Intervista del quotidiano Avvenire a MG
INTERVISTA
Per il poeta Guzzi «la “Deus caritas est” indica come superare le contrapposizioni della modernità per far emergere le forme di relazione guidate dall’amore»
Dall’agape nasce l’uomo nuovo
«Abbandonare i confini conosciuti è un processo doloroso, ma il cristianesimo è proprio questo: l’annuncio di un’umanità non bellica, che ama il nemico. Ancora dopo duemila anni, è un’idea difficile da accettare»
Epoca del cambiamento, modernità liquida, società del rischio… quante espressioni sono state forgiate per tentare di definire questi nostri anni di trasformazioni radicali, in cui l’insicurezza sul presente rende difficile guardare al futuro. E se questo fosse in realtà il tempo in cui il guscio si rompe per lasciare uscire un uomo nuovo? E se il fondamento di questa nuova umanità fosse quell’amore a cui Papa Benedetto XVI ha dedicato la sua prima enciclica, e la cultura di pace che da quell’amore discende?
«Certamente partire dal cuore della fede cristiana è un ottimo punto per ricominciare, e l’amore è altrettanto sicuramente il cuore di quella nuova umanità, che trova la sua forza non nella contrapposizione, ma nella coniugazione, quindi nella relazione d’amore ai vari livelli. Ma per rilanciare il tema centrale dell’amore, dobbiamo “confessare” con chiarezza le forme storiche, ingombranti e oppressive in cui per secoli l’amore, sia quello coniugale, sia quello sociale, è stato controtestimoniato».
Marco Guzzi, nel suo La nuova umanità(Paoline, pagine 232, euro 12,00), sostiene appunto che, se è vero che molte identità si stanno consumando, è vero anche che si tratta di un processo doloroso di trasformazione che sta facendo emergere il nuovo. Non a caso il libro appartiene alla collana Crocevia, nata con l’ambizione di leggere il nostro tempo proprio in questa chiave. Ciò che si sta liquefacendo, per dirla con Bauman, è chiaro: «Delle varie figure identitarie, a partire da quelle di genere fino alle identità nazionali, religiose, storico-culturali, si sta consumando la natura bellica. La storia, a partire dalla nascita della scrittura, è interamente una storia di guerre, cioè di identità fondate sulla contrapposizione, l’esclusione, l’uccisione dell’altro. E questo a partire appunto dalla relazione maschio-femmina: abbiamo creato identità maschili e femminili fondate sulla separazione netta e rigida; poi il maschio fa la guerra e scarica contro altri maschi amati e odiati, camerati e nemici, un fuoco erotico che, siccome è incapace di dare vita coniugandosi, dà la morte al proprio genere».
Se è questo che stiamo perdendo, abbiamo pochi rimpianti. Resta il fatto che si tratta di un processo doloroso. «Certo, perché tutti noi umani siamo profondamente attaccati alle nostre prigioni. Ci identifichiamo con i limiti, con le cose che ci mutilano. Perciò anche il processo di liberazione in senso cristiano (il mio è un discorso cristologico: il cristianesimo è l’annuncio della nascita di una umanità non bellica, che ama il nemico), provoca forti resistenze».
Quando è iniziato il processo di trasformazione? «Duemila anni fa, ma si è concentrato negli ultimi cinque secoli, drammaticamente ambigui: hanno portato libertà inedite (la democrazia, l’emancipazione della donna, l’affermazione del valore di ogni singola persona, la contestazione del sistema dei valori di casta e di classe), però quale dolore ha implicato, quali controfigurazioni, quali estremismi ha generato il processo della modernità, e quali stermini di popolazioni (americane, africane), quali sfruttamenti abominevoli della Terra! Ma nonostante questo tutta la modernità va letta come segno di una nuova umanità nascente, già a partire dalla rivoluzione copernicana, che segna la fine del geocentrismo lanciando l’umanità verso una infinita apertura cosmica».
Poi è arrivato il Novecento, che ha demolito tutte le certezze. Lasciando cosa? «Nel Novecento è saltata per aria la pretesa di dominio sulla natura, è andata in crisi la pretesa scientista, il concetto di probabilità ha sostituito quello di necessità prevedibile nello sviluppo delle cose. La poesia è diventata ascolto dell’altro dentro di me; la psicoanalisi si è imposta come ascolto di ciò che sono ma non so di essere. Nel secondo Novecento ha fatto irruzione il tema della pace in modo inedito. Mai prima le culture avevano pensato di basarsi sulla pace. Ma costruire una civiltà della pace vuol dire avere un nuovo progetto antropologico. Cristo non ha difeso nessuna identità, nemmeno il proprio corpo: questa è la nuova identità; il resto è chiacchiera o escremento della storia, che comunque seguirà il suo destino».
Però non è facile riconoscere i segni dell’identità nuova, e men che meno assumerla. «L’identità bellica si rafforzava attraverso la contrapposizione: io sono tanto più romano quanto più posso dire che tu sei barbaro… La nuova identità si rafforza nel crogiolo delle relazioni: oggi come posso io essere cristiano senza contrappormi a te, senza escludere te? Non ne siamo ancora capaci, anche se la più profonda identità cristiana, cioè quella che il Vangelo illustra, è una identità di trasformazione nella relazione: il cristiano è colui che esce dai propri possedimenti, che cammina come Abramo verso una terra che non conosce, che si spossessa di sé e quindi anche delle proprie pretese di verità, e si mette in ascolto. L’identità cristiana è cioè di per sé liquida, “metanoica”».
Questo è un invito alle singole persone perché si mettano in cammino, o è anche un progetto sociale? «I due livelli, quello della liberazione personale e quello della progettazione storica, culturale e addirittura planetaria, non sono più separabili. Non è più concepibile un progetto politico, per esempio di pace, che non tragga le proprie energie da quel lavoro quotidiano di purificazione interiore che dà alla persona la forza di costruire la pace reale. Né possiamo illuderci di raggiungere una pace interiore senza fare i conti con le strutture del reale, senza renderci conto che io non mi posso curare soltanto nel gabinetto psicoanalitico e nemmeno soltanto nel confessionale, perché l’anima sta anche nel traffico, sta anche negli orari di lavoro».
Coniugare dimensione spirituale e politica non può portare all’integralismo, tanto più che i cambiamenti fanno paura? «In una grande fase di trasformazione, possiamo cadere in due tentazioni: la prima è quella del configurato, della regressione nel fondamentalismo che cerca sicurezza in identità del passato; la seconda è quella dello sfigurante, è la deriva nichilista, cioè l’illusione che il progresso tecnologico e del mercato possano di per sé rappresentare la liberazione, per cui più mi libero di ogni appartenenza, di ogni orizzonte di significato, più sarò libero. Tra questi due scogli c’è una linea siderale, difficile da scoprire, che è quella del “transfigurante”, dell’umanità nuova che trasforma le figure, non le distrugge, le purifica semmai, nel senso cristologico: Cristo non viene a distruggere le figure della storia, ma a portarle a compimento».
Intervista di Paola Springhetti a MG, pubblicata sul quotidiano Avvenire giovedì 2 marzo 2006.