Introduzione al pensiero
di Maurice Bellet
Sono davvero felice che esca questo libro di Maurice Bellet entro la nostra collana Crocevia (Il pensiero che ascolta, Ed. Paoline 2006). Pochi autori infatti corrispondono altrettanto bene al progetto culturale che ci proponiamo, sia per l’analisi che egli fa della assoluta singolarità della crisi che stiamo attraversando, sia per il tentativo di uscirne attraverso una ricerca di sintesi inedite, di linguaggi nuovi. C’è un aneddoto che illustra bene l’avventura creativa di Bellet, sempre tesa a superare le ripartizioni abituali dei saperi: “Un libraio, non sapendo dove collocare i miei libri, li aveva messi tra i taoisti contemporanei: la cosa non mi dispiaceva affatto!”. E’ quella che amo chiamare la incollocabilità dell’umanità nascente, e anche la sua nuova semplicità, di secondo grado, capace di portare con sé, nel suo dire nuovamente vitale, le grandi correnti del pensiero che giungono fino a noi.
E così Bellet ci parla semplice-mente delle sfide che abbiamo davanti, ma la sua parola è pregna di tutta la sapienza filosofica, teologica, e psicoanalitica che lo ha nutrito. Forse è proprio tanta ricchezza e un così alto rischio intellettuale che rendono Bellet poco conosciuto in Italia. Ancora predominano infatti le piccole visioni, le prospettive rinunciatarie, di bassissimo profilo, o i velleitarismi di tante inutili crociate, fuori tempo, fuori luogo, e quindi paurosamente inadeguate a rispondere alle reali sfide della storia.
Per Bellet infatti la sfida è davvero radicale e definitiva: “a essere in questione è la fine di un mondo, proprio quando questo può sembrare al suo apogeo. C’è qualcosa che si annuncia, e non sappiamo che cosa sarà. Ma è come se fossimo sulla linea di partenza, sul limitare di una nuova epoca dell’umanità. Per il peggio? Per il meglio? Non lo sappiamo; ma la cosa sta abbondantemente nelle nostre mani”.
Nel vortice di questo travaglio il primo compito di un pensiero vivente e acuminato consiste nel mostrare l’inconsistenza delle due proposte di soluzione che attualmente tendono a dominare sulla scena mondiale: delegare la guida del mondo alle dinamiche del mercato, e tornare a qualche sistema dottrinario del passato.
La prima è la soluzione nichilistica, che affida all’economia o alla tecnica il ruolo che un tempo è stato della religione: “Siamo impazziti! Bisogna insorgere con tutte le energie che ci restano contro i neo-fatalisti che si rifugiano dietro le leggi dell’economia”. In questo ambito troviamo sia i tecno-ottimisti di tipo neoliberista, sia i tecno-catastrofisti, comunque soggiogati da un processo tecnologico pensato come sovraumano, e quindi fatalisticamente subìto.
La seconda soluzione, che spesso convive con la prima nella stessa persona o nello stesso partito politico, è quella fondamentalistica: si vanno a ripescare le retoriche patrie, le sane (?) tradizioni religiose, si ritorna al sacro, alle fanfare, alle bandiere, alle cerimonie, alle liturgie in latino, alle palandrane di tutti i tipi e colori, al gran carnevale della storia che sta finendo, al Dio perverso che schiaccia l’umano invece di liberarlo, e mette il catenaccio a tutto, oppure si torna alla letteratura amena o alla filosofia o ad una generica “cultura” che sa tanto di scuola liceale o di dopolavoro: “Mi assumo il rischio estremo di dire che questo ritorno è solo una pausa. Il processo continua”.
Da un certo punto di vista infatti stiamo vivendo una pausa, forse un momento di faticosa digestione. Ma ho l’impressione che questa sorta di pausa-pranzo della storia stia per finire…
Bellet propone di riprendere il cammino, di tornare a pensare all’altezza della nostra storia, e cioè di andare fino in fondo alla crisi, fino al suo sbocco fatale. Che cosa significa? Significa portare alle sue estreme conseguenze la critica che la modernità ha esercitato sugli assetti dottrinari delle credenze religiose. Portata fino in fondo questa critica non può che mettere in crisi anche se stessa, e cioè la propria capacità di darsi come fondazione dell’umano. Ed infatti lungo il XX secolo è la stessa ragione critica che entra in crisi, che scopre di essere essa stessa una credenza, e di rischiare di diventare un assolutismo, una fede altrettanto intransigente di quelle religiose criticate dall’Illuminismo in poi: “La crisi di secondo grado è caratterizzata dal fatto che i luoghi critici sono essi stessi coinvolti nella crisi”.
Portare fino in fondo la crisi attuale di tutte le strategie critiche, da quella filosofica a quella psicoanalitica, significa giungere ad un punto radicale di rinuncia ad ogni possesso di sé e del proprio stesso pensiero: “L’ultima parola di qualsiasi critica della critica sarebbe che l’uomo arrivasse a riconoscere di non essere più padrone né della verità né della critica dei suoi pensieri”.
Questa esperienza di autentica rinuncia all’autodominio è la soglia cui ci stiamo approssimando, una soglia che pone fine ad un’intera modalità di essere uomini, ma che è altresì “una nascita”, l’inaugurazione ancora poco riconosciuta di una umanità più radicalmente umana, libera da sovrastrutture belliche millenarie, di stratificazioni e incrostazioni di menzogne, illusioni, e violenze.
Bellet ci propone perciò di riattraversare le tre soglie critiche fondamentali che abbiamo alle spalle: le crisi del 900, la crisi della modernità, e la crisi dell’insorgenza del cristianesimo, per estrarne ciò che solo ora può germogliarne come nuova umanità. Si tratta di procedere ad una elaborazione più profonda del nostro passato storico, per liberarne potenzialità ancora inespresse, in analogia con ciò che tenta di fare il procedimento psicoanalitico rispetto alla storia individuale di una persona.
Questo processo, come abbiamo detto, conduce ognuno di noi ad un punto di rinuncia che può diventare un luogo di ascolto primordiale. Nel punto in cui non controlliamo più niente cioè possiamo renderci conto che prima di ogni nostro pensare e interrogare razionali noi siamo già un corpo parlante, siamo già stati raggiunti da una parola, da una lingua-madre, da una relazione d’amore che ci fa essere. Prima del nostro ragionare c’è, in altri termini, la nostra umanità corporea che parla perché riceve la sua parola da altri: “Di conseguenza l’idea secondo la quale l’ascolto è qualcosa di inaugurale, di più ‘primitivo’ della ragione, mi sembra del tutto fondata”. E qui Bellet mi pare che coniughi l’esperienza psicoanalitica del lasciarsi dire oltre il controllo della nostra soggettività cosciente, l’ascolto rimbaudiano dell’Altro che io sono, e le riflessioni heideggeriane sull’ascolto come attitudine prioritaria rispetto all’interrogare filosofico.
Nel silenzio di tutte le nostre ragioni, dunque, al collasso di tutte le nostre credenze e di tutte le pretese di darci un fondamento “critico”, possiamo scoprire una più profonda verità del nostro io, possiamo scoprire di essere un essere che riceve il proprio essere da una parola che è essenzialmente parola di amore, benedizione, e che ci dice con eterna fedeltà: “Tu puoi esistere, è una buona cosa per l’uomo essere nato. Ogni uomo può essere salvato”.
Qui ci troviamo. In questo vuoto di ragioni sufficienti per vivere. In questo silenzio che possiamo riempire di frastuono, o che può diventare il grembo di una conoscenza inaudita: “La conoscenza è senza metodo: la Via è senza via. La sua regola però è più dura di ogni regola: poiché è lasciare essere l’inaudito, nelle lacerazioni della nascita”. L’umano sta ri-nascendo in questa estrema povertà, ricevendo al fondo della propria crisi, una semplice parola d’amore, diventando capace di ascoltarla e di farne l’unico referente del proprio essere.
E’ proprio qui perciò, in questo nostro tempo di crisi radicale di ogni credenza e di ogni pensiero critico, che il mistero cristico torna a parlarci nella sua radicalità, in quanto la morte del Cristo-Logos è la crisi definitiva e finale di questo mondo e della figura (bellica) di umanità che lo esprime e che vi regna: “Il Vangelo testimonia che l’attraversamento di questa crisi insuperabile è l’aurora di una vita nuova, libera dall’ossessione dell’uccisione”. Per cui più viviamo fino in fondo la crisi ultimativa dei nostri tempi più possiamo avvicinarci all’esperienza (messianica) della sorgenza di una nuova umanità in noi.
E’ proprio qui, è proprio adesso perciò che il mistero cristico dell’uomo inaugurale può raggiungerci e manifestarsi in modo inedito, potente e vigoroso. Ma è bene ribadire con estrema chiarezza che non si tratta affatto di tornare agli assetti dottrinari di un cristianesimo coercitivo, grazie a Dio superato dalla storia e di cui non finiremo mai di chiedere perdono al mondo: “La disciplina difende i dogmi, e i dogmi giustificano la disciplina! Solo al di fuori del cerchio si vede il suo carattere fittizio”.
Ciò che sta tentando di emergere in noi e sul pianeta terra è una figura nuova di umanità che si esperimenti come duplice rapporto di amore con la propria fonte infinita e con i propri fratelli. La sua verità, la sua verificabilità perciò non staranno più in schematiche dottrinarie, ma nel semplice evento della donazione della vita, perché solo donandosi questo nuovo io si ri-conosce come dono, conosce la propria origine e il proprio scopo: “L’unico luogo in cui potrebbe essermi rivelato qualcosa della verità universale di Cristo, sarebbe la relazione effettiva, reale, con colui che incontro, quando posso dirgli una parola cristica che sia in grado di capire. In altre parole, la verità universale di Cristo mi sfugge, ed è proprio questo il suo paradosso. Il luogo in cui si compie questa universalità non è l’universalità di un discorso – questo è il grande schema dell’uomo occidentale – ma il luogo della rottura del muro dell’inimicizia, il crollo della recinzione”.
Questa universalità operativa, che fa la verità in quanto dona e sfama con tenerezza e premura, è l’autentica universalità dell’unico Genere Umano che stiamo tutti partorendo attraverso la crisi e la rielaborazione di tutte le nostre storie personali, storico-culturali, e religiose. Questa è la speranza concretissima che alimenta in noi la ricerca di Maurice Bellet.