Un commento all’Enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI
Semplice-mente tornare a sperare
Con questa seconda enciclica sulla speranza Benedetto XVI continua la sua esposizione di ciò che è essenziale nella fede cristiana. Dopo il tempo delle ampie riflessioni sui compiti sociali e politici dei credenti, che hanno attraversato la Chiesa negli ultimi decenni, Benedetto sente l’esigenza di tornare all’essenziale, a quella esperienza spirituale profonda senza la quale tutto il resto rischia di perdersi nel fracasso mondano. E così, dopo avere meditato sull’Amore come mistero ultimo dell’essenza di Dio, ora si sofferma sulla speranza come cuore e vita della fede.
Il suo intento è chiaro: egli vuole innanzitutto precisare i contenuti fondamentali della speranza cristiana, per poi confrontarli con quelli che la speranza ha assunto lungo l’epoca moderna divenendo “fede nel progresso”, ed infine delineare come apprendere ed esercitare la speranza attraverso la preghiera, la sopportazione della fatica e della sofferenza, e la consapevolezza del Giudizio che attende ognuno di noi e la storia nel suo complesso. Noi ci soffermeremo preminentemente sulla parte centrale dell’enciclica, e cioè sul confronto con il pensiero moderno, dopo avere però letto attentamente la prima parte, e cioè rievocato la bellezza della speranza evangelica, pienamente compresa e vissuta.
Lo stile di questa enciclica è la semplicità e la sintesi. Benedetto sa che viviamo in un tempo di estrema complessità, confusi e frastornati, sa che veniamo sommersi da valanghe di informazioni, sa che ogni giorno ci scaricano addosso tonnellate di carta, più o meno inutile, e fiumi di messaggi di ogni genere. Sceglie perciò una semplicità di secondo grado. Tenta cioè di sintetizzare una grande quantità di sapere in una forma semplice e diretta, e quindi in una scrittura condensata e molto personale. Parla più per toccare il cuore che per convincere con argomentazioni complesse, che certamente non gli sarebbe difficile portare. La sua parola conduce alla quiete della meditazione, e si dipana perciò in un andamento quasi melodico e sapienziale.
La semplicità di secondo grado però è sempre una scelta rischiosa, anche se, secondo me, oggi quasi indispensabile. Il rischio consiste nelle inevitabili semplificazioni, nella necessità di pensare per sommi capi, di sintetizzare a volte processi secolari in poche righe. Questa sommarietà mi sembra ripeto inevitabile in questa fase cruciale della storia che stiamo vivendo. Un grande ciclo, addirittura millenario, infatti, si sta chiudendo, e alla fine di un periodo tanto complesso della storia siamo chiamati a ricapitolare tutto ciò che abbiamo vissuto per andare avanti, a tirare appunto le somme in forma sintetica, per aprire il nuovo capitolo che preme.
Benedetto, a differenza del suo predecessore, non si sofferma molto sulla singolarità di questo nostro tempo, preferisce sottolineare la continuità dei principi fondamentali della fede, eppure adotta lo stile “sommario” che i tempi finali e iniziali al contempo, e cioè i tempi di discrimine e di ricominciamento, richiedono.
La speranza cristiana è vivere in eterno
Qual è dunque il contenuto della speranza cristiana? In che cosa possiamo sperare dopo Cristo?
Due sono i punti che l’enciclica mette in evidenza: 1) possiamo sperare di non essere un prodotto casuale degli elementi materiali del mondo, ma il frutto di una volontà e di una intelligenza divine, la creazione volontaria e consapevole di una Persona; 2) e possiamo sperare di essere noi stessi “persone”, soggetti liberi in relazione stabile con questo Eterno Amore, di essere cioè perfettamente al sicuro nell’universo, perché la nostra persona, il nostro vero io, radicato nell’Eterno e in eterno, non morirà, non è destinato all’annientamento, ma appunto a quella vita eterna che in realtà è già in noi, come dono della fede (n.10).
Qui Benedetto coglie nel segno, risponde cioè alle due grandi angosce strutturali dell’uomo, che oggi più che mai stanno emergendo come coscienza infelice di massa, pandemia depressiva: la percezione di essere perduti e abbandonati in un universo ostile, crudele, e insensato; e la perdita della consapevolezza della dignità umana, della abissale differenza che c’è tra la coscienza umana e la vita animale. Il nichilismo cosmologico da una parte, che vorrebbe ridurre l’intera creazione e l’essere umano a banali accidenti di un processo casuale intrinseco alla materia, e dall’altra la progressiva spersonalizzazione e dis-integrazione del soggetto, a sua volta ridotto alla frammentazione delle sue componenti biologiche o psicologiche, e quindi del tutto determinato dai condizionamenti sociali o ambientali, sono le due traenze, intrinsecamente connesse tra di loro, del nichilismo contemporaneo. Tutta la cultura dominante è intrisa di questo nichilismo subdolo e strisciante che sfiacca l’essere umano, riducendoci a mansueti consumatori, senza destino e senza vocazione, proni perciò a tutti i diktat della pubblicità, e magari domani di qualche altro potere politico totalitario.
No. L’essere umano non è più “senza speranza e senza Dio nel mondo”(Ef 2,12). L’universo e la mia vita non dipendono dagli spietati “elementi del mondo” (Col 2,8), ma in ultima istanza e al di là di tutte le momentanee apparenze contrarie, tutto è voluto e regolato da “ragione, volontà, amore – una Persona”(n.5). Il male, la morte, e tutti i loro derivati schiavizzanti però non sono voluti da questa Persona Assoluta, dal Dio che “è luce” incontrastata e priva di tenebre (1Gv 1,5), ma sono proprio l’effetto dell’andare contro la sua volontà, effetti cioè di una caduta, di un non ascolto, di una dis-ob-audienza catastrofica, che solo in Cristo viene radicalmente sanata. Questo significa che “non siamo schiavi dell’universo e delle sue leggi”, ma “siamo liberi” (n. 5).
Questa è la prima grande speranza: noi esseri umani non siamo prodotti corruttibili della materia, ma siamo spiriti, persone libere, che vengono da Dio, da un’Assoluta Potenza, che è sempre presente in noi e che ci ama. Siamo spiriti incarnati e non solo carne pronta a marcire, destinata comunque ad andare a male. Gesù Cristo ci ha mostrato una volta per tutte che le potenze distruttive dell’universo non possono travolgere né tantomeno distruggere la libertà e la potenza del Figlio di Dio. Né la morte né l’odio satanico, né la distruzione del corpo fisico possono prevalere sulla bellezza incorruttibile del Corpo Risorto, del Vero Corpo divino-umano, lì dove ognuno di noi è già innestato come tralcio nella vite rigogliosa.
Per cui la seconda grande speranza, che la fede cristiana alimenta, ci dice che ognuno di noi è figlio nel Figlio, ognuno di noi è un essere unico e saldamente ancorato nel cuore dell’Eterno, perché “la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita” (n. 27).
Questa è la dignità dell’uomo: il nostro destino eterno. Questa è la nostra speranza: la nostra destinazione eterna. Noi non moriremo annientandoci, ma verremo trasformati in base a ciò che avremo realizzato in questa vita, perché “I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato”(n. 44). E anche questa prospettiva di giustizia ci riempie di speranza, perché ci dice che la storia umana non è uno scherzo senza conseguenze o un inutile gioco al massacro, né una tragedia priva di senso. No, alla fine si fanno tutti i conti, e ad ognuno verrà dato in base a ciò che avrà fatto o non fatto nella sua vita terrena. C’è insomma una giustizia più grande di quella umana. E d’altronde solo una prospettiva ultramondana può farci sperare seriamente nella giustizia delle cose, in un riscatto serio e concreto per tutte le vittime, come ci ricorda ancora Benedetto: “giustizia non può esservi senza risurrezione dei morti”(n. 42).
La riduzione moderna della speranza a fede nel progresso
Nella parte centrale dell’enciclica Benedetto XVI affronta il tema più spinoso, e cioè si confronta con le trasformazioni che la speranza cristiana ha subìto nel tempo moderno. Qui lo schema è ancora più semplificato, e si procede per sintesi teoriche estreme, che lasciano inevitabilmente aperte non poche lacune.
Benedetto ritiene che “un’epoca nuova sia sorta” (n. 16) dopo la scoperta dell’America, e che questa “svolta epocale” si basi essenzialmente sulla “nuova correlazione di esperimento e metodo”, che dona all’uomo strumenti sempre più straordinari per dominare la natura. Sostanzialmente le straordinarie applicazioni tecniche della scienza avrebbero modificato l’esperienza dello sperare. Da allora in poi infatti la redenzione e la salvezza “non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi”(n.17). La speranza moderna diventa perciò “fede nel progresso”. Parallelamente questo progresso viene identificato con l’uso sempre più libero della ragione in ogni ambito della vita sociale, e preminentemente contro gli assetti istituzionali, sia politici che religiosi, del “vecchio regime”, per cui ragione e libertà assumono anche una valenza intrinsecamente rivoluzionaria: “In ambedue i concetti-chiave di ‘ragione’ e ‘libertà’ il pensiero tacitamente va sempre anche al contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come pure con i vincoli degli ordinamenti statali di allora”(n. 18).
Questa concezione del progresso, questa speranza del tutto mondanizzata mostra oggi i suoi limiti. Da una parte stiamo constatando che un progresso meramente tecnico non sussiste, e che, anzi, se non è accompagnato da un parallelo sviluppo “dell’uomo interiore” (n. 22), può tradursi in “una minaccia per l’uomo e per il mondo”. Mentre dall’altra gli orrori che hanno spesso accompagnato i movimenti rivoluzionari di liberazione, dal Terrore robespierriano fino ai sistemi concentrazionari comunisti, dovrebbero averci insegnato che nessuna trasformazione solo esteriore delle strutture sociali può garantire la liberazione dell’uomo: “un ‘regno di Dio’ realizzato senza Dio – un regno quindi dell’uomo solo – si risolve inevitabilmente nella ‘fine perversa’ di tutte le cose descritta da Kant” (n. 23).
Benedetto critica cioè, alla fine dell’evo moderno, l’unilateralità di una ragione scientifica tutta focalizzata sui successi della tecnica, e di una ragione politica tutta protesa alla mera trasformazione delle strutture economiche. Critica la riduzione della speranza umana al piano dei conseguimenti tecnici o politici, che mai potranno soddisfare appieno l’anelito dell’uomo verso l’infinito e l’eterno. Critica cioè la matrice materialistica di una certa modernità, che ignora la libertà dell’uomo, il quale può usare anche per il male, e in ogni momento del presunto “progresso”, gli spazi che conquista e i poteri di cui entra in possesso: “l’uomo non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli” (n. 21). Critica insomma la ingenua illusione, sia liberale che marxista, di instaurare “un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava diventata realizzabile” (n. 30).
Di fronte a queste deviazioni “moderne” Benedetto delinea “La vera fisionomia della speranza cristiana”, tornando ai caratteri fondamentali già espressi nella prima parte. Ma la giusta critica del concetto moderno di “progresso” elimina la possibilità di un qualsiasi pensiero cristiano della storia? Di una valutazione cristiana dei processi politici degli ultimi secoli? E quindi in definitiva di una comprensione della stessa epoca moderna entro lo schema di una comunque processuale storia della salvezza? Dobbiamo in altri termini tornare ad una speranza radicalmente de-storicizzata, tutta spiritualistica e ultramondana?
Non è certo questo l’intento di papa Ratzinger, ma l’argomento avrebbe richiesto forse qualche precisazione in più, proprio per evitare l’equivoco.
Cristianesimo e Modernità: l’odio-amore di due fratelli
Ritengo dunque che qui sia necessario un approfondimento molto serio dello schema storico proposto dal Papa, anche perché lo sviluppo del nostro futuro non solo ecclesiale, ma storico-planetario, dipenderà in gran parte da come saremo in grado di interpretare il senso direzionale dei secoli moderni da cui proveniamo, per individuarne e proseguirne le traenze evolutive che si portavano dentro.
Procederemo ovviamente anche noi per sommi capi lungo una sorta di scaletta di domande :
1) Come possiamo interpretare i secoli della modernità dal punto di vista della storia della salvezza? E cioè cristo-logica-mente?
2) I processi di liberazione storica concreta che la modernità (nelle sue traenze positive) ha avviato, e che oggi anche la Chiesa cattolica riconosce e fa propri, non indicano uno spirito tutto cristiano operante in essi? La modernità non è cioè strettamente imparentata con il cristianesimo?
3) Se il concetto materialistico di fede nel progresso è errato, quale concetto di processo storico deriva comunque dalla nostra fede nel Regno che viene? Che rapporto c’è insomma tra la speranza nell’Eterno e le speranze di un futuro migliore?
4) L’interpretazione corretta della fase che stiamo vivendo non ci suggerisce che ci troviamo in un singolarissimo punto di svolta, in cui sia le culture della modernità che la Chiesa cattolica sono chiamate a correggere le loro unilateralità secolari per dar vita ad una nuova cultura della speranza?
Iniziamo perciò col chiederci: ma la nascita della modernità sia scientifica che politica da dove proviene? Questa grandiosa rivoluzione è stata un puro caso accidentale, o addirittura una rovinosa proliferazione di errori, oppure si inserisce entro la storia cristiano-occidentale come un suo frutto legittimo e necessario? Possiamo parlare dell’intera epoca moderna come se fosse una sorta di mastodontica svista teorica e politica, che pure avrebbe prodotto uno sviluppo inimmaginabile delle idee e delle libertà concrete della nostra umanità, di cui la stessa Chiesa cattolica incomincia a nutrirsi ampiamente, almeno a partire dal Concilio Vaticano II? Le speranze di dominare la natura e di liberare l’umanità da ogni forma di asservimento, politico e religioso, saranno anche state a volte unilaterali, ma sgorgavano direttamente dalla fonte cristologica della speranza nel Regno di pace e di giustizia che viene, come ricordava qualche anno fa l’allora cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger: “A generare l’universo scientifico, moderno e secolarizzato, è stato il mondo occidentale, nato dalla Parola biblica”. La modernità insomma non nasce affatto senza Dio o contro Dio, ma anzi come realizzazione (più o meno distorta) delle sue promesse, possiede cioè una intrinseca natura messianica, come ha ben precisato tra gli altri il teologo Jurgen Moltmann: “all’inizio dell’evo moderno si percepisce chiaro il segnale dell’ora nuova: ora è il momento in cui le cose si dovranno compiere, oggi la speranza potrà essere realizzata. Secolarizzazione non significa ‘mondanizzazione’, ma attuazione del fatto religioso.(…) Ora la storia del mondo giunge al suo ‘compimento’, ora l’umanità è arrivata alla sua perfezione, ora ha inizio un progresso inarrestabile che interessa tutti gli ambiti della realtà.(…) Ora i santi regnano sulle genti, ora viene ripristinato il potere degli uomini sulla terra. Scienza e tecnica restituiscono agli esseri umani ciò che essi avevano perso a causa del peccato originale: il dominium terrae (Francis Bacon). Ora l’umanità esce dal suo stadio infantile e giunge alla maggiore età”.
Tutta la modernità è intrisa di questo spirito messianico, la forza delle sue realizzazioni si alimentava al fuoco mai estinto delle speranze tutte cristiane di una umanità liberata dai vincoli della natura, e di un mondo di giustizia, di uguaglianza, e di pace. Cosa, d’altronde, oggi universalmente riconosciuta. Certo che, già a partire da un certo illuminismo, queste speranze furono distorte e ridotte al piano solo materiale, generando le mostruosità che conosciamo, in quanto l’ispirazione messianica, sottratta all’orizzonte spirituale della fede che supera sempre i limiti della storia, non può che trasformarsi in devastazione anti-cristica; ma non dimentichiamo che in tutta l’epoca moderna continua ad agire, nel bene come nel male, la speranza messianica, un’essenza cioè tutta cristiana, senza la quale non sarebbe mai nata né la scienza galileiana né il progetto liberaldemocratico di liberazione politica dell’uomo. Modernità e cristianesimo cattolico non sono cioè degli estranei, ma sono parenti stretti, fratelli addirittura, potremmo dire, che si sono separati e odiati, proprio perché pretendevano di portare ognuno per sé tutta la verità e tutta l’eredità del padre comune.
Modernità e Chiesa cattolica: uno scisma interno al cristianesimo?
Non dovremmo poi mai dimenticare, e qui passiamo al secondo gruppo di domande, che i moti rivoluzionari scaturivano quasi sempre come reazione violenta contro assetti politici ed economici secolari di puro asservimento e di brutale sfruttamento. Il comunismo, ad esempio, attecchisce presso quel proletariato industriale “le cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente” (n. 20). Bene, ma verrebbe da domandarsi: dove erano i cristiani in quel momento? Certo, i santi e le sante hanno sempre prodigato il loro amore per i poveri e i sofferenti. Ma chi denunciava allora quei peccati strutturali che Giovanni Paolo II ci ha insegnato ad indagare, e che oggi anche Benedetto continua ogni giorno a sottoporre all’attenzione mondiale? Chi invocava una trasformazione politica delle strutture dell’ingiustizia? Perché oggi il Papa si sente in dovere di denunciare gli squilibri economici planetari e lo sterminio dei poveri, l’oppressione delle libertà di coscienza e di religione, utilizzando spesso un linguaggio schiettamente illuministico, mentre i suoi predecessori condannavano queste medesime richieste di giustizia come indebite pretese “rivoluzionarie”? Non dobbiamo riconoscere in quelle istanze illuministiche uno spirito profondamente evangelico, che oggi anche la Chiesa riconosce e fa suo?
Benedetto ci ricorda che “Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica” (n. 4). Egli infatti era molto più sovversivo di Spartaco o di Barabba, egli dissolse e dissolve tuttora tutte le forme di potere che gli uomini edificano sulla terra schiavizzando i loro simili. Gesù dissolve e delegittima ogni forma di dominio, proclamando la fraternità universale: omnes fratres (Mt 23,8). Perciò fu ucciso da un complotto politico-religioso ordito tra la casta sacerdotale del suo popolo e il potere imperiale di Roma.
Ebbene si vedeva, si testimoniava, si annunciava veramente questa sovversione radicale di tutti i valori di questo mondo nelle comunità cristiane del 1400 o del 1600 o del 1800? I cristiani, i vescovi, i papi mostravano nelle città e nelle campagne questa libertà, questa fiducia tutta ebraica e mariana nel Dio che rovescia “i potenti dai troni” e manda i ricchi a mani vuote (Lc 1,52-53)? Oppure dobbiamo dirci con umile franchezza che forse molte delle esasperazioni rivoluzionarie della modernità nacquero dalla contrazione e dal soffocamento secolari delle forze messianiche profonde, dal fatto cioè che i cristiani, organizzando le loro società, avevano troppo dimenticato e travisato e deturpato le speranze evangeliche di fraternità e di uguaglianza, di giustizia, di pace, e di libertà che messe seriamente in pratica non possono non avere concretissime conseguenze anche politiche? come sottolinea molto bene il teologo ortodosso Olivier Clément: “L’anticlericalismo e, da ultimo, una certa decristianizzazione sono nati da mille anni di guerre di religione, da mezzo millennio di inquisizioni, dal gioco politico dei papi del medioevo e del rinascimento, dall’affermazione dell’infallibilità del sommo pontefice fatta proprio nel momento in cui l’Europa muoveva i suoi primi passi sulle vie dei diritti dell’uomo e della libertà..”.
Insomma l’intero evo moderno non può interpretarsi come un’accidentale irruzione di false speranze, ma come l’emersione, a volte orribilmente distorta, di quelle stesse speranze messianiche di liberazione e di fraternità, che troppo erano state soffocate nel tempo della cristianità medioevale. Ed infatti oggi tutti noi, almeno in Occidente, godiamo della libertà di coscienza e di religione, di stampa, di ricerca e politica, della emancipazione della donna, di tutta questa elaborazione dei diritti umani, ma anche degli straordinari progressi della medicina e delle tecnologie della comunicazione, che solo le lotte della modernità, spesso combattute proprio contro la Chiesa, hanno reso possibili, e che noi cristiani non possiamo che attribuire alla potenza redentiva dello Spirito di Cristo, che di tempo in tempo penetra sempre più a fondo nel corpo umano della storia.
L’intera modernità sembra, in altri termini, una sorta di scisma interno al cristianesimo: da una parte le culture “moderne” assorbono e spesso distorcono le speranze messianiche inserendole in modo immanentistico dentro la storia, mentre dall’altra la Chiesa tende a difendersi dai processi evolutivi in atto, condannandoli in blocco, e a limitarsi così ad una devozione individuale sempre più impoverita: “Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito”(n. 25). Da una parte si tenta di edificare un Regno di perfezione senza Dio, costruendo quasi sempre inferni, mentre dall’altra si difendono le ragioni di Dio contro ogni impulso di liberazione storica, e quindi contro le ragioni del suo Regno, immiserendo drammaticamente la forza storico-evolutiva del cristianesimo.
Sembra perciò che adesso ci troviamo per davvero in un momento estremamente favorevole in cui questi due tronconi dello stesso albero: la tradizione ecclesiale e le culture moderne, possano riconoscere le unilateralità che questo scisma secolare ha prodotto ed avviarsi verso una sintesi inedita: “E’ necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. (…) Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”(n.22).
L’entità di questa autocritica dipende però proprio da come avremo interpretato l’età moderna.
Se essa è solo una variante tra le altre oppure una novità più o meno casuale entro la storia delle culture, allora sarà sufficiente qualche aggiustamento diplomatico: una Chiesa un po’ più “moderna”, le culture laiche un po’ meno antireligiose e un po’ più aperte al mistero. Ma se la modernità (e quindi anche la Riforma) è un’epoca in un certo senso necessaria della storia della salvezza, una fase precisa e drammatica del processo di avanzamento del Regno di Dio dentro la carne della storia del nostro pianeta, allora siamo tutti chiamati, cristiani e “moderni”, a ben più profonde revisioni.
Dalla fede nel progresso alla speranza messianica nel Regno che viene
Prima di affrontare il tema delle revisioni e delle purificazioni cui siamo tutti chiamati, torniamo però per un momento ad un tema cruciale che sta dentro la questione della speranza, e chiediamoci: che valore dobbiamo dare in generale alla storia da un punto di vista cristiano? Ci deve interessare oppure no, e fino a che punto, dal momento che la nostra speranza travalica i limiti spazio-temporali di questo mondo? Sperare nell’Eterno, insomma, e sperare nel futuro sono due attitudini contrapposte o complementari, antitetiche o intrinsecamente associate?
Benedetto ci tiene a criticare la nozione moderna di progresso come accrescimento quantitativo e lineare di conoscenza e di libertà, in quanto “un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale” (n. 24). Per cui anche in una situazione materialmente e tecnicamente molto avanzata, come per esempio nell’Europa degli anni ’30 del secolo scorso, gli uomini sono stati capaci di creare sistemi di oppressione e di violenza come mai se ne erano visti prima.
Ma, nonostante queste ricadute sempre possibili, non possiamo non considerare lo sviluppo storico come appunto una storia, un processo, una successione non casuale di eventi, tanto che perfino il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di una “progressiva realizzazione nella storia” della Chiesa (n. 758). E’ infatti proprio la nostra cultura biblica, ebraico-cristiana, che ci ha insegnato a interpretare sempre la storia come una vicenda dotata di senso, di direzione, come cioè appunto storia della salvezza, in cui i tempi non sono affatto uguali tra di loro, ma sussistono tempi forti, svolte, fasi cruciali, tutte da leggere e interpretare, secondo il mandato del Cristo: “Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”( Lc 12,56).
L’Incarnazione del Pensiero creatore di Dio nella nostra umanità ha poi modificato radicalmente la sostanza stessa del tempo, ingravidandolo dell’Eterno, e indirizzandolo progressivamente alla propria consumazione. Noi viviamo cioè negli “ultimi tempi” (1Pt 4,7), nei tempi messianici appunto, lungo i quali il Regno, il Nuovo Ordine di Dio, cresce in noi e sulla terra come un seme, ineluttabilmente e continuamente (Mc 4,26-29). Benedetto infatti precisa che il Regno “non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo Regno è presente là dove Egli è amato”(n. 31). E l’esperienza della fede, questa nostra speranza nel Regno che viene, trasforma “dal di dentro la vita e il mondo” (n. 4), e lo trasforma lungo una storia, una vicenda precisa, che il nostro sguardo illuminato dallo Spirito dovrebbe essere in grado di interpretare, proprio per alimentare le nostre speranze. Per cui sperare nell’Eterno e sperare in un mondo anche storico migliorato e sempre da migliorare sono attitudini del credente che vanno a coincidere.
Insomma il concetto scientistico-materialistico di progresso era errato, ma un processo nella storia c’è eccome, e non possiamo mai sottrarci al compito di comprendere dove ci troviamo ora lungo la storia della nostra salvezza. In tal senso Giovanni Paolo II sottolineava con forza nella sua Enciclica Tertio Millennio adveniente: “Nel cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale” (n. 10), e si arrischiava ad interpretare tutta la storia della chiesa negli ultimi quaranta anni come preparazione al Giubileo del 2000, a sua volta interpretato come una soglia epocale decisiva, come avvio “di quella nuova primavera di vita cristiana” (n. 18), da tutti evocata e attesa.
E’ difficile in altri termini parlare compiutamente della speranza cristiana, che è sempre speranza dell’Eterna vita come compimento della nostra gioia (n. 12), che si fa però azione concreta e fermento storico di liberazione e di salvezza, senza scendere con maggiore precisione nell’analisi della fase epocale in cui stiamo operando oggi, specialmente in un momento come questo che possiede caratteri veramente ultimativi.
Come abbiamo visto Benedetto critica le concezioni moderne di progresso per differenziarle dalla vera concezione cristiana della speranza, ma la sua interpretazione non sembra rilevare a sufficienza il significato del travaglio “messianico” di questi secoli, in cui ambiguamente sono state conquistate tante nuove libertà e sono stati commessi tanti errori. Da questi limiti interpretativi – che limitano di conseguenza anche la carica autocritica oggi indispensabile per rilanciare la fede cristiana – deriva poi una certa debolezza della proposta per il futuro. Cosa dobbiamo e possiamo fare adesso alla fine dell’epoca moderna? Cosa significherà per noi cristiani e per l’Occidente cristiano, sempre più intriso di nichilismo, ritrovare la speranza e la forza di progettare un nuovo futuro, alimentandoci alle sorgenti dell’Eterno?
La fine dello scisma tra modernità e cristianesimo e il nuovo tempo che si annuncia
E veniamo all’ultimo punto della nostra riflessione, e cioè alle nostre prospettive di rinnovamento culturale. Benedetto ci indica un elemento fondamentale del nuovo tempo che si sta aprendo, lì dove auspica, come dicevamo, un’autocritica dell’età moderna in dialogo con un cristianesimo che si sottoponga a sua volta ad una profonda autocritica (n.22). Lo stesso auspicio lo aveva pronunciato d’altronde nel suo discorso a Subiaco, poco prima della nomina al pontificato, quando aveva indicato la stretta parentela tra la cultura illuministica e quella evangelica, e la necessità di una loro reciproca correzione: “l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità – anche della nostra fede – sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. E’ stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare a una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti. Con tutto ciò bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi”.
Le culture illuministiche sono chiamate a criticare la loro unilateralità scientistica, la loro assolutizzazione di una ragione chiusa in se stessa, e quindi l’assolutizzazione del piano politico, riscoprendo le radici cristiane e messianiche delle loro più autentiche aspirazioni alla libertà e alla fraternità universale. Mentre il cristianesimo storico, e la Chiesa cattolica in particolare è chiamata a continuare il processo autocritico avviato con il Concilio e portato avanti con coraggio da Giovanni Paolo fino alla “toccante Liturgia del 12 marzo 2000, in cui io stesso, nella Basilica di san Pietro, fissando lo sguardo sul Crocifisso, mi sono fatto voce della Chiesa chiedendo perdono per il peccato di tutti i suoi figli” (Novo Millennio ineunte n. 6).
Non dobbiamo avere paura, in altri termini, di purificarci di tutto ciò che nella nostra storia cristiana ha deturpato e distorto e spesso soffocato il nostro messaggio di speranza. Solo questa purificazione storica e strutturale potrà nuovamente liberare nel tessuto concreto delle vicende terrene la forza della nostra speranza nell’Eterno, come indicava ancora Giovanni Paolo già nel 1994, allorché sosteneva che la Chiesa “non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede, rendendoci avvertiti ad affrontare le tentazioni e le difficoltà dell’oggi” (Tertio millennio adveniente n. 33).
Ma anche le culture moderne dovrebbero avere il coraggio di comprendere le loro unilateralità, le loro presunzioni, i loro catastrofici errori.
Questa purificazione e correzione reciproca tra i due grandi filoni dell’Occidente moderno, la Chiesa cattolica e le culture scientifiche e politiche laicizzate, è un lungo e faticoso processo, attraverso il quale stiamo riscoprendo ad un nuovo livello che solo un uomo liberato nelle sue profondità interiori può costruire sulla terra forme di vita e di convivenza davvero liberanti, e parimenti che la libertà dello Spirito, e quindi una autentica vita di fede e di speranza, non può che tradursi in prassi di liberazione per gli altri, come ci ha ricordato il Concilio: “Dall’indole sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti” (Gaudium et Spes n. 25).
Allora la nostra speranza nell’Eterno diventa adesso, in questo frangente singolare e per molti aspetti unico della storia, anche speranza nella nascita di una nuova cultura che sappia coniugare la speranza nel Regno con tutte le speranze di giustizia e di libertà terrene, e investire con forza la vita liberata nello Spirito nei processi di liberazione concreta degli uomini da tutte le strutture di asservimento fisico e mentale che tuttora incombono sui nostri cuori.
Ringraziamo Benedetto perché ci ha ricordato che è solo la speranza nell’eterno compimento, e la gioia che a volte la nostra fede ci dona (n.12), che ci dà la forza di impegnarci fino in fondo nella storia, liberi da ogni condizionamento mondano e quindi davvero capaci di trasformare “dal di dentro la vita e il mondo” (n.4).
Pubblicato nel volume collettivo (R. Fabris, D. Garota, M. Guzzi, C. Militello, M. Tenace) Salvati nella speranza – Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, Ed. Paoline 2008