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Ri-Educarsi

Alcune riflessioni sull’educazione
della nostra umanità nascente

Educare in un tempo di svolta antropologica

Ogni progetto educativo presuppone sempre una determinata idea di umanità, un’immagine di uomo, il più delle volte implicita o addirittura inconsapevole, che comunque si vuole riprodurre e perfezionare nell’educando. Che lo sappia o meno, ogni madre ed ogni insegnante delle elementari, come ogni politico o giornalista o conduttore televisivo, propone sempre agli altri una certa idea di umanità che trasmette innanzitutto con il proprio essere ed il proprio comportamento. Un padre Apache perciò proporrà al figlio, con i metodi offertigli dalla più veneranda tradizione, un progetto educativo che lo possa rendere un perfetto guerriero Apache, il tipo di uomo, o, anzi, l’uomo per eccellenza che lui stesso si sforza di incarnare. Ogni pedagogia è cioè sempre l’applicazione sul piano formativo di una precisa concezione antropologica globale, che ha già risposto a molte domande, del tipo: chi è l’uomo, qual è l’itinerario idoneo per poterlo formare nel modo migliore, quali facoltà dovranno essere sviluppate per dare compimento alla sua umanità e così via.
Il nostro tempo però è caratterizzato proprio dal fatto che ci troviamo nel bel mezzo di un processo di trasformazioni che ormai tutti concordano nel definire di portata antropologica, per cui la nostra concezione di umanità, radicata nel cristianesimo occidentale giunto alla sua fase critica e nichilistica, sta vivendo una sorta di trans-figurazione radicale. Che cosa potrà significare allora educare in un tempo in cui non possediamo più una figura precisa di umanità (e quindi una cultura) da riprodurre, né possediamo ancora i lineamenti definitivi della nuova figura storico-culturale che sta tentando di emergere in noi e nel mondo attraverso questa passione secolare? Che cosa potrà significare educare innanzitutto noi stessi e poi i nostri figli in un tempo estremo, di fine/inizio eonico, come lo definì Jung, in un tempo escatologico in cui tutte le figure di identità, e tutti i contenuti storici che le avevano connotate finora, entrano in una fase critica di rigenerazione?

Come risulta chiaro, oggi più che mai, ogni problema di sviluppo individuale o di natura sociale richiederebbe un’apertura interrogativa straordinaria, dovrebbe cioè essere inserito nello scenario storico epocale di transizione antropologica in cui ci troviamo a vivere. Purtroppo questo accade raramente, e così vediamo proliferare a tutti i livelli, dall’eterno dibattito sulle riforme scolastiche fino alle discussioni sulla costituzione europea, una molteplicità di problematiche reali, affrontate però senza prendere in considerazione la radicalità antropologico-culturale del trapasso, e quindi con strumenti interpretativi o superati o comunque inidonei anche solo ad analizzare seriamente l’entità dei problemi del nostro presente. Per cui l’attuale questione di fondo, sul piano educativo, non consiste tanto nel pianificare altre varianti più o meno superficiali sui programmi (scolastici, catechistici, di formazione professionale, o altro) per i nostri figli, ma nel trovare un nuovo orientamento evolutivo globale per la vita dei padri, per la nostra vita cioè, spesso abbandonata ad una organizzatissima e mortale insensatezza.

Educarsi all’avventura autotrasformativa

In questo contesto di passaggio di figura storico-culturale, di faticosa e al contempo entusiasmante trans-figurazione della nostra umanità, ogni educatore dovrebbe innanzitutto accogliere in piena consapevolezza la sfida in atto, e cioè vivere la propria trasformazione fino in fondo, e trasmettere alle persone che si affidano alla sua guida innanzitutto il coraggio e la gioia insiti nell’avventura in corso. Questo mi sembra un primo punto importante e del tutto ignorato: lo stato d’animo in cui il processo formativo viene inserito. Io credo che abbiamo bisogno di insegnanti che sappiano trasmettere l’ebbrezza e la determinazione interiore che dà l’affrontare il mare aperto della trasformazione. Insegnanti che siano essi per primi uomini e donne di avventura, avventurieri dello spirito, esploratori umili e perseveranti che sappiano fissare lo sguardo sulla terraferma che resta sempre futura, in avanti, al di là del mortorio culturale dominante, mai indietro. Insegnanti che non facciano finta di essere sani, o di possedere tutte le risposte, ma che conoscano qualche segreto pratico e concreto per vivere in mare aperto senza troppa paura e per continuare a fidarsi della rotta che di notte ci offre soltanto la stella polare.
Le nostre agenzie educative, tutte, dalla famiglia alla scuola fino alla parrocchia o al partito politico, vivono una crisi di stagnazione, perché mancano testimoni credibili della straordinarietà del tempo che viviamo, e, come diceva Oscar Wilde, tutti quelli che non sanno più imparare, si sono messi a insegnare. Ma possiamo insegnare qualcosa di essenziale senza entusiasmo, e cioè senza la forza che viene dall’avere almeno intravisto la grandezza del modello di umanità che proponiamo, o, peggio ancora, senza avere più nulla di bello e di entusiasmante da proporre? Il poeta francese Saint-John Perse, ricevendo il premio Nobel nel 1960, diceva: “I peggiori rivolgimenti della storia non sono che ritmi stagionali in un più vasto ciclo di concatenamenti e rinnovamenti, e le furie non illuminano che un istante del lunghissimo tema in corso. Le civiltà giunte a maturità non muoiono a causa dei patemi di un autunno, non fanno che cambiare.
Solo l’inerzia è pericolosa. Poeta è colui che spezza per noi l’abitudine. Che dica a tutti chiaramente il gusto di vivere questo tempo forte perchè l’ora è grande e nuova nella quale conoscersi di nuovo”. Questo dobbiamo prima di tutto comprendere, sperimentare in prima persona, e poi trasmettere ai vari livelli di insegnamento: l’ora che viviamo è davvero grande, siamo chiamati a conoscerci ad un nuovo livello di profondità, e questo richiede uno spirito poetico, capace cioè di ascolto silenzioso, di lenta maturazione, di paziente e materna attesa, e insieme di scatto creativo, di forza critica, e di trasmissione di parole inaudite e illuminanti. Tutto sta convergendo in questo punto di rigenerazione, per cui tutti i problemi educativi si riassumono, se li pensiamo fino in fondo, nello sviluppare negli educatori la capacità di favorire l’emersione di una umanità nascente, e gli unici sforzi oggi davvero fecondi sono quelli umilissimi di chi prepara e rende fertile questo terreno, lavorando con diligenza nel proprio ambito specifico affinché diventi anch’esso spazio di accoglienza per l’Uomo Nascente, per colui/colei che ognuno di noi è e vorrebbe tanto diventare.

Le due tentazioni in punto di svolta: fondamentalismo e nichilismo

Quando i contenuti storici di tutte le nostre identificazioni incominciano a sfaldarsi e a riformularsi, come metalli fusi, liquefatti; quando non è più tanto chiaro che cosa significhi essere maschio o femmina, di sinistra o di destra, cristiani o buddhisti, italiani o lumbard o europei, preti, poeti, medici o casalinghe, quando cioè si vive appunto un trapasso storico-culturale come il nostro, dobbiamo affrontare ad ogni passo due pericoli opposti e complementari: il riflusso fondamentalistico e la deriva nichilistica. A livello educativo possiamo facilmente cadere in soluzioni fondamentalistiche, quando le sfide del cambiamento ci pongono in uno stato di paura e di chiusura in noi stessi. L’educatore fondamentalistico ripropone schemi educativi appartenenti al passato, e quindi in buona parte morti e mortiferi, solo perché gli sembrano i più “sicuri”. Egli sostanzialmente dice alle persone che gli sono affidate, anche se non sempre verbalmente, ma comunque con tutto il proprio essere: voi dovete essere come sono io, e io sono come si deve essere, come sempre si è stati, e quindi è bene continuare ad essere; senza dare mai però alcuna ragione fondata e vitale di questa fedeltà astratta e irrigidita. In quanto prodotto da una maschera di perfezione conformistica, l’atteggiamento fondamentalistico è sempre violento, nasconde cioè ma comunica con forza una paura di fondo, un’angoscia del mutamento che non può che trasmettersi rovinosamente all’educando o al figlio malcapitato.
La soluzione nichilistica, d’altra parte, è una forma diversa in cui però ci si illude ugualmente di liberarsi dalla responsabilità del mutamento. Ma mentre il fondamentalista delega a qualche tradizione esterna la guida della propria vita da non mutare, devitalizzandola così e paralizzandola nel terrore, il nichilista si affida, sempre per non mutare veramente, alla deriva tecnico-informatica, si fa piccolo piccolo, rinuncia alle proprie capacità di scelta e di decisione, insegnando a tutte le persone che lo circondano che questa spersonalizzazione sia di per sé liberante, l’unica via anzi rimasta all’umanità “postmoderna”.
L’educazione nichilistica presume di conseguenza che l’informazione tecnico-telematica possa sostituire la trasmissione globale, fisica e spirituale, della cultura; insegue paradisi scolastici in cui un computer per banco risolverà ogni problema, e produce così quella generazione di baby busters (sgonfiati) e di nullaventenni, informatissimi quanto disperati, che già popola gli Stati Uniti, che come sempre sono più avanti in questa direzione almeno di un decennio. L’educatore nichilista sostanzialmente insegna a se stesso e ai suoi (malcapitati) allievi: certo tu devi cambiare, ma il cambiamento è dato essenzialmente dal moto spontaneo delle tecnologie (e quindi in definitiva dal mercato), sono loro che trasformano realmente la tua vita, tu non devi fare altro che adeguarti a questo processo, che poi ti aiuta ad essere proprio come ti pare…

Purtroppo i ragazzi incontrano molto spesso queste due figurazioni di adulti, che comunque abitano in ciascuno di noi. In una fortunata serie televisiva americana, che si chiamava Dawson’s creak, si rappresentavano molto bene due tipi di padri, uno violento e repressivo, diremmo fondamentalistico, incapace di ascolto e rigido nella propria ignoranza, e l’altro del tutto irresponsabile, docile quanto inaffidabile. Ed erano i figli sedicenni che in realtà facevano da padri a questi adulti immaturi e inconsistenti. La crisi della paternità (e quindi di ogni autorità), di cui questo telefilm raccontava bene la gravità, non è altro che un effetto della crisi generale di una civiltà che non vuole seriamente prendere in considerazione la propria trasformazione. Che autorità può avere infatti un padre (un insegnante, un prete o chicchessia) che non sa più trasmettere un itinerario forte e vivo di maturazione? Che o riproduce modelli superati, violenti e patetici, o mi si presenta come un clone di una società senza direzione, senza dignità e senza senso? Per cui, come scriveva Fulvio Scaparro qualche anno fa, oggi più che mai, l’unico vero problema dei bambini e degli adolescenti sono gli adulti, e la loro caparbietà nel non volersi educare, nel non voler nascere.

Educare a nascere: la sfida finale

Che cosa può fare allora un educatore più consapevole, che si renda conto cioè della transizione in atto e che voglia favorire dentro di sé innanzitutto e anche nei suoi allievi e nel mondo l’emersione della nuova figura di umanità in gestazione?
Credo che innanzitutto dobbiamo approfondire con sempre maggiore acutezza la comprensione del contesto culturale in cui svolgiamo la nostra azione educativa, e cioè dell’attuale omogeneizzazione mediatica dominante. Questo ambiente, ormai totalizzante, sta edificando giorno dopo giorno un’umanità che non è certamente quella nascente; ma che viceversa sembra quasi annientare dentro di sé qualsiasi progetto di reale trasformazione interiore, e quindi di ogni rigenerazione radicale degli squilibri del pianeta. L’attuale processo tecnico-informativo planetario, lasciato al suo automatismo cieco, sta formando una umanità dalla mente sempre più frammentata e programmata, persone calcolabili (Foucault), inserite in un sistema il cui unico valore universale è la compravendita, come ci illustra da tempo Jeremy Rifkin: “Ci stiamo muovendo verso quella che un economista ha definito l’economia dell’esperienza: una società in cui la vita stessa di ciascun individuo diventa, in effetti, mercato. Nel mondo degli affari la nuova parola d’ordine è valore della vita (lifetime value o LTV) del cliente: la misura teorica di quanto un essere umano potrebbe valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, fosse trasformata, in un modo o nell’altro, in merce e sottomessa alla sfera commerciale. Nella nuova era la gente acquisterà la propria vita in minuscoli segmenti dotati di valore commerciale”.
Stiamo costruendo dunque una umanità profondamente scissa, umanamente sempre più isolata, e fortemente mercificata. E’ come se l’urgenza e la portata antropologica del mutamento in atto stessero mobilitando dentro e fuori di noi tutte le resistenze, le ostruzioni, le mistificazioni, le rimozioni e le repressioni del processo possibili e immaginabili. La sfida si fa di decennio in decennio sempre più evidente e radicale: tra annientamento dell’umano e sua rigenerazione. In tal senso possiamo davvero parlare di tempi escatologici o anche apocalittici, tempi cioè in cui si rivela la reale posta in gioco: quale figura di umanità vogliamo incarnare? Vogliamo solo sfigurare fino in fondo il volto dell’uomo oppure vogliamo trans-figurarlo?

In una situazione così complessa, e per molti versi tanto ostile, un progetto educativo teso all’emersione in ogni persona della propria umanità nascente, assumerà sempre caratteri in un certo senso sovversivi, e dovrà esserne pienamente consapevole. Dobbiamo cioè renderci conto, senza ulteriori mascheramenti, che è in corso (dentro e fuori di noi) una sfida decisiva tra progetti di umanità, uno scontro escatologico appunto, la cui ultimatività viene ormai evidenziata ogni giorno nelle cronache dei quotidiani, si chiami insostenibilità ambientale o collasso psichico delle popolazioni metropolitane o altro, in un clima di generale e crescente disinteresse.

Rimanere principianti, inesperti, sperimentali

Un progetto educativo (e autoeducativo) per l’uomo nascente poi non potrà che essere non-specialistico e sperimentale, come d’altronde sono anche questi appunti che vi propongo. L’uomo che sta nascendo in noi infatti opera anche sintesi nuove tra le discipline e tra i dipartimenti (storicamente consolidatisi) della nostra anima. Può avere bisogno di coniugare l’opera di Campana con la riflessione junghiana sull’ombra, per capirsi in un certo momento e così crescere in noi. Può avere bisogno di ricomprendere il mistero dell’Incarnazione alla luce dell’arte informale come penetrazione della luce entro il magma della materia, o nella prospettiva delle lotte della modernità finalizzate appunto all’incarnazione terrestre degli ideali cristiani di giustizia e di fraternità.
Questo sfondamento delle ripartizioni epistemologiche tradizionali ha d’altronde caratterizzato tutte le ricerche più avanzate del XX secolo. Siamo una nuova figura di umanità, e quindi una nuova cultura umana, che va sintetizzando tutte le tradizioni della terra che stanno infatti precipitando tutte in questo punto sintetico di svolta, per cui è chiaro che le ripartizioni disciplinari (e mentali) appartenenti all’uomo passato, risulteranno sempre più insufficienti e anzi frenanti rispetto ai bisogni del Nascente. Questo non significa d’altronde che ci si debba abbandonare al pressapochismo o all’improvvisazione: le sintesi culturali del Nascente sgorgano dai percorsi delle stesse discipline tradizionali seguiti fedelmente fino in fondo, e proprio così trasgrediti.
Ad ogni operatore o ricercatore (artistico, filosofico, psicologico, teologico, o politico) viene richiesta perciò una nuova apertura mentale, la capacità di lasciarsi illuminare da ogni aspetto del tempo, in quanto tutta la realtà è oggi apocalittica, e cioè illuminante, istruttiva, pedagogica, se troviamo gli occhi del Nascente per osservarla. Conquistare questo sguardo, sintetico di tutto il passato e al contempo infantile, da principiante di un’era nuova, e saperlo trasmettere è l’atto pedagogico essenziale, in quanto è solo sulla base di questa fortissima intuizione evolutiva, che tutto il resto può essere ben costruito: relazioni, trasmissione di competenze, progetti politici, nuove forme di fraternità.

Ripartire dalle relazioni personali

Se vogliamo favorire la crescita dell’umanità nascente, dobbiamo ripartire ogni volta dalla forza delle relazioni personali, da ciò che nessun computer potrà mai darci: dall’impatto corporeo della presenza, della voce, del contatto. Il Nascente nasce per contagio. Non basta la qualità del tempo offerto alla relazione, è altrettanto importante la quantità. Educare a nascere significa sostanzialmente convivere, naturalmente a diversi livelli, ma comunque deve essere chiaro che educare non significa primariamente trasmettere nozioni, ma comunicare vita, energia, il fuoco del Nascente appunto. Questo è lo scopo: connetterci alla crescita antropologica in atto: sentirla in noi, imparare a riconoscerla, e a lasciarla operare come guida, luce, potenza di rigenerazione. Tutto il resto sarà dato in sovrappiù. E per trasmettere questo contagio salvifico può essere più utile cenare insieme qualche volta, piuttosto che accumulare ore e ore di lezioni “frontali”. L’educatore spiritualmente consapevole offre innanzitutto un’amicizia, una compagnia, uno spazio relazionale in cui è possibile incontrare e sperimentare già, almeno in parte, ciò che si vuole trasmettere. Questa antichissima sapienza, ancora viva nella VII Lettera di Platone, sta tornando, dopo Nietzsche e Jung, nella coscienza contemporanea, sia pure a lentissimi passi, mentre a livello dominante continua ad estremizzarsi la linea spersonalizzante, tecnicistica, e tutta mentale dell’apprendimento.

Ripartire dalla forza del pensiero poetico

Nell’educazione dell’umanità nascente, e non in quella che continua ad aiutarci a morire di noia e di angoscia, dobbiamo ripartire poi dalla forza comunicativa del livello poetico e spirituale. In un’epoca di transizione antropologica non si possono infatti trasmettere codici definiti o risposte preconfezionate, ma non è neppure necessario abbandonarsi alla chiaccchiera nichilistica del niente è vero e tutto è possibile. Esiste un pensiero forte che supera i limiti della nostra ragione, un pensiero coerente, logico anche se non matematico, logico ma anche affettivo, emotivo, carico di corporeità, un pensiero che possiamo definire poetico, e che oggi viene attinto e rivalutato da ogni ricerca anche scientifica portata fino in fondo: basti pensare agli esiti poetico-spirituali nel pensiero postmetafisico di Heidegger, e ancora di Jung, o addirittura di Bohr o di Prigogine, che arriva a concepire un sapere scientifico da intendersi appunto come “ascolto poetico della natura e contemporaneamente processo naturale nella natura, processo aperto di produzione e di invenzione, in un mondo aperto, produttivo e inventivo”.
L’umanità nascente ha bisogno per crescere in noi di una conoscenza che sia avventura conoscitiva e insieme autotrasformazione. Possiamo trasmettere ai nostri figli la convinzione che essere persone umane vuol dire partecipare ad una avventura (auto)conoscitiva del tutto aperta, nella quale il nostro sforzo conoscitivo opera creativamente, in senso radicale, non solo su noi stessi ma sul mondo che ci circonda. Educare a nascere vuol dire rendere responsabili seriamente della realtà interiore ed esteriore, affidate alla nostra capacità di crescere e di liberarle; vuol dire trasmettere sostanzialmente questa intuizione: vedi, un ordine nell’universo e nella tua vita c’è, ma è più grande anche di me e della mia capacità di descriverlo, io non lo controllo, né posso definirlo e incapsularlo in qualche formuletta rassicurante, ma io con te posso lasciarlo emergere sempre più chiaramente nella nostra vita, possiamo, anzi siamo chiamati a darlo alla luce: l’armonia delle cose, quella pace che sia tu che io cerchiamo, non è una realtà data una volta per tutte, ma un dono che ci è offerto ogni giorno e che sta a noi di cercare e di costruire ogni volta. Una prospettiva questa che trasforma radicalmente, tra l’altro, il concetto e la pratica stessa dell’autorità, rendendola molto più contrattuale, e legata alla mutazione storica, alle esistenze, e quindi ai casi concreti più che a norme ritenute immutabili e prodotte in realtà solo da menti immutate, rigide, bloccate dalla presunzione e dalla paura.
C’è tutta la nuova epistemologia della conoscenza come co-creazione dietro un paradigma poetico della trasmissione del sapere e quindi dell’educazione del nascente. In questa prospettiva produttiva della conoscenza umana l’ordine (ogni ordine) non è dato una volta per tutte fuori di noi, ma è come una forza organica che siamo noi stessi a pro-creare, per cui l’ordine superiore dell’umanità nascente, la riorganizzazione dell’anima e del pianeta che è in corso, nascerà solo se saremo noi stessi a partorirlo come nostra nuova figurazione umana.

Ripartire verso un’identità viatica, pellegrinante

Nel tempo della trans-figurazione antropologica in atto noi tentiamo perciò di dare vita in noi stessi e di lasciare maturare nei nostri figli o allievi una identità viatica, la cui forza non consista nell’irrigidimento difensivo o nella presunzione del possesso della (propria) verità, ma nella flessibilità e nella docilità nei confronti della propria trasformazione. L’io nascente ascolta e procrea l’inaudito, sempre aperto alla novità della (propria e cosmica) rivelazione. In che misura questa nuova figura di umanità, che sta emergendo nei travagli della crisi della modernità, corrisponda al paradigma cristiano della nuova umanità che fiorisce dalla passione della vecchia in una sorta di esodo da tutte le forme (psichiche o politiche o religiose) di prigionia, non è questo il luogo per approfondirlo. Certamente da più parti sta emergendo la consapevolezza della intrinseca corrispondenza tra gli esiti più evolutivi della modernità e il mistero cristiano dell’Incarnazione (kenosi) nell’uomo di Dio, e il tempo che si apre ci riporrà con forza inaudita la domanda sul rapporto tra Occidente (scienza, tecnica, democrazia, globalizzazione etc.) e cristianesimo, mentre, a livello personale, in ognuno di noi risuonerà diretta e nuova la domanda di Gesù: Chi dici tu che io sia? E cioè: Chi sei tu come uomo?

Riformiamoci come formatori dell’umanità nascente

Affinché l’educazione del Nascente possa svilupparsi è innanzitutto necessario che si avvii ad ogni livello una nuova formazione dei formatori, aprendo una grandiosa stagione sperimentale. Ciò che mi si sta appalesando in modo sempre più evidente nei gruppi di autotrasformazione che conduco presso l’Ateneo Salesiano di Roma da alcuni anni, è che per favorire la crescita della persona contemporanea è necessario coniugare, in una proporzione sempre difficile da trovare, la formazione culturale, quella psicologico-dinamica, e quella spirituale. Abbiamo cioè bisogno per nascere di molte cose che tuttora viaggiano spesso in campi separati, se non addirittura antagonistici. Abbiamo bisogno di ritrovare il silenzio e l’ascolto contemplativo, di una pedagogia della meditazione e della preghiera, di pacificare ogni giorno il nostro cuore fin troppo strattonato, e di unificare il nostro sguardo frammentato, di liberare il nostro respiro strozzato e compresso, e di ritrovare la forza del canto e della lode. Abbiamo parimenti bisogno di itinerari psicologici semplicificati, ma non semplicistici. Dobbiamo lavorare per anni sulle nostre ferite infantili, e sui blocchi dell’emozione che ne sono derivati, perché un cuore troppo diviso e contratto non può nemmeno pregare. Dobbiamo imparare poi ad affrontare le nostre ombre distruttive, cariche di odio e di rancore, le nostre strategie compensatorie, le nostre maschere di difesa e così via; purificando così anche le nostre immagini più o meno consapevoli di Dio o della vita. E infine abbiamo bisogno di nutrire la nostra mente teorica, di idee forti ma non rigide, di ampie visioni profetico-spirituali, che ci aiutino a comprendere dove stiamo andando, qual’è il significato di questi anni vertiginosi e decisivi, e di tutta la modernità, a distinguere con cura i suoi aspetti evolutivi e quelli distruttivi, da cui purificarci, come da ombre omicide ormai superflue. E dobbiamo poter vivere questi travagli della crescita insieme ad altre persone, in una condivisione forte, non occasionale, non specialistica, in un’embrione di comunità che sia cellula consapevole di una umanità nascente.
Solo così rianimeremo anche i progetti di rigenerazione politica a tutti i livelli, dal quartiere al pianeta, sogni e progetti operativi che sono indispensabili alla nostra crescita psicologica e spirituale, in quanto l’Uomo Nascente è tutto incarnato, è uno spirito tutto calato nel travaglio della storia, pienamente responsabile della sua evoluzione terrestre.

Negli ambiti più avanzati della ricerca si sta cercando in vario modo di contribuire a queste sintesi antropologico-culturali, da cui potranno maturare le nuove figure di formatori. Credo però che dovremo intensificare gli scambi, aprire ancora di più le ripartizioni disciplinari, e lavorare molto in piccoli gruppi sperimentali, che si possono ospitare ovunque: in una scuola o in una parrocchia, in una università o in un convento. Ogni luogo oggi può essere un cimitero o una sala parto: il Nascente infatti nasce ovunque lo lasciamo entrare e farsi spazio e farsi tempo condiviso, ovunque rimaniamo intonati al suo stato d’animo che è l’anelito, colmo di speranza e di gioia, verso una libertà senza confini.

Pubblicato nel volume collettivo a cura di R. Mondo, L’arco e la freccia – Prospettive per una genitorialità consapevole , Roma 2003.