Lo spirito umano nei tempi estremi
Ogni domanda essenziale e ogni riflessione seria sulle problematiche contemporanee dovrebbe partire sempre da una certa comprensione della specificità del momento storico che stiamo vivendo. Non credo cioè che sia possibile interrogarci sul “bene” o sullo “spirito” astraendo dalle modalità storiche del tutto singolari in cui l’umanità sta oggi incontrando e affrontando i propri problemi di fondo. E’ invece solo calandoci nel travaglio delle nostre crisi personali e culturali che forse potremo intuire qualcosa di ciò che lo spirito sta tentando di far fiorire in noi per il nostro bene.
In un suo testo Davide Maria Turoldo si chiedeva: “Sarà possibile muovendoci dall’interno stesso del carcere, dell’Io di questo uomo moderno, faustiano, e ora anche postmoderno, ancora più disperato e solo, perché figlio della pura techne, figlio senza ideologie, senza una sua decisiva filosofia: sarà ancora possibile, dicevo, un’uscita di sicurezza?”
Il nostro tempo possiede certamente caratteri di ultimatività, è un tempo estremo, in cui ogni situazione sembra essere giunta ad un bivio tra distruzione e rigenerazione profonda. Questa sua natura estrema lo rende però anche estremamente favorevole ad un possibile ricominciamento. La crisi in atto è cioè evidentemente grave, ma è nel suo profondo una crisi di crescita, di cui siamo tutti chiamati ad individuare e a far fiorire le tendenze evolutive.
Tutte le menti più illuminate del XX secolo erano d’altronde del tutto consapevoli di attraversare una soglia epocale decisiva e unica nel suo genere. Solo negli ultimi due o tre decenni questa consapevolezza sembra essersi appannata in un clima generale di stagnazione spirituale e di inerzia culturale.
Il filosofo francese Jean Guitton, ad esempio, scriveva: “Il mondo è sempre in crisi. Ciò che si chiama storia in fondo non è altro che il racconto di queste crisi, che si ripetono sotto forme diverse, ma inevitabilmente. Il problema di oggi è di sapere se la crisi attuale differisce in intensità o in natura dalle crisi precedenti. Sono portato a pensare che ne differisca in natura. (…) In questo ventesimo secolo dell’era cristiana, che può essere considerato un periodo provvisorio, tutto si muove come se l’umanità si trovasse alla vigilia di conoscere una crisi, che non riguarda più questo o quel incidente, ma l’esistenza dell’umanità in quanto tale”.
Non posso in questa sede approfondire il contenuto essenziale che rende questa crisi così singolare e di portata davvero antropologica, e cioè il fatto che l’intera figurazione egoico-bellica di umanità (che cioè fonda e rafforza la propria identità contrapponendosi all’altro da sé) tracolli manifestandosi come un principio incapace di dare ordine al mondo e senso alla vita umana. Ciò che però possiamo osservare facilmente intorno a noi sono gli effetti sconvolgenti di questo passaggio antropologico in atto da una figura di umanità ad un’altra. Vediamo in ogni ambito vacillare e liquefarsi le ragioni stesse della vita: dalla famiglia alla scuola, dalla politica al mondo del lavoro, sembra che tutto si svuoti di senso. E le nostre esistenze covano spesso una sorda disperazione in profondità, mentre in superficie si agita un’esistenza sempre più frenetica e decentrata, che produce disturbi psichici e fisici sempre più allarmanti.
Si sta, in altri termini, approfondendo uno stato di dissociazione tra i processi trasformativi reali (che sono appunto di portata antropologica e che la stessa cultura dominante tende a rimuovere) e il mondo del lavoro e della comunicazione, il mondo rappresentato. Questa scissione tra anima e mondo conduce poi a condizioni dolorosissime di alienazione sempre più inconsapevoli, tanto che oggi quasi nessuno parla più di alienazione. Siamo talmente fuori di noi da aver dimenticato perfino di esserci alienati?
Questa sofferenza sta d’altronde spingendo un numero crescente di persone a farsi di nuovo le domande di sempre: ma è tutta qui la vita, in questo alternarsi di orrore e pubblicità, che la TV ci comunica 24 ore al giorno? Ma che senso ha combattere per imparare, per allevare i nostri figli, per crescere, se poi tutto viene inghiottito nel nulla?
Questo ritorno delle domande di senso al bivio di una crisi esistenziale e planetaria definitiva può intanto considerarsi un primo riproporsi di tematiche spirituali in modo del tutto nuovo, con una nuova semplicità, direi, come se fosse la prima volta che ce le ponessimo.
Questa nuova semplicità nasce anche dalla caduta delle due grandi censure che avevano relegato le domande di senso negli archivi di un passato da superare. La censura scientistico-materialistica e quella materialistico-storica infatti avevano delegato tutte le domande sulla vita o alla ricerca scientifica o alla lotta politica, defraudando l’uomo della sua natura ultima. Oggi, al tramonto irreversibile di queste ideologie riduttivistiche e tendenzialmente totalitarie, le domande ultime tornano invece ad essere le prime che ci dobbiamo fare, ed esse irrompono con violenza inaudita nelle nostre vite quotidiane sempre più deprivate di qualsiasi senso acquisito. Il senso lo dobbiamo ritrovare giorno dopo giorno anche per alzarci la mattina e andare a lavorare. Il senso diviene il tesoro di una caccia indilazionabile, l’acqua in un deserto asfissiante. Una ricerca che perciò non ha nulla di astratto o di meramente intellettuale, ma che ha a che fare con la nostra sopravvivenza. Cerchiamo un senso cioè sul bilico tra disperazione finale e speranza nella redenzione del tutto. Questo mi pare innanzitutto il modo in cui lo spirito, e cioè l’elemento più propriamente umano dell’uomo, stia operando ai nostri giorni.
Se meditiamo un po’ sulla nostra domanda di senso, con la semplicità e la radicalità di chi sa che ne va della propria vita e di quella dei propri figli, comprendiamo che questo anelito ad una sensatezza compiuta struttura la nostra umanità come tale, in ogni sua manifestazione, è cioè un “esistenziale”, direbbe Martin Heidegger: l’esistenza umana è questa apertura ad un senso che eccede l’esperienza sensibile immediata che facciamo del mondo. L’esistenza umana è apertura costante ad una ulteriorità. Noi umani siamo fatti così, siamo aperti all’infinito, trascendiamo continuamente i limiti del mondo dato, e siamo proprio per questo liberi. Siamo principi liberi, in quanto trascendiamo tutte le determinazioni del passato e le cause necessitanti del mondo. Questa è la nostra dignità, che dobbiamo rivendicare contro tutte le forme di riduzionismo che continuano ad avvilire il nostro slancio verso l’infinito. No, l’essere umano è un essere folle, un essere proteso verso ciò che non ha limiti, verso l’assoluto, la bellezza piena, la vita eterna, la verità, la giustizia, la pace, tutte cose che semplicemente non esistono in questo mondo, ma soltanto in noi, nel nostro spirito appunto.
Dobbiamo rivendicare questa nostra follia, la bellezza folle della nostra umanità, il mistero trans-confessionale, del tutto laico, della nostra natura spirituale. Dobbiamo elaborare una nuova antropologia spirituale, accettando e valorizzando l’anelito alla gioia piena che ci costituisce, ci anima, e ci guida, prima di qualsiasi determinazione di fede religiosa.
Allora il grande problema che abbiamo dinanzi mi pare che sia quello formativo: come possiamo collaborare a far emergere la nostra umanità sempre più libera e consapevole di sé in questo transito planetario? Come posso più radicalmente liberarmi di tutti quei blocchi interiori e quelle paure che provengono dal mio passato e ostacolano la mia trans-formazione? Come posso sciogliermi dalle catene delle mie tante forme di alienazione? E fino a che punto potrà arrivare questa nostra liberazione nello spirito? Quale ultimo confronto si apre tra l’anelito umano alla libertà assoluta e il limite apparentemente insuperabile della morte? E proprio seguendo queste domande troveremo anche quelle relative al bene: cos’è concretamente bene per me in questa transizione critica? Come si sta manifestando il Bene per la nostra umanità smarrita?
In questa fase cruciale della storia servono perciò itinerari concreti di accompagnamento. Abbiamo tutti bisogno di accompagnarci vicendevolmente, e di essere aiutati a comprendere quali siano gli elementi psicologici e culturali che appartengono alla nostra umanità Morente e quali alla nostra umanità Nascente. Dobbiamo aprire una grande stagione di creatività culturale e di sperimentazione di gruppo. Ad una nuova antropologia deve far riscontro una nuova pedagogia della trans-figurazione, una pedagogia dell’uomo liberato ad un nuovo livello di profondità, di un uomo e di una donna che saranno in grado di creare un mondo meno bellico, attingendo alle fonti della loro pacificazione interiore.
Intervento tenuto a Cuneo all’interno della rassegna “Parole tra i continenti” – 25 febbraio/ 2 marzo 2008