L’autoreferenzialità della cultura dominante
e il balbettio dell’umanità nascente
Uno dei sintomi più evidenti della crisi terminale in cui versa la nostra civiltà consiste nel predominare in ogni ambito della cultura di linguaggi senza incontro. Che cosa intendo per linguaggi che non incontrano più nessuno? Intendo riferirmi innanzitutto a discorsi sempre più autoreferenziali, discorsi, anche molto interessanti, che però il più delle volte presuppongono la conoscenza di un codice prestabilito, di un idioma che non si rivolge più all’umano come tale, ma solo a quel frammento di umanità, a quello spezzone di corpo che quella determinata specializzazione circoscrive e seziona. Questa vivisezione del linguaggio, e quindi del vero organismo umano, segnala l’incapacità degli attuali settori creativi di esprimere la figurazione nascente di umanità, la sua nuova integrità, e di darle direttamente voce. Non sapendo dare voce al Corpo Nascente i linguaggi della cultura dominante si frantumano sempre di più dando voce a pezzi e frattaglie del corpo morente della figura antropologica di umanità che appunto si sta sfaldando davanti agli occhi di tutti cor-rompendosi. E così molti filosofi e teologi si rivolgono ormai solo ai loro colleghi o agli studenti che sono costretti a leggerli, oppure delirano sui giornali uscendosene in affermazioni di una superficialità a volte agghiacciante; quasi tutti i politici riducono sempre di più l’orizzonte dei loro progetti e delle loro visioni, facendo della riflessione politica (che di per sé è un’antropologia pratica) un agone di tipo strettamente tecnico-economico-finanziario; troppi artisti e poeti creano poi le loro confraternite, i loro circoli chiusi (e viziosi), parlando ossessivamente “di arte” o “di poesia” e litigandosi il primato in una gara da tempo annullata, mentre gran parte della produzione libraria precipita serenamente nell’ambito dell’industria dell’intrattenimento, e così via.
L’altro aspetto che caratterizza i linguaggi terminali che non incontrano più l’umano consiste nel fatto che essi ci coinvolgano solo a pezzi. Certi discorsi “religiosi”, per esempio, o certe prediche pronunciate quasi “in falsetto”, parlano solo a certe parti della nostra testa (nel migliore dei casi), o a ciò che noi crediamo essere la nostra parte “spirituale”. Mentre li ascoltiamo o li leggiamo perciò sentiamo che almeno due terzi del nostro corpo, del nostro sangue, delle nostre viscere, e delle nostre emozioni non sono affatto coinvolti, ma anzi risultano come congelati, scissi da noi, e rimossi in qualche angolo buio del nostro spazio interiore. Questi discorsi insomma letteralmente ci dis-integrano, non meno di quelli pubblicitari, e noi cristiano-occidentali siamo purtroppo educati da secoli a questa forma alienante e dolorosa di scissione interiore.
In questo lungo e doloroso tramonto delle culture sezionanti dell’ego cristiano-occidentale sta però faticosamente emergendo un altro dire che prova nuovamente a rivolgersi alla nostra umanità come tale, stiamo lentamente pro-creando una parola semplice, ma dotata di una semplicità di secondo grado, nel senso che essa porta con sé, in forma distillata, direi come essenza e profumo, tutta la ricchezza e la complessità culturale che giunge fino a noi, comunicandola però nella sintesi semplice che il Nascente in ciascuno di noi comprende (e produce) senza troppe mediazioni. Già lungo il XX secolo tutte le opere davvero innovative hanno trasgredito le ripartizioni storiche delle discipline entro le quali erano nate creando sintesi inedite: e così l’opera filosofica che inaugura il ‘900 è un poema: lo Zarathustra di Nietzsche, e l’intera storia della filosofia occidentale va a compiersi nelle interpretazioni (esse stesse poetiche) dei versi di alcuni poeti compiute da Heidegger al di là di ogni filosofare classico; psichiatri poi come Freud e Jung, proprio perseguendo i loro specifici intenti terapeutici, finiscono per interessarsi dei miti greci, del monoteismo ebraico, di alchimia, del I Ching, o degli UFO; i più grandi fisici, al contempo, da Einstein a Schroedinger, fino a Heisenberg o a Bohr ci offrono visioni della realtà che sconfinano in esperienze mistiche; mentre mistici come Teilhard de Chardin inseriscono le prospettive della scienza più avanzata entro le loro visioni escatologiche, e politici rivoluzionari come Gandhi coniugano le prassi più efficaci di liberazione dei popoli con la mistica della non-violenza e del digiuno. E dove collocare poi i libri di Simone Weil o i testi poetici di René Char o le riflessioni ecclesiologiche di Bonhoeffer? Sono filosofia? Teologia? Diaristica esistenziale? Profezia? Psicologia trans-personale? Strategia rivoluzionaria? E poi sono ricerche “laiche” o “religiose”? Oppure queste differenze e queste ripartizioni da autopsia del linguaggio e dell’uomo semplicemente non funzionano più, in quanto le opere creative che abbiamo citato coniugano indissolubilmente e in modo nuovo questi ambiti un tempo ben separati? Insomma in quale scaffale delle nostre vecchie librerie, e delle nostre menti così antiquate, e ancora ben suddivise in settori disciplinari d’altri tempi, dovremmo inserire Dello spirituale nell’arte di Kandinskij o Mysterium coniunctionis di Jung o i Diari di Etty Hillesum o L’universo intelligente di Fred Hoyle, ma anche Obbligo di luce di Celan o Dall’esperienza del pensiero di Heidegger o i Quaderni di Simone Weil, insomma quei pochi libri del XX secolo che davvero resteranno e che ci aprono al nuovo millennio?
Questo scaffale in realtà ancora non c’è in questo mondo, perché è lo scaffale dell’Uomo Nascente.
Il linguaggio (e quindi la cultura) della nuova figura di umanità, che sta nascendo in ciascuno di noi, non possiede, in altri termini, alcuna collocazione definita entro il sistema dei saperi appartenente all’era antropologica che si sta compiendo, ed in tal senso il Nascente letteralmente non è di questo mondo. Per cui per ora nasce solo ai crocicchi, ai crocevia dei vari linguaggi disciplinari rimessi in movimento, destabilizzati. Nasce cioè in luoghi, o, forse meglio, in non-ancora-luoghi, in zone franche in cui le parole tornano ad essere poetiche, ad essere invenzioni, illuminazioni, scoperte, lampi, sintesi, appunto progetti di umanità e di mondo. Solo lì possiamo tornare ad incontrarci nella globalità della nostra umanità nascente. Solo lì perciò possiamo costruire (o ricostruire) relazioni pregne di futuro.
Questa trasmigrazione verso l’Ignoto Vivente comporta necessariamente corposi rischi di approssimazione e anche di errore: non possiamo pretendere d’altronde di fondare scientificamente, e quindi di controllare o di legittimare con gli strumenti concettuali del passato, la nascita in corso, possiamo viceversa solo sperare di concepirla quasi al buio, e di seguire fedelmente e umilmente le fasi della gravidanza che induce in noi. A questa concezione e a questa lunga e a volte faticosa gravidanza dovremmo interamente dedicare le nostre ricerche, affinché il Nascente inizi a parlare, a farsi cultura condivisa, e a donarci il senso della nostra nuova integrità. Quando questo avverrà in misura significativa una incredibile primavera di entusiasmo e di gioia esploderà sul pianeta, e le donne e gli uomini impareranno ad incontrarsi con inaudita intensità, proprio come esseri nascenti, fiorenti, in piena rivelazione, e impareranno anche a dedicare la loro arte, la loro sapienza, e tutte le loro tecniche solo a questo scopo: a favorire, in se stessi e tra di loro, la nascita della figura trans-egoica e quindi post-bellica di umanità.
“Per un’immensità di tempo abbiamo circolato e sanguinato soltanto per captare i tratti di un’avventura comune” (René Char)