La fede cristiana all’alba di un’era nuova
Il tempo propizio di una crisi definitiva
1. Viviamo in un tempo in cui siamo costretti a porci domande definitive, radicali, se non vogliamo rimanere sulla superficie dei problemi, e quindi nemmeno incominciare ad affrontarli. La crisi che stiamo attraversando non riguarda infatti ambiti o settori specifici della realtà umana, non è in crisi solo il sistema economico globalizzato con tutto il corredo di ingiustizie che porta con sé e che continua a produrre, né solo l’organizzazione politica del mondo sempre più insufficiente e scoordinata, non sono in crisi solo le diverse culture africane o asiatiche coinvolte in un processo di modernizzazione vertiginoso e caotico, né solo le popolazioni occidentali che perdono di decennio in decennio i loro riferimenti di senso e di valore, non sono in crisi solo l’arte e la filosofia, la catechesi e l’università, la scuola, la famiglia, e la letteratura, la comunicazione di massa e l’editoria, la vita consacrata e la spiritualità in generale. Ciò che è in crisi e in pericolo è l’essenza stessa dell’uomo, la sua natura libera e creativa, e la sua sopravvivenza come specie sul pianeta terra. In uno dei suoi ultimi libri il pensatore cattolico francese Jean Guitton scriveva: “In questo ventesimo secolo dell’era cristiana, che può essere considerato un periodo provvisorio, tutto si muove come se l’umanità si trovasse alla vigilia di conoscere una crisi, che non riguarda più questo o quel incidente, ma l’esistenza dell’umanità in quanto tale. Si tratta anche di una crisi delle essenze, e cioè delle ‘idee’, che finora hanno costituito il tessuto delle civiltà”.
2. In questa prospettiva ampia, drammatica e insieme realistica, per tentare di rispondere in modo adeguato ad una domanda sul futuro del cristianesimo e della chiesa in Europa e nel mondo, dovremo prima fare un piccolo itinerario riflessivo e chiederci preventivamente:
1)Qual è la reale portata della trasformazione in atto? E cioè che cosa sta realmente morendo, finendo, e che cosa sta tentando di emergere sul nostro pianeta in questa fase appunto di fine/inizio, di consumazioni drammatiche e di faticosi ricominciamenti?
2)In questa transizione poi come si può inserire il credente cristiano? Qual è il ruolo positivo, evolutivo che la fede cristiana può giocare in questa transizione?
3)Solo rispondendo a queste prime due domande potremo poi incominciare ad intravedere quale futuro potrà avere il cristianesimo nell’Europa e nel mondo del tempo che si sta aprendo.
3. Partiamo dunque dal primo interrogativo: qual è la reale portata del mutamento storico in cui siamo tutti coinvolti? Quando Giovanni XXIII indisse il Concilio Vaticano II con la Bolla Humanae salutis, il 25 dicembre del 1961, volle subito precisare: “La Chiesa oggi assiste a una crisi in atto della società. Mentre l’umanità è alla svolta di un’era nuova, compiti di una gravità e ampiezza immensa attendono la Chiesa, come nelle epoche più tragiche della sua storia”. Già dieci anni prima d’altronde Romano Guardini aveva scritto nel suo famoso saggio su La fine dell’epoca moderna: “Con assoluta esattezza si può dire che da ora innanzi comincia una nuova era della storia. Da ora in avanti e per sempre l’uomo vivrà ai margini di un pericolo che minaccia tutta la sua esistenza e continuamente cresce” . Ma insomma che cosa sta succedendo sulla terra? Quale pericolo tremendo stiamo correndo? In che senso è addirittura un’era nuova quella che si annuncia?
Forse per rispondere a questi interrogativi cruciali ci può aiutare un pensatore come Martin Heidegger che più di ogni altro ha approfondito il tema dell’attuale e caotica fine di un intero ciclo storico: “Non è la bomba atomica, di cui tanto si parla, a costituire, in quanto ordigno di morte, il mortifero. Ciò che da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa essenza – è l’incondizionatezza del puro volere, nel senso dell’autoimposizione deliberata e globale. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana”.
Potremmo riassumere così l’arduo e complesso pensiero di Heidegger: ciò che sta mettendo in pericolo la nostra stessa sopravvivenza è una certa modalità di essere uomini, un certo modo di pensare e quindi di operare a partire da una soggettività chiusa in se stessa, auto-fondata, una forma di umanità che possiamo perciò definire ego-centrata. Questo tipo di umanità che pretende di dominare il mondo rendendolo oggetto del proprio volere e del proprio potere tecnico, questo tipo di uomo che ego-centrandosi si contrappone al mondo, alla natura, agli altri, e anche a Dio, per definirne e così controllarne l’esistenza, questa soggettività umana sta mostrando su tutti i livelli della realtà la sua natura folle e alla fine suicida, la sua insostenibilità rispetto alla stessa sopravvivenza della vita in generale sul nostro pianeta.
4. Questa figura di umanità, che definiamo appunto ego-centrata e che sta vivendo la sua fase terminale, ha prodotto, lungo il suo sviluppo millenario, da una parte tutte le forme di conoscenza di tipo oggettivante, e dall’altra tutte le forme polemiche di identità. Tutte le volte che ognuno di noi tende a rinforzare la propria identità per contrapposizione all’altro da sé riproduce una modalità polemica di identificazione. E questa modalità è quella che in effetti ha dominato finora su tutta la terra, tanto che la storia che abbiamo alle spalle è quasi integralmente una storia di guerre, combattute proprio in nome di identità culturali e religiose di tipo polemico. Questo tipo di identità pensa più o meno in questo modo: io sono tanto più me stesso, maschio, cristiano, hindu, italiano o cinese, quanto più mi separerò da te, mi differenzierò polemica-mente da te che sei donna, pagano, eretico, o straniero, magari escludendoti o addirittura perseguitandoti.
Ecco è questa la figura antropologica di umanità, è questa la figura egoico-bellica, l’uomo vecchio che sta collassando su tutta la terra, e in verità da secoli, mostrando sempre più evidentemente la sua natura distruttiva. Da una parte le forme di conoscenza oggettivante (che sono appunto ego-centrate) sono entrate in crisi almeno da un secolo, nella loro pretesa di rappresentare le forme supreme e definitive di conoscenza della realtà, da Einstein a Freud, da Heisenberg appunto a Heidegger; mentre dall’altra l’esplosione atomica ha reso impossibile la guerra totale, costringendo l’umanità ad avviare un profondo ripensamento sulla legittimità razionale della guerra come tale, e più in generale sulla sensatezza dell’affermazione della propria identità per contrapposizione polemica all’altro.
5. Dunque il passaggio cruciale che stiamo vivendo sembra condurci verso l’abbandono progressivo di un’intera figurazione antropologica di umanità, quella egoico-bellica, e l’estremo pericolo che corriamo nel trapasso consiste nel non renderci conto di ciò che l’evoluzione stessa ci richiede, e nel perseverare in modo ormai palesemente suicida lungo la via della nostre pretese di dominio e di guerra. Tale crisi mostra così paradossalmente la sua natura propizia, in quanto ci sospinge con forza verso una nuova ed inedita figurazione di umanità finalmente trans-egoica e quindi post-bellica, una figura molto somigliante a quella Nuova Umanità, che si rafforza attraverso la relazione (d’amore) all’Altro da sé e i vincoli fraterni che ne derivano, e che il Cristo Gesù ha inaugurato 2000 anni fa in Palestina. E’ proprio questa umanità che oggi può emergere con inedita potenza sul palcoscenico unificato del pianeta.
Il compito delle chiese:
divenire profezia vivente della Nuova Umanità
1. Ora siamo forse un po’ meglio attrezzati per passare alla nostra seconda domanda: come possiamo inserirci creativamente in questo processo di svolta antropologica, in quanto cristiani?
Ciò che dobbiamo subito dire è che tutte le culture e le religioni sono oggi chiamate ad una rigorosa purificazione, in quanto ognuna di esse porta dentro di sé forti componenti egoico-belliche. E questo vale ovviamente anche per il cristianesimo storico, che deve quindi innanzitutto purificarsi di tutti gli aspetti polemici e oggettivistici appartenenti all’era che si sta compiendo, e cioè all’uomo vecchio, per dirla in termini evangelici. Dobbiamo infatti riconoscere senza troppi infingimenti o giustificazionismi ipocriti che noi cristiani abbiamo faticato e tuttora fatichiamo moltissimo a vivere la nostra identità come esodo, apertura all’altro, attesa, gravidanza, e affidamento ad una promessa che attuandosi ci trans-figura, e cioè secondo il cuore più profondo e autentico della rivelazione di Cristo. Lungo i secoli della civiltà cristiana viceversa abbiamo reiteratamente preteso di possedere in pieno la verità su noi stessi, su Dio, e su ogni aspetto della realtà, e di poterla, e anzi di doverla perciò imporre agli altri, magari per il loro bene, e la loro salvezza… Abbiamo concepito l’identità cristiana come una sorta di fortilizio ben munito di armi teologiche o propriamente da taglio e da fuoco. Forti del nostro Io egoico-cristiano abbiamo inesorabilmente condannato ogni alterità, ogni diversità, demonizzandola, perseguitandola direttamente, oppure emarginandola, o nel migliore dei casi irreggimentandola a forza nei ranghi della “vera” fede. Così la persecuzione è stata per secoli la modalità primaria di mantenimento dell’ordine “cristiano”: l’eretico o l’ebreo, il cristiano di altra confessione, o la donna da mettere sempre e comunque a tacere, sono state le vittime principali di questa forma aberrante di difesa della fede. Dalla psicologia del ‘900 abbiamo imparato che quando il nostro Io è troppo rigido e sicuro di sé, in quanto in realtà è preda di occulte paure e fragilità non riconosciute, è sempre costretto a combattere con durezza estrema tutto ciò che sembri contrastare il proprio effimero potere. Per un Io rigido e inconsistente, infatti, l’altro diventa subito un nemico da schiacciare o da omologare a sé. E questa era (ed è purtroppo tuttora) la condizione psicologico-spirituale da cui derivano tutte le forme violente e persecutorie della cristianità.
2. Solo da pochi decenni in realtà, e sempre a fatica, la Chiesa cattolica ha incominciato a rendersi pienamente conto di queste aberrazioni della più autentica identità cristiana, che hanno dominato per secoli sulla teologia e sulla pratica pastorale. E giustamente è iniziato il tempo della confessione pubblica di questi peccati e della reiterata richiesta di perdono, in vista di un vero e proprio ricominciamento. Da questo punto di vista la grande confessione dei peccati commessi dai cristiani nell’imporre agli altri la loro verità, nel distruggere per sete di potere e arroganza “ego-teologica” l’unità della Chiesa, nei rapporti con il popolo ebraico, e nel calpestare i diritti della donna e i diritti fondamentali della persona; questa straordinaria confessione realizzata da Giovanni Paolo II durante la prima domenica di Quaresima del 2000 rappresenta un nuovo principio nella storia del cristianesimo, un atto profetico ancora tutto da comprendere e da assorbire in comportamenti adeguatamente innovatori. Ed infatti il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, redatto dalla Commissione teologica internazionale come accompagnamento esplicativo della richiesta di perdono, manifesta quasi con imbarazzo l’unicità, la singolarità epocale di questo atto penitenziale: “In nessuno dei giubilei celebrati finora c’è stata, tuttavia, una presa di coscienza di eventuali colpe del passato della Chiesa, né del bisogno di domandare perdono a Dio per comportamenti del passato prossimo o remoto. E’ anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti di richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal magistero.” Qui non si è trattato infatti della ordinaria richiesta di purificazione che la Chiesa (semper reformanda) ogni giorno pone dinanzi a Dio, ma di una presa di coscienza inedita di errori strutturali che hanno per secoli deformato l’intera prassi pastorale, e quindi la stessa identità dei cristiani. Questo è il punto: rileggendo l’intero passato del cristianesimo, e confessandone le modalità distorte, egoistiche, e quindi violente, che connotavano l’espressione storica della loro fede, i cristiani si aprono ad una nuova modalità dell’essere cristiani, e cioè propriamente ad una profonda trasformazione della propria identità.
3. Con questa richiesta di perdono la Chiesa cattolica fa dunque proprie tutte le conquiste che la modernità ha ottenuto sul piano del primato assoluto della libertà della persona, e del rispetto pieno dei tempi della sua libera maturazione. Il cristianesimo storico si riconosce anzi padre spirituale di queste conquiste, un tempo magari osteggiate come anticristiane, e così pone le basi di quella riconiugazione tra tradizione ecclesiale e sviluppo della modernità che, a nostro parere, sta alla base dell’emersione della nuova figura di umanità nascente che potrà, tra l’altro, riprendere la guida del processo di unificazione planetaria in corso, per orientarlo in modo non distruttivo.
In sintesi: le chiese cristiane possono inserirsi in modo creativo nel vortice della grande trasformazione in atto
1) purificandosi di tutte le distorsioni egoico-belliche che incrostano ancora i propri linguaggi e le proprie prassi (liturgiche, ecclesiologiche, catechistiche, e spirituali),
2) assimilando e riconoscendo come intrinsecamente evangelici tutti i contenuti evolutivi insiti nel moto secolare della modernità,
3) e proprio così riscoprendo la propria più intima identità: l’essere cioè appunto le avanguardie di una Nuova Umanità che non si rafforza contrapponendosi agli altri né pretendendo di possedere la verità, ma proprio spossessandosi, emigrando fuori di sé, e aprendosi alla propria trasformazione continua dentro le relazioni con l’altro. Noi cristiani possiamo contribuire a rendere questo tempo davvero propizio se diventiamo profezia vivente di quella nuova figurazione umana che sta premendo nel grembo della terra per nascere e salvarci.
Rinnovare il cristianesimo, rinnovare il mondo
1. Divenire profezia vivente della Nuova Umanità che sta emergendo sul pianeta terra significa, dunque, per le chiese cristiane, sia europee che nel resto del mondo, attraversare un processo di purificazione e di trasformazione molto complesso. Mi pare cioè che il futuro del cristianesimo sia legato a problemi in gran parte comuni a tutte le chiese. Si tratta innanzitutto di liberarci di tutte quelle strutture mentali e istituzionali che ci hanno diviso lungo il secondo millennio, e che derivarono da distorsioni egoico-belliche della parola di Gesù. Dobbiamo chiederci ad esempio con estrema semplicità: l’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa, dal ministero petrino in giù, in che misura contrasta con il rovesciamento dei criteri mondani del dominio e di ogni forma di asservimento, proclamato dal Cristo (Matteo 23,1-11)? In che misura la struttura gerarchica, così come la abbiamo costruita, facilita la crescita delle donne e degli uomini nella libertà e nell’autonomia? In altri termini il futuro del cristianesimo è legato ad un profondissimo ripensamento della struttura delle chiese, da rivedersi privilegiando i criteri evangelici della parità tra le persone, della libertà individuale, del primato assoluto dell’amore fraterno, non proclamato, ma costruito con i gesti più quotidiani. Dobbiamo edificare comunità reali e non accontentarci di parrocchie che si autodefiniscono comunità o famiglie, in cui però spesso le persone non si conoscono neppure di nome. Dobbiamo commisurare le sante parole che continuiamo a proclamare da secoli con l’esperienza concreta delle persone alle quali ci rivolgiamo.
Questo e solo questo ci potrà rendere credibili dinanzi all’umanità del XXI secolo, ammaestrata da secoli di modernità a non dare alcun credito ai proclami astratti, ed a cercare sempre e comunque la verifica dei fatti. Il cristianesimo avrà certamente un grande futuro nella misura in cui saprà mostrare una umanità davvero liberata da ogni asservimento sacrale e guidata soltanto dalla libertà dell’amore.
2. E qui si apre il grande capitolo della nuova formazione, su cui desidero soffermarmi, in quanto mi sembra di capitale importanza. Come possiamo favorire cioè l’emersione in noi e nella chiesa di questa nuova umanità? Come possiamo rinnovare a fondo gli itinerari catechistici affinché facciano fiorire donne e uomini veramente liberi di amare e di creare? Il compito è immenso, in quanto stiamo parlando in realtà, come ormai sappiamo, di una rigenerazione dell’intera cultura cristiano-occidentale, attuata a partire dalla trasformazione delle singole cellule umane, da dove cioè ogni autentica riforma antropologica deve avviarsi.
In questi anni di intensa sperimentazione con diversi gruppi mi si è chiarito che per crescere come persone e come cristiani di una nuova era planetaria dobbiamo imparare a coniugare i tre livelli formativi (spirituale, culturale/mentale, e psicologico) che attualmente vivono separatamente, e spesso in contrapposizione tra di loro. La linea formativa dell’umanità nascente implica al contrario proprio una sintesi tra questi livelli, e cioè in definitiva una integrazione maggiore della persona. Qui mi limiterò ad offrire una sorta di scaletta di ciò che mi sembra essenziale integrare come strumento formativo in questi laboratori di nuova umanità.
•Ognuno di noi dovrebbe oggi innanzitutto trovare una propria centralità contemplativa, uno spazio di silenzio e di rigenerazione, una sorta di monachesimo interiore senza il quale tutti i nostri discorsi potrebbero risultare vani e retorici. Dobbiamo dirci con chiarezza che il processo della nostra trasformazione richiede una modificazione progressiva del nostro rapporto col tempo. Dobbiamo imparare a dare tempo al tempo. A respirare. A dilatare spazi di quiete nel vortice della complessità della vita. E tutto ciò richiede una forte pedagogia della meditazione e della contemplazione, dell’ascolto della Parola di Dio, e della pacificazione mentale. Se non impariamo a curare il nostro cuore, a pacificarlo, a silenziare ogni giorno il chiacchiericcio della mente e delle emozioni, non troveremo mai la forza di nascere daccapo, di contraddire la tendenza oscurante dei tempi. Se non impariamo a sperimentare la gioia dello stato unitario, dell’amore presente, la gioia della semplicità nuda di questo momento qui, datoci come un dono tutto da scoprire, come un presente appunto, continueremo ad inseguire fantasmi di libertà e sogni funesti di mondi migliori. Molti cristiani si sono allontanati dalla loro tradizione non perché attratti dal materialismo, o dal relativismo, o dall’edonismo dominanti, ma perché il cristianesimo che veniva loro trasmesso era troppo poco spirituale, troppo moralistico, intellettualistico, troppo astratto. Dobbiamo perciò riscoprire e rianimare le nostre tradizioni secolari, e d’altra parte la via contemplativa cristiana dell’ascolto intimissimo della Parola, del dialogo appassionato con Dio e della comunicazione gaudiosa con lo Spirito della pace e dell’amore, può servirsi anche, come forme propedeutiche, dei metodi meditativi e di pacificazione interiore di origine yogica o zen, opportunamente inseriti nel processo iniziatico di rinascita in Cristo.
•Accanto a questa forte e permanente formazione contemplativa abbiamo bisogno di una riflessione culturale capace di illuminare il senso del nostro presente, e cioè di una vera e propria profezia della storia che si traduca in una pastorale dell’intelligenza. Ci servono cioè chiavi interpretative nuove per comprendere la modernità e lo stesso XX secolo in una prospettiva storico-salvifica, e quindi avviare un riorientamento radicale della nostra civiltà. Dobbiamo cioè sviluppare una nuova cultura critica, affinché possa scaturire nei prossimi anni l’energia per una opposizione e una contestazione, anche politiche, di tutte le logiche omicide e cosmicide imperanti in questo mondo.
•Dobbiamo infine dare corpo e verità esistenziale al nostro cammino autotrasformativo attraverso un lavoro psicologico di autoconoscenza sempre più approfondita. Un lavoro, nutrito anche di tutta l’esperienza accumulata in 100 anni di ricerca psicoanalitica, che dovrà svolgersi sia attraverso l’aiuto di formatori competenti che mediante sedute di gruppo e di condivisione. Sorvolare su questo punto significa correre il serio rischio di aggrovigliare l’itinerario spirituale con diversi impacci psichici irrisolti, che portano poi rapidamente o a fallimenti esistenziali o a scialbe e sofferte incarnazioni “religiose”, ormai del tutto insostenibili dal punto di vista storico e culturale contemporaneo. Dobbiamo in quanto credenti individuare reiteratamente e come lavoro quotidiano, ordinario, di purificazione, gli schemi arcaici distorti che continuano a condizionarci : le ferite infantili, i blocchi, le difese, le paure, le fughe illusorie, le strategie compensatorie che spesso inquinano o mortificano le nostre migliori intenzioni di apertura verso Dio e gli altri. Facciamo pulizia per bene anche qui! La via spirituale autentica del prossimo secolo implicherà sempre più necessariamente un confronto terapeutico costante con le proprie ombre, sia personali che strutturali o istituzionali. In fondo ciò che ci viene richiesto è solo un livello più profondo di conversione e di purificazione, fin dove ben pochi erano andati a fare ordine. Oggi sappiamo per certo, ad esempio, che non si diventa santi, e cioè persone più libere e più felici, rimuovendo o reprimendo forzosamente (nell’inconscio) ciò che riteniamo male, ma sapendolo riconoscere in noi senza eccessive paure o vergogne, per poi poterlo trasformare nelle potenzialità di bene che spesso nasconde e distorce. Il Dio che punisce e perseguita, chiedendoci sacrifici di sangue, non è che una proiezione della nostra mente infantile, l’ingigantimento di qualche padre o madre autoritari e crudeli. Sembra paradossale, ma noi uomini riusciamo a trasformarci per davvero solo se prima ci accettiamo, se impariamo a volerci bene, e non se ci tormentiamo nei sensi di colpa o in sforzi disumani di perfezione che possono al massimo renderci peggiori. Accettarsi non vuol dire d’altronde agire le proprie negatività o condonarsele a poco prezzo, ma accoglierle nello spazio terapeutico del perdono, in quel clima sereno e gioioso in cui il Dio vero, che è amore incondizionato, ci accoglie sempre e ci perdona, operando l’unica trasformazione autentica e liberante.
3. Solo questo lavoro trasformativo integrato può poi liberarci per la corretta azione, e cioè per quelle opere concrete di liberazione e di guarigione dei fratelli e dell’ambiente circostante che Dio vuole da noi, e attraverso le quali diveniamo canali autentici ed efficaci della rigenerazione umana e storica che urge. E’ da questo lavoro cioè che fiorisce e si rivela sempre più rigogliosamente anche la nostra autentica vocazione, chi veramente siamo, e prendono così corpo le molteplici missioni dell’amore creativo che il tempo richiede.
4. Se la grandezza di una fase storica è data dalla complessità e dalla difficoltà delle sfide che essa si trova a dover affrontare, allora la nostra è davvero un’epoca decisiva e in un certo senso unica. “Salire costa”, cantava Ungaretti, ma è l’unico modo per arrivare in vetta, lì dove la nostra gioia sarà piena, quella gioia che già ci abita e che è l’unica vera dìnamo della trasformazione. Credo che dovremmo ricordarcelo sempre, specialmente in quanto cristiani: solo la gioia convince e solo la libertà fa crescere. Questo è il tempo più propizio per capirlo e sperimentarlo fino in fondo.
Pubblicato in “Third Millennium – Indian Journal of Evangelization” IX(2006) 3 July-September