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Il tempo di ricominciare

Globalizzazione e Nuova Evangelizzazione


Premesse: riaprirsi alla gioia della ricerca e alla fede come ricerca della gioia

Credo che sia importante avviare la nostra riflessione con una tonalità emotiva appropriata, e cioè col tono giusto, che non può che essere quello della speranza e della ricerca gioiosa. Noi desideriamo, infatti, approfondire in questo tempo tumultuoso la nostra esperienza di fede soltanto perché questa esperienza fondamentalmente ci rende più felici. L’esperienza spirituale, in altri termini, non è che la liberazione e l’espansione in noi di uno Spirito, che è poi quello della gioia, della pace, e della capacità di amare (Gal 5,22). Per cui questa esperienza ci si offre come la più piena realizzazione della ricerca umana della felicità. Solo per questo ci attira e continua ad affascinare gli uomini.

Non dimentichiamocelo mai, non seppelliamo questo Spirito, questo Fuoco vivo sotto strati troppo pesanti di cenere, e cioè di concettualità astratte e ben poco entusiasmanti. Non riduciamo l’esperienza della fede a moralismo, o peggio a etica sociale, perché in tal modo ne perderemmo il fascino e il senso finale, come ci ricorda di continuo Benedetto XVI: “Nei decenni successivi al Concilio Vaticano II alcuni hanno interpretato l’apertura al mondo non come un’esigenza dell’ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l’uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione. (…) Inconsciamente si è caduti nell’autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano; i nostri contemporanei, quando s’incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun’altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto”.

Forse la crisi della fede che stiamo attraversando ci segnala proprio una carenza di vita spirituale autentica e sorgiva, e quindi di gioia credibilmente vissuta e splendidamente testimoniata, ed il bisogno straziante di un’esperienza più diretta del divino.

Dobbiamo inoltre ricordare che la gioia dello Spirito sorge spesso proprio dalla nostra comprensione della realtà, dalla nostra capacità di penetrare nei misteri della vita e della storia con la luce potente di un pensiero appunto ispirato, illuminato dalla Parola di Dio, e quindi capace di vedere e di capire. L’anima umana, infatti, ama capire, è stata creata per conoscere, e anela quindi alla luce della vera conoscenza.
Dobbiamo perciò ritrovare e trasmettere anche la potenza conoscitiva che ci offre la nostra fede in Cristo, affinché la nostra gioia spirituale sia piena, e pienamente comunicabile.

Dunque, anche per tentare di rispondere alla domanda che ci chiede come possiamo vivere e rilanciare la fede cristiana in questo nostro tempo, dobbiamo prima affrontare alcune questioni preliminari, dobbiamo in un certo senso preparare uno spazio riflessivo adeguato, predisporre i presupposti di un’operazione conoscitiva seria, che ci faccia appunto capire per davvero ciò di cui parliamo, e quindi gioire della luce di una conoscenza che ci soddisfi.

La sensazione che si ha, infatti, è che uno dei caratteri prevalenti della nostra società contemporanea sia proprio la confusione mentale, il pressapochismo culturale, addirittura la rinuncia a pensare e a interrogarsi, e specialmente intorno alle grandi questioni relative alla natura dell’uomo, al nostro destino terreno, a ciò che possiamo sperare e conoscere, alla specificità della fede cristiana rispetto alle altre religioni e così via. Mi sembra che l’attuale configurazione dominante del relativismo nichilistico coincida proprio col trionfo della pura e semplice Babele delle lingue: una baraonda di opinioni infondate e contraddittorie che si scontrano sui palcoscenici ormai planetari della comunicazione di massa, senza più alcuno sforzo di chiarificazione dei concetti o di onesta ricerca di una verità più fondata. Un allarme questo che Benedetto XVI lancia quasi in ogni occasione: “Paolo VI notava che ‘il mondo soffre per mancanza di pensiero’. L’affermazione contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero” (Caritas in veritate n. 53).

Per cui oggi più che mai siamo innanzitutto provocati a porci domande appropriate e a ricercare risposte adeguate se vogliamo inquadrare qualsiasi problematica in modo serio, rifuggendo quella tentazione riduttivistica e minimalistica, che regna incontrastata nella cultura dominante.
Abbiamo, in altri termini, urgente bisogno di nuove grandi visioni per uscire da questo impantanamento epocale: “ciò di cui avvertiamo il bisogno è di una visione, che ci permetta di guardare al domani con gli occhi della speranza, senza le lacrime della disperazione” (Sinodo dei Vescovi XIII Assemblea Generale Ordinaria, La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, Lineamenta, cit., pag. 97).

Le interpretazioni unilaterali del tempo presente

Chiediamoci subito perciò: ma insomma noi in quale fase della storia ci troviamo? Come possiamo interpretare in modo unitario e coerente questo momento storico così complesso, estremo, e contraddittorio, utilizzando chiavi interpretative non superficiali?

Attualmente circolano nel mondo due chiavi di lettura prevalenti: una laica ed una religiosa.
Da parte laica oggi si sottolinea quasi universalmente un grande smarrimento: sono finiti nel dimenticatoio i racconti ottimistici della modernità, le ideologie illuministiche e marxistiche sono ormai sprofondate nei loro catastrofici fallimenti, e anche quel progetto di liberazione che chiamiamo democrazia vive una crisi profonda, spesso ridotto a procedure formali senza anima e a tecnocrazie mercantili, mentre tutte le illusioni progressiste dell’Ottocento e del Novecento, fondate sugli sviluppi scientifico-tecnici, si ridimensionano ogni giorno di più. Predomina insomma un crescente sospetto su tutti e due i pilastri della razionalità moderna, sulla politica e sulla scienza, e si diffonde perciò un mesto e cupo nichilismo, accompagnato da fiacchi tentativi di costruire una qualche etica laica autonoma. Il mondo laicista sembra consegnarsi ormai quasi unanimemente, e senza più alcuna resistenza morale, ai dettami della tecnocrazia e del mercato, ad un materialismo disperato cioè, privo perfino di quelle speranze illusorie in un’emancipazione finale e tutta terrena dell’uomo, che sopravvivevano fino a ieri alla luce di uno sbiadito e torbido e quasi sempre insanguinato Sol dell’avvenire…

Da parte religiosa, d’altronde, e anche da parte cristiana e cattolica, prevalgono spesso analoghe prospettive negative, sia pure interpretate e valutate in altro modo. Le tradizioni spirituali infatti concordano quasi tutte nel condannare il nichilismo materialistico e consumistico, individualistico e disperato, in cui sta precipitando la civiltà occidentale nel suo moto di espansione planetaria. Sorgono perciò in ogni parte del pianeta, in Europa come in Asia, nelle Americhe come in Africa, molteplici moti di riflusso e di rivolta “religiosa” contro la modernità, che abbiamo denominato fondamentalismi. Ma, anche senza assumere i caratteri regressivi e talvolta violenti di questi movimenti, perfino noi cattolici parliamo del nostro tempo quasi sempre in termini negativi, come un tempo di scristianizzazione, di secolarizzazione, di perdita del senso della fede, del peccato, e così via: “Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante” (Lineamenta, cit., pag. 29).

Noi però desideriamo andare più in profondità rispetto a queste letture un po’ troppo unilaterali del tempo contemporaneo, e perciò ci chiediamo: ma perché sta succedendo tutto questo? Perché è entrato in crisi il progetto scientifico e politico della modernità, che pure portava e porta ancora con sé tante spinte evolutive? Perché il cristianesimo storico fa fatica a parlare in modo convincente e avvincente della sua fede e delle sue speranze, tanto che dobbiamo avviare una Nuova Evangelizzazione? E poi, andando ancora più a fondo: perché tutte le istituzioni antropologiche sembrano prese in un vortice di trasformazioni senza precedenti: dal matrimonio agli stati nazionali, dalla chiesa alla scuola, dalle aggregazioni politiche all’esercito? che cosa indica questa specie di terrae-motus universale? Soltanto una perdita? Stiamo per davvero precipitando nel nulla e nel caos dell’insensatezza, oppure proprio attraverso questa crisi dolorosissima stiamo faticosamente compiendo un passaggio evolutivo straordinario, e stiamo vivendo quasi una nuova nascita per la nostra umanità? Possibile che per ora si possano ascoltare quasi soltanto le voci di ciò che in questa crisi sta morendo, del Morente cioè, mentre la voce sottile dell’Uomo Nascente sembra ancora così fievole e inascoltata? Ma i cristiani non credono di essere proprio la Voce di questa Nuova Umanità Nascente, non siamo noi proprio il suo Corpo Sorgente che vince su tutta la storia, e risorge da tutte le sue morti e sconfitte e catastrofi millenarie?

La globalizzazione come sfida antropologica

Andiamo dunque avanti con molta cautela, e proviamo a rispondere a queste complessissime domande partendo dall’osservazione di un fenomeno del tutto evidente: l’unificazione in atto del pianeta. Vediamo se l’osservazione di questo fenomeno ci può offrire qualche chiave di lettura più convincente del senso evolutivo della fase critica in atto. Questo fenomeno di unificazione planetaria viene oggi chiamato globalizzazione, ma dovremmo ricordare che, guardando indietro nella storia in una prospettiva millenaria, l’unificazione del pianeta sembra un po’ l’esito inevitabile di un processo inscritto fin dall’inizio nella vicenda umana. E’ come se l’intera avventura terrestre dell’umanità procedesse ineluttabilmente verso aggregazioni sempre maggiori, e quindi potenzialmente verso la costituzione di un’unica comunità mondiale organizzata. Basti pensare che intorno al 1000 a.C. le comunità umane erano circa 500 mila, nel V secolo a.C. si erano già ridotte a 200 mila, mentre oggi sono circa 200, per cui, prolungando questa curva, più o meno entro il 2300 dovremmo avere un’unica entità statale.

Oggi l’unificazione del pianeta è di fatto già una realtà operativa, almeno a livello di comunicazione telematica e di movimenti economici e finanziari, ma ci troviamo a vivere un paradosso sempre più evidente nelle sue conseguenze catastrofiche: siamo cioè sempre più unificati, da un certo punto di vista, ma siamo tuttora governati da stati e da organizzazioni finanziarie che sono guidati e ispirati da prospettive tutt’altro che globali. Un mondo in via di unificazione dovrebbe essere invece governato da visioni e progetti ispirati alla difesa degli interessi globali, di tutti appunto, e non da menti radicalmente egoistiche e particolaristiche che non comprendono, e anzi di fatto contraddicono e violentano l’interconnessione organica planetaria che si sta edificando.

In tal senso Benedetto XVI scrive nel n. 42 della sua Enciclica Caritas in veritate: “E’ bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz’altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l’unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c’è la realtà di un’umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all’assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità. (…) La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene”.

Dunque i problemi economici ed ambientali, di giustizia e di pace, che abbiamo dinanzi sono quasi tutti globali ormai e richiedono perciò una maggiore coscienza globale e una più incisiva capacità di governo della globalità, e quindi in definitiva un nuovo pensiero, una nuova antropologia dell’uomo interconnesso e appunto globale, dell’uomo relazionale cioè, che si realizza non contro gli altri o separandosi dagli altri, ma entrando nei faticosi processi trasformativi che ogni autentica relazione comporta. Ecco perché Benedetto XVI ribadisce che in questa fase di globalizzazione e di integrazione planetaria urge “un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione” (Caritas in veritate, n. 53), “per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria” (n.42).

Insomma solo un uomo più consapevolmente relazionale, e quindi meno egoisticamente bellico, potrà orientare i processi di globalizzazione in senso evolutivo, e quindi potrà anche evitare gli esiti catastrofici che l’attuale direzione politico-economica mondiale sta invece producendo, mettendo a rischio lo stesso futuro della nostra specie e del mondo.
Ma dobbiamo anche renderci conto però dell’inaudita novità di queste nostre affermazioni.
La storia planetaria che conosciamo, infatti, è stata preminentemente guidata dalla figura bellica della nostra umanità, mentre solo pochi sapienti e rarissimi santi hanno incarnato e testimoniato la verità relazionale dell’essere umano, ponendola a fondamento della loro esistenza.

La fine della figura egoico-bellica di umanità

E allora? A questo punto della nostra riflessione siamo forse in grado di comprendere un po’ meglio che cosa stia accadendo in questo momento cruciale della storia del pianeta terra?
Io credo di sì, e credo perciò che possiamo azzardare anche una nuova interpretazione della storia stessa, che proprio in questo momento sembra rivelarci una sua direzione precisa e cogente.

Noi, infatti, in questi ultimi decenni vediamo giungere a compimento tutti i principali cicli storici che abbiamo definito nelle nostre ricerche storiografiche, e precipitare tutti insieme nel medesimo punto di svolta: il Novecento dei totalitarismi e delle guerre mondiali, l’era industriale (1789-1989) con tutte le ideologie progressiste che ha generato, l’intero ciclo della modernità, e la stessa civiltà greco-cristiano-occidentale nel suo complesso. Ma molto più radicalmente ciò che sembra consumarsi è un’intera figurazione antropologica, che possiamo denominare appunto egoico-bellica o antirelazionale e quindi antiglobale, e che in realtà, come abbiamo già detto, ha dominato per tutta la storia che conosciamo.

Qui non ci possiamo soffermare troppo nella descrizione di questo fenomeno macro-storico, e rinviamo perciò alla bibliografia riportata in fondo a questo saggio ; ma ciò che desidero comunque ribadire è che in questi decenni ci si sta mostrando in modi ogni giorno più evidenti e drammatici che tutte le forme culturali, sociali, politiche, ed economiche, tutte le istituzioni antropologiche in cui abbiamo organizzato la nostra esistenza terrena, per quel tanto che si basano tuttora sulla modalità egoico-bellica (separativa-oppositiva) di essere dell’uomo, non sono più in grado di portare avanti l’evoluzione del genere umano. Tutte queste modalità di definire le diverse identità umane (essere maschio o femmina, italiano o europeo, di destra o di sinistra, nobile o plebeo, cristiano o buddhista, borghese o contadino, e così via) per contrapposizione, separazione, o esclusione, ci si mostrano cioè come sterili ed insostenibili, e portatrici in definitiva perciò di distruzione e di morte.

Ci troviamo quindi in un momento straordinario dello sviluppo dell’autocoscienza del genere umano, in cui siamo tutti urgentemente chiamati a purificarci delle modalità egoiche che tuttora distorcono le espressioni della nostra umanità, per rivestire modalità più relazionali, più libere cioè, e più felici.
Stiamo parlando in fondo di un processo, personale e storico-culturale al contempo, di profonda conversione, attraverso il quale ogni forma di vita, di convivenza e di conoscenza, ogni istituzione sociale o politica o anche ecclesiale, viene passata al vaglio, per rigenerarsi, e cioè per purificarsi dei propri elementi egoico-bellici e per aprirsi a modalità relazionali più unitive, e quindi più capaci di costruire mondi di pace.

La crisi antropologica come Giudizio Universale

Ecco perché tutto sembra entrare in crisi. Non è il matrimonio o la chiesa in sé, la democrazia o il progetto scientifico come tali che sono in crisi, ma le forme storiche egoico-belliche in cui abbiamo finora incarnato queste espressioni della nostra umanità. Non funziona più, ad esempio, non possiede più alcuna energia creatrice il progetto di fondare una democrazia su una presunta razionalità umana chiusa in se stessa, e quindi su una visione antropologica materialistica, monca e in definitiva bellica. E ancora, non ha più vita alcuna un matrimonio, che non si radichi su relazioni più profonde e più vere, ma pretenda di trovare ancora la propria solidità nella forza delle leggi o delle convenzioni sociali e religiose, e così via.

Chi però si fermi alla pars destruens del processo in atto può precipitare in un pericolosissimo relativismo assoluto, che finisce per negare ogni valore al passato, mentre la pars destruens, che critica radicalmente ciò che del passato non ha effettivamente più alcun futuro, è solo strumentale ad una più profonda rigenerazione dell’umano, e trans-figurazione di tutte le figure antropologiche che arrivano fino a noi. Da queste purificazioni degli elementi egoico-bellici, cioè, sta venendo alla luce un nuovo matrimonio più libero e più felice, una nuova vita consacrata più relazionale, una nuova democrazia più autenticamente globale, e così via, e non il deserto che la cultura nichilistica vorrebbe far dilagare nei cuori e su tutta la terra.

Per cui il relativismo della cultura dominante, che porta dritti dritti al trionfo del nonsenso e della morte, non lo vinciamo riaffermando o rafforzando strutture egoiche del passato, che dobbiamo invece imparare a lasciar morire fino in fondo, ma solo assumendo la sua forza critico-purificativa, facendo cioè nostre, con acuto discernimento però, le ragioni giuste che porta dentro di sé, e portando avanti così quelle rigenerazioni dell’umano che premono nel grembo della storia spingendoci tutti verso una nuova nascita.

Tutto viene perciò passato al setaccio in questi anni, e ci troviamo nel bel mezzo di un vero e proprio Giudizio Universale, in cui è la nostra stessa umanità che, crescendo nella propria autoconsapevolezza, pone sul banco degli imputati se stessa, e cioè le forme (egoico-belliche) in cui finora si è manifestata.

Questo è dunque il senso profondo e finale della svolta antropologica in atto.

Ed è in questa urgenza di rigenerazione, pressati da problematiche terminali e di sopravvivenza, che si manifesta la natura profondamente apocalittica di questo nostro tempo.
L’apocalitticità del tempo presente consiste cioè nel fatto che di anno in anno diventa sempre più evidente che non abbiamo più alternative concrete alla conversione della nostra mente da tendenzialmente egoico-bellica a più relazionale, più globale, e quindi in definitiva più spirituale.
La profezia apocalittica diventa così la cronaca di tutti i giorni, che ci spinge paradossalmente verso inediti orizzonti di rinnovamento, come ci insegna l’antropologo francese René Girard: “l’apocalisse non annuncia la fine del mondo, ma fonda una speranza. Chi apre gli occhi sulla realtà non cade nella disperazione assoluta dell’impensato moderno, ma ritrova un mondo dove le cose riacquistano un senso. La speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento”.

La lettura messianica della svolta in atto

Tutto ciò è abbastanza chiaro anche a molti laici, ed infatti si susseguono analisi e riflessioni di tipo sociologico, ecologico, psicologico, e politico che indicano la necessità di un radicale ed epocale cambiamento di rotta. Basti pensare, ad esempio, agli ultimi lavori del sociologo americano Jeremy Rifkin: “Ritengo che ci troviamo al punto di svolta verso una transizione epocale (..) e a un radicale riposizionamento della presenza dell’uomo sul pianeta”.

Noi cristiani però siamo chiamati ad apportare in questa discussione il contributo straordinario della nostra lettura messianica di questa fase, e cioè la considerazione che questa Nuova Umanità, meno bellica e più relazionale, che sta tentando di emergere in noi, non nasce dal nulla, ma è la medesima figura di umanità che il Cristo Gesù ha incarnato, testimoniato, e inseminato in noi duemila anni fa, e che proprio adesso si mostra come l’unica possibilità di sopravvivenza per la stessa specie umana.

Si apre perciò un tempo di annuncio dialogante o di dialogo annunciante, attraverso il quale noi cristiani possiamo aiutare i nostri contemporanei, non credenti o altrimenti credenti, a ricordare e a comprendere la storia dell’emersione concreta di questa nuova umanità sul pianeta terra, l’origine spirituale di questa umanità dal terreno fecondo della tradizione ebraico-cristiana, le fasi secolari del suo ambiguo affermarsi fino alla svolta della modernità, e a questo ADESSO cruciale, in cui l’Occidente cristiano si relaziona con tutte le altre tradizioni spirituali della terra, aprendosi a modalità inedite di influenzamento e fecondazione reciproci.

Per noi dunque questa fase di rivolgimenti non è che un’opportunità unica e irripetibile di rilanciare l’annuncio e la testimonianza della consumazione definitiva della vecchia figura di umanità egoica, bellica, e segnata dalla morte e dal peccato, che muore proprio affinché la nuova umanità di Cristo possa generarsi in noi e salvare la terra.
Un rilancio cioè del mistero battesimale, e del Vangelo della Nuova Umanità, che richiede appunto una fase di Nuova Evangelizzazione, che parta però innanzitutto dalla conversione dei cristiani stessi, e della stessa Chiesa.

La Nuova Evangelizzazione come tempo nuovo della Chiesa

Siamo noi cristiani cioè i primi destinatari di questa Nuova Evangelizzazione, siamo noi per primi chiamati a fare un’esperienza più radicale e più profonda del mistero della rigenerazione trans-egoica della nostra identità umana, per poter spiegare e testimoniare questo miracolo in modo credibile ai nostri contemporanei, che sono inconsciamente pressati nella stessa direzione.

Ecco perché Giovanni Paolo II sentì con forza l’esigenza di chiedere perdono per tutti quei comportamenti, egoico-bellici, che hanno deturpato il volto della Chiesa per secoli. Egli sentiva che la Chiesa non poteva entrare rinnovata nel Terzo Millennio, e quindi non poteva avviare una autentica Nuova Evangelizzazione, se contemporaneamente non si avviava un processo di purificazione radicale dalle forme egoico-belliche in cui i cristiani hanno spesso incarnato la loro fede. Il gesto profetico della richiesta di perdono, compiuto da Giovanni Paolo nella prima domenica di Quaresima del 2000, va perciò inteso come l’inizio di una storia ecclesiale rinnovata. Quel gesto infatti è un gesto unico nei 2000 anni di vita della Chiesa, proprio perché è un gesto di vero e proprio ricominciamento, come sottolineò con forza anche il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, redatto dalla Commissione teologica internazionale: “In nessuno dei giubilei celebrati finora c’è stata, tuttavia, una presa di coscienza di eventuali colpe del passato della Chiesa, né del bisogno di domandare perdono a Dio per comportamenti del passato prossimo o remoto. E’ anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti di richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal magistero.”

Il tempo della Nuova Evangelizzazione è dunque il tempo stesso della purificazione (trans-egoica) della Chiesa, del suo ricominciamento, entro il passaggio antropologico (anch’esso trans-egoico) che la Globalizzazione ci impone.
La Nuova Evangelizzazione è la risposta della Chiesa di Cristo al rinnovamento antropologico che la Globalizzazione avvia e richiede.
Ed è giusto che sia innanzitutto la Chiesa di Cristo ad aprirsi ad una più radicale conversione alla figura relazionale, globale, e spirituale di umanità, che dice di annunciare e di testimoniare sulla terra.

Non dobbiamo perciò proiettare subito fuori di noi l’urgenza del rinnovamento storico dell’esperienza della fede: “La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema i n maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che rigurada la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda”.
Questo testo dei Lineamenta del Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione (cit. pag. 12), mi pare di un’importanza fondamentale, in quanto sottolinea con forza che la Nuova Evangelizzazione mette in discussione innanzitutto la Chiesa nella sua attuale configurazione storica complessiva.

Il tempo di una Nuova Iniziazione al mistero di Cristo

Che cosa sta succedendo d’altronde all’interno del cristianesimo storico, preso anch’esso nel vortice di questo tempo di rivolgimenti? Che cosa osserviamo?
Noi vediamo un po’ dovunque una fortissima e progressiva crisi dell’adesione delle persone e dei popoli alle forme tradizionale della religiosità, che si manifesta innanzitutto come una caduta libera della frequenza ai sacramenti.
A fianco di questo fenomeno, riscontrabile tra l’altro in ogni tradizione religiosa e in ogni continente, cresce però un bisogno di spiritualità, di integrità, di salute, e di esperienza spirituale più diretta e personale, cui la Chiesa non sembra sempre in grado di corrispondere adeguatamente.

E’, per esempio, interessante notare che in Italia a fronte di uno scarso 25-30% di persone che frequentano la liturgia eucaristica settimanale, oltre il 40% dichiara di pregare ogni giorno o più volte al giorno, e un altro 30% alcune volte alla settimana, mentre più dell’80% continua a definirsi cattolico. Più del 50% degli italiani cioè si dice ancora cattolico, ma non ha quasi più nessun rapporto con la comunità ecclesiale.

C’è insomma una crescente fame di spiritualità che non trova risposte adeguate nelle forme liturgiche e nella catechesi ordinaria. Stiamo infatti tutti faticosamente passando da una religiosità preminentemente rappresentata ad una spiritualità più personalmente realizzata, e questo passaggio mette inevitabilmente in crisi le forme più estrinseche e meno intimamente vissute di religiosità.

Dobbiamo perciò rinnovare prima di ogni altra cosa tutti gli itinerari iniziatici, dalla catechesi dei bambini fino alla formazione permanente degli adulti, dei religiosi, delle suore, e dei presbiteri, affinché diventino luoghi di realizzazione personale dei misteri celebrati.
La Nuova Evangelizzazione non potrà mai innestare un processo serio di rigenerazione della fede, se non coinciderà con una Nuova Iniziazione permanente ai misteri della salvezza in Cristo.
Non a caso d’altronde la Conferenza Episcopale Italiana, negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, ci incita proprio in questa direzione: “In questo decennio sarà opportuno discernere, valutare e promuovere una serie di criteri che dalle sperimentazioni in atto possano delineare il processo di rinnovamento della catechesi, soprattutto nell’ambito dell’iniziazione cristiana. E’ necessario, inoltre, un aggiornamento degli strumenti catechistici, tenendo conto del mutato contesto culturale e dei nuovi linguaggi della comunicazione” (n. 54).

Questi mi sembrano allora i due punti fondamentali all’ordine del giorno della Nuova Evangelizzazione da lanciare in questo tempo di sfide globali:
1) innanzitutto elaborare una nuova e potente cultura messianica della trasformazione antropologica in atto;
2) rinnovare in base a queste nuove prospettive gli itinerari formativi, per aiutare le persone a vivere questa transizione antropologica nella gioia del Cristo Nascente. Per cui siamo chiamati ad aprire una grande stagione di sperimentazione e di discernimento di metodi iniziatici che integrino il grande patrimonio della nostra tradizione cristiana con tutte le acquisizioni culturali, psicologiche, e spirituali, che ci arrivano dalla modernità e dalle altre sapienze della terra.

E’ proprio per tentare di corrispondere a queste esigenze che abbiamo avviato nel 1999 la sperimentazione dei Gruppi “Darsi pace”, che si riuniscono a Roma, ma che sono ormai seguiti on line da ogni parte d’Italia e del pianeta.
In questi Gruppi tentiamo in un certo senso di formarci ad una trans-formazione permanente, integrando in modo inedito ed equilibrato 3 livelli formativi spesso separati tra di loro: quello culturale, quello psicologico ed esistenziale, e quello più propriamente spirituale. Tutti noi, infatti, abbiamo bisogno sia di chiavi interpretative forti e nuove del tempo presente inteso appunto come tempo messianico della “Cresima del Mondo”; sia di un accompagnamento personale per riconoscere e sciogliere le nostre specifiche difese/paure/resistenze (il nostro peccato) rispetto alle aperture richieste dal nuovo io relazionale emergente; sia di pratiche spirituali, anzi di una nuova centralità contemplativa che ci aiuti a nutrirci quotidianamente della pace, della gioia, e della potenza creatrice del Cristo Nascente, e del suo perdono Ri-Creatore.

La base teorica del nostro lavoro è costituita dalla Collana “Crocevia”, che abbiamo aperto in collaborazione con le Edizioni Paoline nel 2004, e che ha già pubblicato 13 volumi.

Allora, per concludere la nostra riflessione con lo stesso spirito con cui l’abbiamo incominciata, possiamo dire che questo nostro tempo così estremo e pericoloso ci appelli ad un rinnovamento spirituale senza precedenti, ad aprirci con nuovo entusiasmo, con grande umiltà e sconfinata fiducia alla potenza rigeneratrice dello Spirito, che pretende proprio adesso di fare nuove tutte le cose: “Nuova evangelizzazione è allora sinonimo di missione; chiede la capacità di ripartire, di oltrepassare i confini, di allargare gli orizzonti. La nuova evangelizzazione è il contrario dell’autosufficienza e del ripiegamento su se stessi, della mentalità dello status quo e di una concezione pastorale che ritiene sufficiente continuare a fare come si è sempre fatto. Oggi il ‘business as usual’ non basta più. Come alcune Chiese locali si sono impegnate ad affermare, è tempo che la Chiesa chiami le proprie comunità cristiane ad una conversione pastorale in senso missionario della loro azione e delle loro strutture” (Lineamenta, cit., pag. 44).