si avvicina il tempo di una straordinaria rivoluzione culturale, di un vero e proprio passaggio di coscienza, attraverso il quale comprenderemo l’unità sostanziale del genere umano e la sostanziale apertura di ogni persona verso questa unità, il nostro essere cioè in relazione spirituale con questa unità: “La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale” (CV n. 55).
Tutto ciò non viene e non verrà mai per vie naturali, ma richiede e richiederà una lunga e nuova pedagogia dell’uomo. Noi tutti infatti siamo immediata-mente egoisti e antiglobali, per cui il mutamento della nostra mente, la metanoia trans-egoica, come la tradizione cristiana ci ha sempre insegnato, è un processo continuo. Questo processo meta-noico chiede oggi, grida addirittura di diventare il dinamismo stesso della storia. Vediamo con chiarezza che non abbiamo reali alternative: o ci dirigiamo consapevolmente e liberamente in questa direzione di ampliamento spirituale della coscienza, oppure precipiteremo in conflitti e in guerre di imprevedibile durata e asprezza.
Di conseguenza dovremmo incominciare a operare su diversi piani contemporaneamente, e mentre tentiamo di prendere come comunità internazionale quei provvedimenti che risultino di immediata urgenza, dovremmo alimentare con forza l’elaborazione di una nuova cultura della trasformazione e della trans-figurazione dell’uomo verso la sua figurazione globale.
L’emersione di questa nostra figurazione trans-egoica e relazionale di umanità implica poi un rinnovamento dell’intero settore educativo, che aiuti il bambino ma anche l’adulto a comprendere la propria lotta interiore tra la chiusura egoistica e l’apertura spirituale e relazionale: tra paura e amore, cioè, tra schiavitù e liberazione, e tra morte ed eternità in definitiva, in quanto alla fine solo la speranza nella vittoria sulla morte può donarci il gusto di una libertà senza condizioni: “Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione dell’anima dell’uomo (…) Lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale, perché la persona umana è un’unità di anima e corpo, nata dall’amore creatore di Dio e destinata a vivere eternamente. L’essere umano si sviluppa quando cresce nello spirito, quando la sua anima conosce se stessa e le verità che Dio vi ha germinalmente impresso, quando dialoga con se stesso e con il suo Creatore.” (CV n. 76)
Ma questa educazione spirituale della nuova umanità è ancora ben lungi dall’essere praticata, e anche la Chiesa vive un profondo travaglio di rigenerazione dei propri itinerari iniziatici e formativi.
Solo questo riorientamento dell’educazione dell’uomo, in senso trans-egoico e spirituale, potrà però dar vita a progettazioni anche politiche concrete in grado di trasformare radicalmente i rapporti tra le diverse aree del pianeta, e quindi di dare una definitiva soluzione anche ai problemi della povertà.
Solo un mondo in via di unificazione permanente, creato da una coscienza umana a sua volta orientata alla propria dilatazione permanente verso l’unità e la pace, potrà incominciare a saziare la fame di pane e la fame di parole che ci rende tutti poveri e stanchi, tristi e depressi.
Ci troviamo nel punto fatale della storia planetaria in cui siamo chiamati ad un immenso sforzo creativo, ad un’inedita avventura dello spirito, che ogni istituzione storica potrà o favorire o ostacolare, così come ognuno di noi potrà o schierarsi dalla parte dell’Uomo Nascente o mettersi dalla parte delle forze oscure, mortifere e mortificanti, del Morente.
Il tempo delle decisioni è giunto a maturazione.
Rallegriamocene e mettiamoci al lavoro.
Articolo pubblicato nella Rivista “Formazione e Lavoro”, n.2/2010