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Un fuoco non visto incendia la terra

Lo Spirito ci libera dall’ego, anche da quello cristiano

Un rivolgimento inarrestabile troppo poco pensato

A volte sembra che in certi momenti della storia l’umanità faccia di tutto per non vedere ciò che ha sotto gli occhi, per non occuparsi delle più evidenti emergenze, per distogliere lo sguardo da sé e proiettare la propria attenzione il più lontano possibile, in mille e mille falsi problemi o in pure e semplici futilità.
Uno di questi momenti è proprio il nostro.

Stiamo vivendo una crisi di portata antropologica, in cui, come leggiamo nella costituzione pastorale Gaudium et spes è “in pericolo, di fatto, il futuro del mondo”(n.15), ed entro i vortici trasformativi della quale si sta riformulando la nostra stessa identità, le modalità strutturali del nostro essere un io, un soggetto umano, e quindi anche tutte le forme storiche della convivenza (famiglia, democrazia, scuola, stato, chiesa), e, mentre è in atto questa sorta di terrae-motus spirituale e culturale, i dibattiti che dominano la scena pubblica sembrano concentrarsi su questioni di contorno, su particolari a questo punto irrilevanti, se non addirittura su pure e semplici scemenze.
Talvolta sembra di trovarci a litigare su chi debba prendere posto ai tavoli migliori nel salone delle feste del Titanic, a due o tre minuti dall’Urto.

In questi ultimi 25/30 anni poi la consapevolezza dell’entità dei rivolgimenti in corso si è appannata in modo davvero drammatico. Sembra di attraversare una sorta di pausa-pranzo, di fase digestiva della storia, che però, siamone certi, durerà poco. E il risveglio potrebbe anche non essere molto piacevole, in quanto stiamo sprecando anni decisivi, che dovremmo impiegare invece per profondissime e serissime revisioni personali e culturali, invece di “far finta di essere sani”, e continuare ad amministrare le scene di un mondo che crolla da tutte le parti.

Purtroppo questa strategia miope, questo chiudere gli occhi davanti al pericolo invece di spalancarli e di intervenire adeguatamente, attraversa anche la Chiesa cattolica. Forse ci si illude ancora una volta che le crisi periodiche della modernità possano aprirci ad un riflusso premoderno, ad una risacralizzazione di usi e costumi medioevali. Ma è davvero una penosa illusione, che purtroppo ha spesso invaso la coscienza ecclesiale cattolica negli ultimi secoli, ma con esiti sempre di brevissima durata e sostanzialmente catastrofici: dopo ogni Restaurazione infatti il ciclo delle rivoluzioni e dei rivolgimenti sociali e culturali è sempre ricominciato con nuova e maggiore aggressività e unilateralità, aggravata proprio dagli irrigidimenti difensivi. E le resistenze sono state miseramente travolte, costringendo spesso la Chiesa a rincorse disagevoli e penose.

La Chiesa cattolica farebbe bene perciò a tenere a mente queste parole illuminanti di uno dei suoi maggiori filosofi novecenteschi, Jean Guitton: “Non vedo nella storia una crisi che sia paragonabile a quella che conoscerà il secolo XXI. Stiamo avanzando verso trasformazioni più grandi, verso eventi imprevedibili, di un’importanza inaudita”. Prendiamone atto dunque e apriamoci alla luce dello Spirito per interpretare il senso evolutivo di ciò che viviamo.

Lo Spirito dell’umanità nuova travolge le forme egoico-belliche di civiltà

Vorrei subito precisare che a mio parere questa crisi è una straordinaria opportunità evolutiva per tutta l’umanità. Stiamo crescendo. Ed è in questa prospettiva che dovremmo tentare di leggere anche il fenomeno dell’incontro tra le culture e le tradizioni religiose. E’ infatti la prima volta che nell’intero arco della storia delle civiltà le religioni incominciano a conoscersi in profondità, riconoscendo inoltre il valore delle rispettive credenze. Per la prima volta cioè il linguaggio che scaturisce dal contatto tra le diverse culture non è più solo quello della guerra, del rifiuto violento e della demonizzazione.

In ambito cattolico leggiamo, per esempio, nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, dedicata proprio alle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane: “La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini”. Era il 1965. Nel 2001 poi Giovanni Paolo II sembra andare molto oltre, quando suggerisce nell’Enciclica Novo Millennio Ineunte che il cristiano possa addirittura apprendere aspetti nuovi della propria stessa fede mediante l’ascolto dialogante delle altre religioni: “Il dovere missionario, d’altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto. (…) Questo principio è alla base non solo dell’inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che ‘soffia dove vuole’(Gv 3,8), suscita nell’esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori”(n. 56).

Bene, allora chiediamoci: che cosa ci sta insegnando lo Spirito attraverso questi fenomeni? Che cosa ci sta educando ad apprendere e cosa ci sta spingendo ad abbandonare? Noi sappiamo che lo Spirito della nuova umanità, inaugurata da Gesù Cristo duemila anni fa, continua a trans-figurarci (2Cor. 3,17-18), e cioè a liberarci progressivamente delle distorsioni dell’uomo vecchio, delle sue passioni omicide, della sua strutturale alienazione, di tutte le sue menzogne e mezze verità (Gv. 8,31).
E allora da che cosa ci sta liberando adesso lo Spirito? In questa svolta grandiosa in cui siamo coinvolti?

Mi pare che a queste domande potremmo iniziare a rispondere così: Ci sta liberando da tutte le forme belliche in cui ci siamo abituati da millenni a vivere, e a vivere anche la nostra fede. Ci sta liberando dall’illusione, tipica dell’uomo vecchio, che la forza e la solidità del nostro essere (e della nostra identità) derivi dalla contrapposizione, dall’esclusione, o dalla diretta eliminazione dell’altro, del diverso da me. Ci sta cioè liberando dalla modalità falsa di concepire la nostra identità umana (di genere, religiosa, etnica, nazionale, di stato, casta, classe etc.) come un possesso da difendere, come un fortilizio da munire di armi, o comunque come una struttura chiusa in se stessa: de-finita. Ci sta liberando, in sintesi, dal nostro io bellico, in quanto ego-centrato, come principio fondatore della cultura (religiosa e/o politica).
E questa è davvero una svolta antropologica, in quanto finora tutte le civiltà della storia sono state belliche, si sono cioè fondate proprio sulla contrapposizione polemica nei confronti dell’altro-da-sé.

L’intero XX secolo in questa prospettiva può considerarsi come un tempo unitario in cui la forma chiusa (ego-centrata) dell’identità umana si è mostrata fino in fondo per quello che è: un principio di guerra e di devastazione, un principio incapace di portare avanti la storia del pianeta se non verso la distruzione, un principio omicida e cosmicida al contempo.
Parallelamente, nelle ricerche scientifiche, filosofiche, e artistiche più avanzate, questa figurazione egoica della soggettività umana veniva profondamente relativizzata e mostrata nella sua radicale insufficienza a dare un senso alla vita e un fondamento alla conoscenza: da Rimbaud a Freud, da Nietzsche a Heidegger, da Heisenberg a Bohr, solo per fare qualche esempio.

Lo Spirito chiama innanzitutto le chiese cristiane alla conversione

E allora: che cosa significa incarnare oggi un cristianesimo non più bellico? Che cosa significa essere cristiani in modo post-egoico, e cioè maggiormente assorbiti nella vita dello Spirito pentecostale? Come possiamo rapportarci alle altre tradizioni del mondo in modo non polemico, non intrinsecamente bellico, a prescindere dagli atteggiamenti diplomatici di superficie?

Vorrei proporre alcuni passaggi riflessivi, che potremmo riassumere così:
a)superare la forma bellica della nostra identità richiede conversione continua;
b)questa conversione (personale ma anche culturale/ecclesiale) ci apre ad una forma viatica di identità, che è poi l’autentica identità cristiana; c)e quindi ad una forma processuale di rivelazione della verità “tutta intera”;
d)che si offre alla nostra comprensione-assimilazione proprio aprendoci all’alterità e all’autotrasformazione nella relazione, e cioè attraverso un dialogo reale con le altre tradizioni.

a) Innanzitutto mi pare essenziale comprendere che, se vogliamo entrare in questa fase in modo creativo, senza subirne soltanto gli scossoni nell’impotenza di chi si identifica troppo con ciò che muore, dobbiamo viverla come conversione, purificazione, e pentimento. Lo Spirito dell’umanità nascente infatti si dà soltanto a chi sappia morire a ciò che deve morire, e che non si soffermi nemmeno troppo a seppellirlo.
Siamo chiamati ad un lavoro costante e severo di conversione proprio in quanto cristiani, perché le radici egoiche del nostro cristianesimo sono profondissime dentro il corpo della Chiesa. Già Paolo VI, nella Evangelii Nuntiandi, sosteneva che la Chiesa “ha bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il Vangelo. Il Concilio Vaticano II ha ricordato e il Sinodo del 1974 ha fortemente ripreso questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità”(n. 15).

Ma certamente la richiesta di perdono compiuta da Giovanni Paolo II nella prima domenica di Quaresima del 2000 segna uno spartiacque decisivo. La grande confessione dei peccati commessi dai cristiani nell’imporre agli altri la loro verità, nel distruggere per sete di potere e arroganza “ego-teologica” l’unità della Chiesa, nei rapporti persecutori con il popolo ebraico, e nel calpestare reiteratamente i diritti della donna e i diritti fondamentali della persona; questa straordinaria confessione rappresenta un nuovo principio nella storia del cristianesimo, un atto profetico ancora tutto da comprendere e da assorbire in comportamenti adeguatamente innovatori. Ed infatti il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, redatto dalla Commissione teologica internazionale come accompagnamento esplicativo della richiesta di perdono, manifesta quasi con imbarazzo l’unicità, la singolarità epocale di questo atto penitenziale: “In nessuno dei giubilei celebrati finora c’è stata, tuttavia, una presa di coscienza di eventuali colpe del passato della Chiesa, né del bisogno di domandare perdono a Dio per comportamenti del passato prossimo o remoto. E’ anzi nell’intera storia della Chiesa che non si incontrano precedenti di richieste di perdono relative a colpe del passato, che siano state formulate dal magistero.” Qui non si è trattato infatti della ordinaria richiesta di purificazione che la Chiesa (semper reformanda) ogni giorno pone dinanzi a Dio, ma di una presa di coscienza inedita di errori strutturali che hanno per secoli deformato l’intera prassi pastorale, e quindi la stessa identità dei cristiani. Questo è il punto: rileggendo l’intero passato del cristianesimo, e confessandone le modalità distorte, egoistiche, e quindi violente, che connotavano l’espressione storica della loro fede, i cristiani si aprono ad una nuova modalità dell’essere cristiani, e cioè propriamente ad una profonda trasformazione della propria identità.

Lo Spirito ci dona l’identità del pellegrino

b) Oggi si parla molto dell’identità cristiana da recuperare, per difenderla dagli attacchi sempre più decisi della cultura dominante. Ma di quale identità parliamo? Quale forma (psicologico-culturale) di identità dovremmo difendere? La forma egoico-bellica di cristianesimo che abbiamo alle spalle? Il cristianesimo delle proclamazioni ideologiche, dell’odio contro il miscredente di turno? Il cristianesimo degli eterni lapidatori dell’adultera o del transessuale? Il cristianesimo di chi è sempre pronto a giudicare e a condannare, a puntare il dito contro il fratello e a denunciare la pagliuzza nell’occhio della sorella? Di questo cristianesimo gridato e isterico dovremmo tornare ad essere “orgogliosi”?
Quando vedo in televisione alcuni intellettuali nostrani difendere i valori cristiani con certe facce e certi toni, mi vergogno terribilmente della controtestimonianza che diamo alle sorelle e ai fratelli che non credono, e che attenderebbero dai cristiani ben altra luce…

Questo cristianesimo bigotto e di facciata è solo la versione bellica della fede cristiana. Questo cristianesimo è morto e sepolto da tempo ormai, anche se potrà continuare a fare molti danni, come ogni zombi, che vive vampiristicamente della linfa vitale degli altri. Questo cristianesimo è ancora una volta il solito e vecchio cristianesimo egoico-bellico, e cioè un cristianesimo utilizzato per duemila anni dal nostro uomo vecchio per rafforzare la propria voglia di uccidere.
Lo Spirito di Cristo ce ne sta liberando. Alleluia.

Liberarci dalle nostre deformazioni egoico-belliche (anche “cristiane”) è però un lavoro continuo, come ci hanno sempre insegnato i santi. E’ un lavoro che deve andare in profondità, incontrare le nostre paure infantili, le nostre difese, le nostre compensazioni “spirituali”, i nostri irrigidimenti morali dentro le sicurezze della legge, le nostre maschere farisaiche, i nostri infiniti modi di ingannarci. E’ solo questo lavoro quotidiano però che può farci comprendere che cosa significhi per davvero “identità cristiana”. Insomma come possiamo affermare la nostra identità di cristiani dopo il tempo della guerra? senza diventare cioè fondamentalisti, e metterci subito sulla difensiva, o aggredire gli altri?

Io credo che ancora una volta il problema sia essenzialmente spirituale.
Partiamo da questo passo fondamentale della Prima Lettera dell’evangelista Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è”(3,2).
Io sono dunque già me stesso, sono già umanamente rinnovato, ma questo mistero del mio vero essere, della mia vera identità, non è stato ancora rivelato. Io sono perciò qui sulla terra in via di manifestazione, in attesa di scoprire il mio vero volto. Per cui quanto più io sono cristiano, tanto più, in un certo senso, non so pienamente chi sono e non sono ciò che posso presumere di essere: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria”. (Colossesi 3,3-4)
La mia identità cristiana è perciò paradossale: più io sono di Cristo e in Cristo (nascente) e meno mi possiedo, anche concettualmente, meno posso cioè definire con precisione la mia identità, se non nei termini metaforici di un cammino, di un uscire da me, di un andare verso, di un essere chiamato, di un dono ancora in buona parte “nascosto”, di una nascita in atto.

Lo Spirito ci insegna una verità da incarnare aprendoci all’ascolto dell’altro

c) Se l’identità cristiana è per sua natura viatica, è chiaro poi che anche il nostro concetto di verità non potrà che essere processuale. Dopo l’Incarnazione della Verità nell’Uomo Gesù Cristo, la verità non può più rinchiudersi in nessun contenuto “oggettivo”, concettualmente definibile una volta per tutte e quindi fisso e possedibile dall’uomo, il quale è ancora in transizione (con le forme stesse del proprio pensiero) verso di sé. Le verità concettualizzate (e cioè i dogmi) sono più che altro misteri (paradossali) da realizzare: Dio è Uno e Trino, Gesù è Uomo e Dio, Maria è vergine e madre, in Cristo io ho già la vita eterna anche se muoio, etc. E questi misteri li realizzo proprio trans-figurandomi, mutando e rovesciando la mia mente egoica (meta-noia), e non certo consolidandola con la presunzione (sempre bellica) del possesso teorico della verità. Finisce così la metafisica come pretesa di trovare fondamenti razionali, ultimi e definitivi, dell’essere, di razionalizzare (egoica-mente, e quindi polemica-mente) lo stesso essere di Dio. Anche se questa fine, come sappiamo, ha poi impiegato circa duemila anni a manifestarsi fino in fondo, almeno in alcuni ambiti del sapere e della ricerca. La conoscenza della verità comunque dopo Cristo diventa la faticosa via del nostro diventare persone divine: siamo cioè chiamati a diventare veri per conoscere la verità, non c’è altra via: la verità è la nostra nuova umanità, e resta perciò parziale e processuale nel suo rivelarsi, fino al compimento dei tempi di questa trans-figurazione.

d) E’ in questo orizzonte spirituale, è cioè dentro questa esperienza mistica del mio essere in cammino con tutti gli altri uomini verso la piena rivelazione della nostra unità in Cristo, che io potrò seriamente incontrare le altre tradizioni religiose nello Spirito. Incontrare una diversa tradizione nello Spirito significa però innanzitutto essere nello Spirito, respirare il suo respiro, vivere quella autentica povertà (trans-egoica e post-bellica), anche di idee o di presunte certezze, che ci rende flessibili e aperti, perché pieni d’amore per chi ci sta davanti. E’ cioè solo nello Spirito della Pentecoste, Spirito che ci sta proprio adesso liberando di tante prigioni egoiche, che posso veramente parlare la lingua dell’altro, una lingua che dunque avrò prima imparata, conosciuta, amata.

Personalmente nella mia vita ho dedicato e dedico tantissimo studio e amore alle Scritture hindù, alla Bhagavad Gita, alle Upanishad, al neoinduismo di Aurobindo e di Vivekananda, e specialmente alla pratica dello Yoga di Patanjali; ho amato il mistico islamico Gialal-ad-Din Rumi fino a sognare di andare in Iran per imparare la sua lingua, ho meditato per anni sui testi sapienziali cinesi, su I King e sul Tao Te King; ho imparato così tanto dalla costante meditazione dell’insegnamento del Buddha e dal suo sorriso.
E continua per me ogni giorno questo ascolto profondo che apre al dialogo reale, mentre la mia fede nell’unicità del Cristo mi pare farsi sempre più forte, ma anche sempre più umile e servizievole e povera e disarmata.

Soltanto cristiani sempre più integralmente cristiani, e cioè sempre più liberati dallo/nello Spirito di Dio, avranno anche sempre meno timore di imparare dagli altri, di parlare addirittura la lingua degli altri, perché è proprio così che lo Spirito di Cristo, la nostra nuova umanità trans-egoica e post-bellica, cresce su questa terra, fiorendo dai rami di tutti gli alberi, dalle profondità di tutte le tradizioni.
Il cristianesimo insomma non è un’ideologia da difendere, né un’appartenenza da sbandierare, ma una vita nuova da donare a chiunque affinché trovi in essa il compimento della propria storia. Questa è l’autentica novità. Questa è l’unica buona notizia, una notizia che è vita, pane, salute, consolazione, pescato in abbondanza. Oppure è niente, aria fritta e moralismo da quattro soldi, se non addirittura pura e semplice volontà di potenza e aggressività.
Parafrasando Gesù (Gv 8,39) potremmo dire a noi stessi: se siamo fratelli di Cristo e suoi discepoli facciamo le opere di Cristo, invece di proclamarci cristiani con “orgoglio”, e cioè rimanendo nel “grande peccato” (Sl 18,14).

La grande purificazione è iniziata. Alleluia.
La Pentecoste è come un’onda, si atteggia secondo le rive.
Facciamoci perciò ansa, facciamoci penetrare.
Facciamoci voce e canto inaugurale:
canto dell’Uomo Nascente.
Facciamoci carezza disarmante del suo Respiro
.

Testo pubblicato nella Rivista “Religiosi in Italia” della CISM (Conferenza Italiana Superiori Maggiori), n.360, maggio-giugno 2007.