vivo della trasformazione
Il travaglio storico nel corpo della donna
In questi anni vertiginosi sembra che alcune decisioni cruciali sul nostro destino futuro si stiano elaborando dentro le vite sempre più complesse delle donne. E’ come se la trasformazione antropologico-culturale, cui siamo sottoposti, si evidenziasse con maggiore forza nei conflitti e nelle tendenze spesso opposte che le donne devono affrontare ed equilibrare nelle loro esistenze quotidiane.
L’orizzonte critico è certamente lo stesso per tutti, e lo descrive molto bene il filosofo della politica Charles Taylor: “Il primo timore ha a che fare con quella che potremmo chiamare una perdita di senso, con il venir meno degli orizzonti morali. Il secondo riguarda l’eclisse dei fini di fronte al dilagare della ragione strumentale. E il terzo concerne una perdita di libertà”.
Perdita di senso, eclisse dei fini, e offuscamento della libertà costituiscono le tre amare tonalità di un disagio crescente che tocca tutti e tutto: la dimensione privata ed esistenziale, le relazioni affettive, come i legami sociali, il mondo del lavoro, la sfera della politica, e, peggio che mai, quella delle telecomunicazioni. Eppure tutti questi conflitti e queste implosioni del senso, questi paradossi e queste schizofrenie, che la società contemporanea produce nel suo vertiginoso e tuttora ben poco pensato trans-formarsi, precipitano direi nel corpo della donna e nella sua vita, facendone una sorta di campo di battaglia universale. E qui non vorrei tanto riferirmi alle tematiche sull’aborto, sulla procreazione assistita, o sulla sessualità autogestita; e neppure ai vari conflitti di civiltà e religiosi, che il più delle volte ruotano proprio attorno a ciò che la donna dovrebbe essere o fare, non essere o non fare (dalla possibilità per le donne di avere la patente in Arabia Saudita fino al confronto tra le chiese cristiane sul ruolo della donna entro le comunità ecclesiali). No, qui vorrei riferirmi a qualcosa di molto più generale, a come cioè vorremmo fosse la donna come tale, a quali modelli alimentiamo, spesso in aperto conflitto tra di loro. In quanto mi sembra che questa occulta guerra di immagini idealizzate manifesti un confronto decisivo e forse definitivo tra progetti di umanità. Immaginando il ruolo della donna, cioè, e quindi di converso quello del maschio, stiamo di fatto decidendo che tipo di umanità progettare per il prossimo secolo, e quindi che tipo di mondo.
Dalle pari opportunità ad un nuovo progetto di umanità
Il fulcro del problema sembra essere ancora la tensione tra la donna/madre e la donna/lavoratrice.
Negli ultimi decenni il processo di emancipazione delle donne si è caratterizzato come ricerca delle “pari opportunità”: far sì che le donne possano fare tutto ciò che finora i maschi si erano attribuiti come ambiti specifici del loro genere. E così siamo arrivati alle donne marines o carabiniere, come la bella Manuela Arcuri della serie televisiva, a donne cioè che assumono sempre più l’aspetto di “veri ometti”, come sottolinea ironicamente Marina Terragni nel suo ultimo libro La scomparsa delle donne (Mondadori 2007). Col tempo però ci siamo resi conto, e specialmente le donne si stanno rendendo sempre più conto, che non tutti i lavori e le attività e le carriere sono poi compatibili col desiderio di essere mogli e di essere madri (ma nemmeno mariti e padri…), e quindi con un aspetto centrale, e non certo marginale né opzionale, della loro identità femminile. Stiamo perciò tornando a chiederci con nuova sincerità: ma questo tipo di vita “da veri ometti” è poi sostenibile per le donne? La società, che spinge le ragazze ad impegnarsi nel lavoro e nella carriera, le sostiene poi quando si sposano e diventano incinte? Che cosa pretende questo mondo dalle donne? Che siano manager affermate, mogli affascinanti, madri premurose, figlie affettuose, padrone di casa impeccabili, cuoche originali, e che altro? Magari amanti trasgressive, che fa tanto trend… E ancor più in profondità: esiste insomma o non esiste una identità di genere, un complesso di caratteri umani differenziati, prima di qualsiasi influenza storico-culturale? E quali saranno questi caratteri? Vogliamo ricominciare a pensare, uscendo dall’astrattezza ideologica, che ci sta portando direttamente all’estinzione della specie?
Oggi un vero modello di questa wonder woman, di questa super woman, è certamente Ursula von der Leyen, che è simultaneamente ministro per la famiglia del governo Merkel, affermata ginecologa con studio ad Hannover, e madre di ben sette figli. Ma anche la ex candidata repubblicana alla vice presidenza degli Stati Uniti, Sarah Palin, non scherza… Questi nuovi modelli più complessi mi sembrano comunque un passo in avanti rispetto all’immagine anni ’70 della donna emancipata, autonoma, “maschile”, che sceglie la carriera rispetto alla maternità, senza scrupoli e senza rimpianti. Eppure anche in queste nuove sollecitazioni massmediali ci sento un pericolo: il prevalere ancora una volta di una visione produttivistica della vita, e quindi di una prospettiva parziale, e in definitiva falsa e violenta.
La vita non è una rincorsa ad accumulare successi su ogni piano: sul lavoro, nella vita privata, o nello sport. La vita non trova la sua riuscita in questo accumulo spesso nevrotico e affannato, quanto piuttosto nelle piccole cose che riusciamo a vivere perfetta-mente. Dobbiamo ridirci con chiarezza che non ha alcuna importanza né quanti figli fai, né quanto ti affermi nella professione, ma solo il modo in cui vivi le tue giornate, il clima interiore con cui parli e ti rivolgi alle persone che hai intorno. Dobbiamo cioè, in questa soglia decisiva della storia del pianeta, ripartire dall’abc dell’umano, e quindi da domande elementari, del tipo: ma che cosa ci rende per davvero felici? Come ci sentiamo nei nostri posti di lavoro? Sono luoghi di vera umanizzazione, oppure stanno diventando luoghi spersonalizzati, anonimi, crudeli? Sappiamo riconoscere che le cose della vita hanno un loro tempo, e che non possiamo, ad esempio, posticipare alla terza età la costruzione di una relazione affettiva stabile, né tanto meno la nascita dei nostri figli? Perché non si parla quasi mai dei limiti biologici della maternità, invece di reclamizzare sempre l’ultima sessantenne che ha partorito con ovuli altrui? Perché non diciamo con chiarezza che in Italia già il 25% delle coppie ha problemi di infertilità, e che nel 2050 sarà il 50%? Perché non ci ricordiamo che dopo i 37/38 anni le donne hanno un calo naturale della quantità e della qualità dei loro ovuli? Perché non diciamo che il 20% delle coppie con problemi di infertilità, proprio quando la smette di ricercare affannosamente una gravidanza, la ottiene? E che cioè è evidentemente un’eccessiva tensione su tutti i fronti che spesso ci rende inidonei a fare spazio ad una nuova vita? Perché non ci diciamo che stiamo costruendo un mondo in cui nascere diventerà sempre più difficile e raro, e che quindi stiamo di fatto lavorando per la nostra estinzione?
Insomma mi sembra che dovremmo lavorare su due livelli diversi e quindi anche con una tempistica diversificata: da una parte è giusto sottolineare, criticare, ed attenuare l’arretratezza del nostro paese, in cui tuttora il 95% dei membri dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa è di sesso maschile, e in cui mediamente il maschio guadagna 1/4 in più delle donne. Ma dall’altra dobbiamo comprendere che la soluzione non sta semplicemente nell’incrementare dappertutto le quote rosa, ma nel rivedere radicalmente i criteri, i valori, le priorità su cui stiamo costruendo il nostro mondo. Non mi interessa molto cioè che una donna governi la Germania o diriga un’industria se poi non cambia nulla nella gestione del potere e quindi nella vita delle persone. Anzi, a volte le donne diventano i peggiori maschi, per dimostrare di avere anche loro “gli attributi”… La sfida è molto più vasta e tocca questioni antropologico-culturali, come dicevamo all’inizio, una vera e propria progettazione dell’umanità che vogliamo diventare.
Il lavoro è al servizio della felicità della donna e dell’uomo
Per prima cosa dobbiamo ricordarci con chiarezza che la soluzione di questa crisi non la troviamo se ci voltiamo indietro, verso il “bel tempo andato”, che non è mai esistito se non nelle fantasie di chi ha sempre paura di perdere i propri privilegi. No, nessun ritorno all’ordine patriarcale, per carità di Dio! “Bisogna rimanere assolutamente moderni”, come auspicava Rimbaud, tenere il passo conquistato, e andare avanti. E questo significa, per esempio, recuperare il senso più profondo della rivoluzione antropologica, entro la quale si manifesta anche l’emancipazione della donna. Questo senso, che va poi a coincidere con il senso evolutivo di tutta l’epoca moderna, è una liberazione complessiva dell’essere umano da tutti i pregiudizi sociali e religiosi che impediscono alla persona di crescere e di conoscersi liberamente. Questa liberazione però non può più significare per le donne rinunciare alla loro identità di genere e diventare tutte “veri ometti”. Oggi il processo di liberazione deve significare invece un ripensamento dell’intero schema produttivistico del lavoro e della vita, che l’unilateralità maschilista (e materialistica) ha imposto finora. In tal senso ha ragione Alain Touraine quando vede proprio nelle donne l’unico potenziale per porre rimedio alla deriva autodistruttiva della società consumistica.
L’emersione del pensiero femminile, e di un pensiero maschile non più unilaterale e sordo alle ragioni del corpo e del cuore, credo che dovrebbe porre al centro dell’attenzione culturale, e poi anche di una rinnovata progettazione politica, alcuni principi che sembrano dimenticati:
1)il lavoro non è il fine ultimo dell’uomo, ma solo uno strumento della sua realizzazione. Forse sarà anche giusto che la Repubblica Italiana si dica fondata sul lavoro, ma certamente la vita umana non lo è, come precisa bene il Catechismo della Chiesa Cattolica, rifacendosi alla Lettera enciclica di Giovanni Paolo II Laborem exercens: “Nel lavoro la persona esercita e attualizza una parte delle capacità iscritte nella sua natura. Il valore primario del lavoro riguarda l’uomo stesso, che ne è l’autore e il destinatario. Il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro”(n.2428).
2)La vita umana è invece fondata, dal punto di vista sociale, sulla ricchezza delle relazioni personali, corporali e affettive, da cui scaturisce alla nascita e di cui è intessuta in ogni momento: è a questo livello e con queste finalità di arricchimento umano complessivo che dovremmo ripensare anche la sfera lavorativa, altrimenti il lavoro diventa un’area alienata del nostro essere, uno spazio venduto alla violenza delle ragioni della produzione e del mercato.
3)Non esiste poi solo il lavoro produttivo in senso economico. La donna ha sempre lavorato molto più del maschio: a casa, nella cura dei figli, della casa, dei vecchi, e dei malati. Non è lavoro tutto questo? La società non dovrebbe valorizzarlo e considerarlo per quello che è: un elemento indispensabile alla prosecuzione della vita?
4)La felicità umana non dipende esclusivamente né prioritariamente dalla dimensione economica. Ce lo confermano anche le più recenti ricerche sociologiche: ad un certo livello la crescita di reddito non comporta affatto una crescita di soddisfazione o di felicità. Ancora una volta il nostro benessere complessivo dipende dalla qualità delle nostre relazioni, e in primo luogo della nostra relazione coniugale. Ma allora anche il lavoro dovrebbe subordinarsi a questa sfera più radicale e più decisiva della vita umana, senza togliere nulla all’importanza della crescita economica e dello sviluppo delle imprese, ma riconducendo però sempre queste sfere nella loro giusta dimensione, che è quella subalterna e strumentale rispetto al fine della liberazione complessiva dell’umano.
Io mi auguro che i processi di liberazione delle donne proseguano in questa direzione nuova, come un’insurrezione contro la dittatura del linguaggio economico e dello sguardo produttivistico, che posti al centro e al vertice dei nostri interessi finiscono per annientarci. Cosa che d’altronde sta già accadendo sotto gli occhi accecati di chi continua a fissarsi soltanto sui livelli del PIL o dell’inflazione.
Articolo pubblicato nella Rivista Formazione e Lavoro, n. 3/2008