La nascita dell’umanità dal silenzio e dall’ascolto
1. Nel nostro tempo notiamo un continuo aumento del rumore, accompagnato da un preoccupante incremento del mutismo e della carenza di comunicazione autentica. Vorrei svolgere alcune riflessioni sul nesso che lega rumore e mutismo da un lato, e silenzio e parola dall’altro, utilizzando come punto di osservazione quel particolare tipo di esperienza interiore che si è concretizzata nella linea poetica che da Hoelderlin arriva fino a noi.
Che il rumore stia spaventosamente crescendo nelle nostre società è più che evidente. Siamo bersagliati da migliaia di messaggi di ogni tipo; le nostre città e perfino le nostre case sono divenute terreni di caccia, in cui si tenta in ogni modo di catturare la nostra già risichita attenzione, i nostri già in gran parte perduti sguardi. Si potrebbe dire che il nostro mondo e l’umanità che stiamo costruendo abbia addirittura bisogno di questo fracasso crescente per sopravvivere nel proprio stato di dimenticanza e di obnubilamento: “Il bisogno di rumore è quasi insaziabile, poiché si teme ciò che potrebbe venire fuori dal proprio intimo”(Jung).
Come è sempre più chiaro questo tracannare quotidiano “di tutto, di più” non genera affatto comunicazione se non a livello di mera chiacchiera. L’eccessivo rumore, interno quanto esterno, ci ammutolisce infatti in un mare di parole vuote, di grandi fratelli pubblici e privati, di SMS, chat, blog, o talk show: “Tutta quell’immensa industria dell’ipercomunicazione, del telefono portatile e del telefono cellulare, delle segreterie telefoniche, dei fax, dei cercapersone, dei modem, dei sistemi per selezionare le risposte, dei registratori attivati dalla voce, tutti quei gusci d’ostrica colorati, quei dispositivi a gettone ricoperti di plastica, che trasformano il cittadino in un professionista dell’informazione rapida in contatto con chiunque e dovunque, non pongono fine, e insisto sul “non”, alla mia solitudine, ma anzi la intensificano”. (Hillman)
2. Questo nesso di perdizione tra rumore, frastuono incalzante delle chiacchiere, “rissa delle lingue”, mutismo, incapacità di parlare e di comunicare nella verità, è stato percepito molto presto da alcuni poeti, fin dalla svolta della Rivoluzione Industriale che accelerò il processo. E pensiamo innanzitutto a Hoelderlin che già all’alba del 1800 scriveva: “Ma vaga ahimé nella notte, vive come nell’Ade/ Senza il divino la nostra progenie. Al suo agire convulso/ Incatenata, e ognuno nel fragore dell’officina/ Solo ode se stesso, e molto lavorano i bruti/ Con poderoso braccio, insonni, ma sempre, ma sempre/ Sterile come le Furie resta il sudore dei miseri”. E Kierkegaard nella Danimarca della metà dell’800 già denunciava la grave malattia “acustica” dell’umanità, e sosteneva che se fosse stato il suo medico, l’avrebbe immediatamente condotta nel silenzio per poterla curare.
Questi poeti videro nel fenomeno della perdizione mentale dell’uomo, sempre più frantumato nel frastuono urbano e industriale, il segno di un limite epocale, addirittura eonico. Percepirono e gridarono che un’intera epoca dell’umanità stava finendo, proprio realizzando i propri trionfi. Denunciarono che un’intera modalità storica di essere un Io umano, si stava consumando, esaurendo, in una sorta di crisi terminale, o, come noi diremmo oggi, di insostenibilità globale crescente in ogni ambito della realtà individuale e collettiva. Ricordiamo Rimbaud: “L’uomo ha finito. Ha recitato ogni parte”.
Questa figura di umanità, questa modalità di essere Io che sta collassando è l’io che si illude di poter dare fondamento al o rendere ragione del mondo, di poterlo cioè dominare, di essere fondamento poi anche di se stesso, di parlare in proprio, di produrre il pensiero come sottoprodotto di qualche meccanismo cerebrale. L’io che sta franando dentro di noi e nelle sue guerre mondiali o nelle sue crisi (depressive) di insostenibilità è l’io unilateralmente razionalistico, materialistico, scientistico; l’io monologante, di cui tutto il XX secolo ci ha drammaticamente mostrato tutta la spaventosa fragilità o addirittura la pericolosa inconsistenza nella pretesa di dare un proprio ordine alla vita personale o peggio al mondo.
3. La linea poetica di cui ci occupiamo erompe dunque nel contesto storico del trionfo catastrofico dell’Egoità metafisica occidentale, per sostenere che invece questa figura dell’io va messa a tacere, per ascoltare e dare voce a dimensioni diverse e ulteriori del nostro essere e dell’universo. In questa tensione a dare voce all’Altro: Io è un altro (Rimbaud), la poesia inizia a cambiare natura, o meglio statuto di verità: non si considera più imitazione del già dato, abbellimento di una verità fondata altrove (da Aristotele a Leopardi); ma esplorazione in linea diretta dell’Ignoto (Baudelaire), e quindi produzione di una verità che si dà originariamente proprio come linguaggio poetico (da Novalis a Heidegger). Il poeta diventa così un ricevitore e un trasmettitore di frequenze del pensiero diverse e più elevate rispetto al ragionare dell’io ego-centrato e chiuso in se stesso. Ecco allora Coleridge: “E così, i suoi sensi a poco a poco rapiti/ in un dormiveglia, egli sogna mondi migliori”; o più esplicitamente Hoelderlin: “dello Spirito comune sono pensieri/ che finiscono quieti nell’anima del poeta”.
Questa inedita esperienza della produzione della parola poetica si autointerpretò fin dall’inizio proprio come il paradigma di una nuova figura di umanità che si stava formando in noi attraverso le decostruzioni dell’egoità precedente. L’attitudine fondamentale di questo ascolto produttivo e procreativo di una parola nuova e quindi di una nuova umanità si compone di due momenti interconnessi. Il primo momento è quello del silenziare il monologo del nostro vecchio io egoico, immergendosi in un silenzio sempre più intenso e denso di attesa, come descrive molto bene Rebora in una famosa poesia del 1920:
Dall’immagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.
4. Il momento di spegnimento nel silenzio del rumoreggiare dell’ego non è dunque la mèta di questa esperienza poetico-spirituale, ma il medium, lo strumento attraverso il quale possa sbocciare, venire in me l’inaudito, ciò che in definitiva mi salva. La poesia diventa una specie di sala-parto del nuovo io non più isolato, ma dialogico, aperto alla relazione sostanziale con il tu più interiore. Il poeta, silenziando il proprio ego, sembra configurarsi come anima mariana in ascolto, anima virginea che può accogliere la parola nuova che viene ad incarnarsi in me per salvarmi. Ma è il momento della nascita di questa parola nuova, e cioè del Figlio, lo scopo della stessa discesa nel silenzio. Ed in tal modo questa esperienza spirituale ripete e ripropone nel nostro tempo il mistero cristologico della nuova umanità che nasce dall’ascolto che la nostra anima, liberata dai condizionamenti rumorosi del nostro ego, e cioè immacolata, può offrire al Verbo che viene ad ingravidarla: conceptio per aurem.
E’ come se i misteri cristiani della nuova nascita erompessero da dentro l’esperienza concreta e spesso inconsapevole di questi poeti per riproporsi ad un nuovo livello di radicalità come annuncio di una nuova fase della storia della salvezza.
Dal silenzio dunque, in questa notte di consumazioni e di identità che saltano per aria, fiorisce con un filo di voce un nuovo modo di essere un Io, che vuole ribalbettare tutto il mondo, finalmente bene-dirlo, dirlo nella proprietà del suo linguaggio originario.
Quaggù
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Una voce
Dalla quale attingi la bevanda.
(Celan)
5. Questa parola inedita e inaudita possiede poi una valenza profetica in vari sensi. Innanzitutto essa illumina il senso salvifico del presente travaglio, ci annuncia che la notte che stiamo attraversando è sacra (Hoelderlin), che nella nostra fine c’è il nostro più autentico inizio (Eliot), che il naufragio può essere un modo di rinascere più veri (Ungaretti), e così via. E’ profetica poi in quanto ci istruisce, lascia fluire in noi una sapienza che favorisce l’emersione della nostra umanità trans-egoica. Questa poesia diviene cioè una preparazione alla vita terrena, a viverla in un altro modo, da un altro punto di vista.
E’ infine profetica in quanto ci ricorda l’essenza del nostro vero Io, che è di per sé profetico: parla cioè sempre nell’ascolto dello Spirito che scende in noi. L’Io umano è cioè sempre e fin dal principio, ora e sempre, relazionato, in dialogo, ed è proprio da questa scoperta che possiamo ricominciare a vivere e a creare come persone del XXI secolo, e quindi ridare inizio anche al mondo, giunto alla sua svolta decisiva, al bivio tra morte e ricominciamento.
6. Come abbiamo detto questa dinamica interiore si propone come paradigma di una nuova umanità che sappia rianimare, nel silenzio (dell’ego) e nell’ascolto della Parola che s’incarna per rinnovare il mondo, tutti i linguaggi della politica e dell’economia, dell’arte e della convivenza quotidiana. La nostra civiltà cristiano-occidentale è giunta a questa soglia, siamo chiamati a ricomprendere le radici spirituali della nostra cultura, e a risperimentarne in noi la forza vivente. Solo questo sforzo di autocomprensione ci potrà poi chiarire il senso del nostro dialogo con tutte le altre tradizioni spirituali della terra. Solo ri-radicati nel mistero della Parola che si incarna ora in me potremo comprendere, senza confusioni e fraintendimenti, che cosa possano offrirci e che cosa non possano invece darci le grandi sapienze, in specie orientali, con cui stiamo provvidenzialmente entrando in contatto. Ma qui si apre un altro discorso che rinviamo ad una prossima occasione.
Pubblicato nella Rivista Appunti di viaggio, Anno XII, n. 67, Luglio/Agosto 2003.