ricordando Giovanna Sicari
Primo dialogo
Carissima Giovanna,
non posso parlare di te in modo astratto e impersonale, ho bisogno di parlare con te, anche perché ti sento vicina e presente. Dove sei ora? Sei qui, ma qui dove? Mi è abbastanza chiaro che tutta la nostra esperienza sensoriale, tutto ciò che in questo momento vedo e ascolto e posso toccare o odorare o gustare, si articola in una dimensione complessiva che è quella dello spazio-tempo. Il corpo fisico è la nostra espressione entro questo spazio-tempo, in cui facciamo tutte le nostre esperienze attraverso lo spettro, il filtro, le possibilità ricettive dei cinque sensi. In questa dimensione tu non ci sei, il tuo corpo fisico io non lo posso vedere, e ciò mi dà molto dispiacere. Amo il tuo ridere fresco, alla romana, de core. E mi manca.
Quante risate ci siamo fatti insieme, specialmente sulle illusioni di noi poeti, ragazzini ancora così infantili da dare importanza a cose da nulla: recensioni, premi, antologie… Ridevi all’improvviso come uno scroscio di acqua pulita. Tu ridi così. Anche ora tu ridi, non ti vedo, ma ti sento. Dove sei allora? Nella mia memoria? In questo spazio che rende presente e vivo, acutamente vivo, qualcosa che fisicamente non c’è più? Una dimensione cioè che incombe e trasmette precise sensazioni al mio corpo fisico al di là di tutto ciò che per lui è ora spaziotemporalmente esperibile? E in quale corpo si origina e vive questa memoria? Possediamo altri corpi e viviamo quindi in altre dimensioni compenetrate con quella fisico-materiale?
Non voglio proseguire però in questa direzione del pensiero. Io so che tu sei in qualche modo presente, e che c’è quindi una dimensione non spaziotemporale in cui io posso incontrarti e parlarti. Tu sei lì e quindi qui per me, se anche io mi sposto lì e imparo a pensare al di là di tutto ciò che i miei sensi mi possono fare esperire e anche al di là di tutto ciò che la mia attività razionale può elaborare sulla base delle percezioni sensoriali. Noi due sappiamo pensare così, anzi io credo che tutta la nostra attività poetica non sia altro che un lungo esercizio per imparare a pensare entro una zona pre-spaziotemporale, per cui eterna e ubiqua?, da una zona genetica comunque, iniziale, pre-istorica cioè, in cui anzi il visibile e il dicibile prendono figura, si generano appunto. Fare poesia = imparare a pensare, e quindi a parlare, pro-creando il visibile/dicibile dal suo principio, e cioè nella libertà. Pensare cioè non da schiavi, da semplici enti inseriti dentro la gabbia spaziotemporale; ma da entità libere che col loro pensiero pro-creano il mondo, cantando la lode di tutti i suoi nomi, ridicendoli in bella, dicendoli cioè dal loro stesso principio: corretta-mente, e quindi finalmente bene-dicendoli. Poetare significa perciò pensare al di là della nostra mente legata ai sensi, rovesciandola anzi ad ogni respiro, ad ogni accapo, e quindi pensare/parlare da rovesciati: meta-noica-mente.
Ho la netta impressione che in questo momento tu sia molto contenta. E’ come se mi stessi dicendo: Bravo! E’ proprio così! Ho la netta impressione che tu mi stia guidando, tu vuoi che io scriva queste cose, che in realtà non pensavo affatto di scrivere.
“Noi saremo liberi, amico caro, dimenticheremo
questo fluire premendo il pulsante d’addio, lo stesso
di un fax o di una segreteria che incessantemente
ripete il nostro nome in direzione di bocche e orecchi,
freme, scivola nell’orbita di un tutto o niente che intrappola
la mente, il sangue, le vertebre, quel
niente che non dà pace.
Sì, si chiama mente e non dà la pace”. (EI 104)
Secondo dialogo
“Amico mio perché nell’aria non c’è pace?”(EI 105)
Tu volevi la pace, come tutti noi d’altronde; ma il tuo cuore era spesso oscurato da un pesante senso di colpa. Noi ci sentiamo in colpa, infatti, e così perdiamo la pace. Sentirsi in colpa significa essere divisi dentro di sé, essere lacerati, odiarsi, e quindi essere necessariamente ostili e pieni di odio anche verso gli altri. La pace al contrario è il sentimento dell’integrità interiore, dell’unità, della riconciliazione degli opposti, che quindi ci predispone all’accoglienza reciproca e all’amore. Ecco perché, nella nostra fede, è solo in quanto siamo perdonati e liberati da ogni colpa, che possiamo costruire autentiche relazioni di pace.
“e lì vivremo senza capire
nella grandezza di chi è libero da colpa”. (EI 105)
Sei lì adesso? Hai compreso finalmente che la colpa siamo spesso noi stessi che ce la teniamo stretta, credendo, magari inconsciamente, che essa sia la nostra più profonda identità? Mi sembra che tu dica di sì. Ora tu vedi chiara-mente. Molte cose appaiono ridimensionate alla luce dell’eterna luce, e cioè osservate nella giusta prospettiva.
Terzo dialogo
Eri stupita di ritrovarti a via Poerio. Eri andata a finire proprio in una clinica situata nella strada ove abitavi da bambina, in quel quartiere di Roma che fu una delle tue più forti matrici emotive.
“Per otto anni, dal’62 al ’69, Roma era per me il luminoso sedimentarsi di un nucleo poetico che si snodava intorno a poche ma essenziali strade: via Barrili dove mi recavo a scuola, via Poerio dov’era la casa, via Carini, via Guerrazzi, via Dandolo, piazza Rosolino Pilo” (LE 30)
Proprio a piazza Rosolino Pilo abbiamo celebrato il tuo funerale. “Come te lo spieghi, Marco?” mi chiedevi, “non può essere un caso”.
Un poeta non crede nel caso, ma in un destino senza necessità costrittiva, in un destino poetico appunto, essenzialmente coniugale, fatto di ricezione e di risposta, di dati (fisici e psichici) ricevuti e di impegno a dare loro un senso, a pro-crearlo appunto questo senso, che se non sono io a farlo venire fuori semplicemente non c’è. Un destino cioè in cui la libertà creativa è proporzionale alla nostra capacità di assumercene la piena responsabilità, senza vittimismi o determinismi, nella più alta considerazione del ruolo poetico dell’uomo entro il creato.
Questo destino diventa allora vocazione riconosciuta, corrisposta, un rispondere a qualcuno che ci invia per qualcosa, e quindi in definitiva missione, altra parola che tanto ami, Giovanna: “Lui continua a salvarmi/ dovevamo compiere una strana missione”(EI 57).
Dunque, se non è un caso, tu sei finita a via Poerio perché qualcosa nella tua esistenza doveva (col tuo pieno consenso) andare a finire proprio lì, dov’era incominciata. Un cerchio doveva andare a chiudersi. Su questo concordavamo, e la cosa non solo non ti incuteva alcuna paura, ma anzi la vivevi con gioia, addirittura con entusiamo. Che finisca questo ciclo, che si compia questa partita! Un’altra sempre e comunque comincerà, e sarà migliore di quella finita. Questo abbiamo sempre creduto insieme: In my end is my beginning (Eliot), anche se la fine alla fine sarà proprio la morte. Anche lì ci sarà del nuovo da trovare.
Così finisce infatti il tuo libro finale, così finisce la tua vita terrena, proprio con la poesia Trova il nuovo.
“Trova il nuovo grande come bara
l’amore folle che guarisce, affonda in una morte
che non ricorda, poi qui sarà tutta nuova la cascina
ci sarà la nuova vita”(EI 116)
Per te è certamente molto più chiaro adesso che cosa si sia compiuto a via Poerio, quale missione hai portato a termine e quale altra stai ora avviando. Ti prego solo di restarci vicina e di aiutarci. So e sento che puoi farlo, così come noi da qui ti invieremo ogni pensiero di luce, ogni giorno, te lo prometto, per aiutarti a divenire sempre più leggera. Non è questa la comunione dei santi? L’aiuto reciproco che possiamo offrirci tra le due dimensioni, affinché proceda il grande disegno: la divinizzazione, e cioè la piena realizzazione terrestre dell’uomo?
Quarto dialogo
Ho riletto tutti i tuoi libri, ed ho notato che il tema della salvezza è presente fin dall’inizio del tuo lavoro. Non nasce cioè con i travagli della malattia, ma è ben più radicale in te: tu da sempre vuoi guarire!
“Mare colmo, irrequieto, calmati per guarirmi!
Ah dalla rupe, sole giudice pretestuoso,
giglio di mare, sorprendimi, supera
il bordo della riva, il panegirico
per dirmi salva.” (D 56)
Essere guarita, essere salvata come qualcosa che può venire solo da fuori, da una sorpresa, da un dono. In tal senso tu sei cristiana nella carne, anzi direi ebraico-cristiana. Qui non c’entra niente la fede intesa come credenza o ideologia. Qui parliamo propriamente del mistero della carne che si impregna di una parola che la dinamizza, la energizza fino a farla vibrare ad un’altra lunghezza d’onda. Per cui più siamo radicati nel profondo carnale del nostro essere e più siamo carnalmente, e cioè poeticamente cristiani, o meglio, cristificati, amalgamati, impastati di Cristo, di una umanità deificata. Tu sei così. Perciò ci siamo capiti subito, prima ancora di comprendere noi stessi che era proprio questa realtà di carne cristiana che ci univa, e ci unisce per sempre, in quanto il Corpo è lo stesso, sia che siamo vivi come entità fisiche sia che siamo vivi in altro modo. Il Corpo è lo stesso, ed è Uno.
Tu hai sempre voluto la salvezza della carne, di tutta la tua umanità: carne, e sangue, e stelle, e sesso, e cuore, e cosce, e spirito, e petto, e cielo: senza distinzione, senza scissioni moralistiche. Per te la salvezza è la vita nella sua massima pienezza.
“Ora chi ci salva in questo salto
di carne e di ardore, chi, gentile,
ci rende quelle cose
che fanno oro, fortuna, salute.” (EI 88)
E ripeti:
“ partecipare alla vita
degnamente, chiamare,
andare fieri, con la mano
tesa, tersi, gentili
nel vertice di quelle cose che
si fanno senso, fortuna, salute”.(EI 82)
Tu vuoi l’apocatastasi, il corpo risorto, il regno, con tutti i suoi doni: oro, fortuna, senso, salute, pace, benessere, e vino e pane e gioia in abbondanza: “venga la gioia / con fulmini e alluvioni”(EI 57). Perché solo un trionfo di tutta la nostra carne umiliata in una Resurrezione del Cosmo potrà colmare e annullare tutto il dolore millenario delle generazioni umane: tutto il dolore che hai sofferto.
In fondo è una questione di giustizia, e tu sei molto sensibile alla giustizia, all’ordine di senso che deve prima o poi manifestarsi: ebrea e cristiana anche in questo.
Quinto dialogo
Giovanna, ogni volta che ti penso mi sembra di risentirti: Ehi, Marco! Sempre con quel tuo tono allegro e pieno di bontà. Anche quando eri già molto malata e ti telefonavo o ti venivo a trovare, il tuo saluto era sempre lo stesso: ehi, Marco!, come se la mia chiamata o la mia visita fosse sempre per te una piacevole sorpresa. Era bello sentirsi accogliere così, da un cuore accogliente appunto, benevolo, vasto.
Quando sono finiti i tuoi giorni terreni ho subito avvertito che tu volessi aiutarmi, aiutarci, che insomma tu volessi continuare la tua missione donandoci luce e accompagnamento. Tu vuoi proseguire il tuo lavoro. Ma quale lavoro? Come vuoi aiutarci a riorientare la nostra vocazione di poeti?
Provo ad ascoltarti. Guida tu la mia mano, scegli tu i testi che ci possano illuminare.
“Sono nella frenesia
della strada che pare insensata
il dolore dei tanti mi giunge
come un passo attutito
è tanto e dolce, è di pietra
questo loro terrore, si accostano
e chiamano, è in bilico la mente
chi dirà santo questo percorso
chi laverà le nostre prediche
di sangue, chi capirà l’oltraggio
la scomparsa, la salvezza.
Dio, dà ganbe forti
a quanti sono all’erta in questa notte.” (S 44)
Siamo dunque su una via che sembra davvero senza senso. Tutti noi, sia come singole persone che come civiltà ormai planetaria. Il dolore è tanto. Il dolore di tutti gli uomini chiede una parola, un conforto, una direzione. La mente è in bilico. La nostra mente ordinaria vacilla, non ha più parole. Chi di noi sarà in grado di vedere e di proclamare la santità, la bellezza, la direzione salvifica di tutta questa sofferenza? Chi di noi annuncierà al mondo che questa notte piena di terrori e di noncuranza è in realtà la Vigilia di Natale, titolo che hai voluto dare a questi versi?
Il poeta del XXI secolo è allora chi canta la Nascita nel buio solstizio, nel punto più buio dell’anno, tra le stragi di tutti gli innocenti e l’odio di tutti i poteri derivanti dall’anno che va a finire, e dalla figura di umanità che in questa fine sprofonda?
Chi è il poeta? E’ colui che riceve “il fuoco dell’altra verità” (EI 81), il fuoco della visione? È colui che vede il risvolto di tutte le cose, di tutti i destini dannati? Che vede cioè il Risorto nel Crocifisso, e lo vede già da ora, e lo fa vedere a tutti perché parla al di là di ogni evidenza sensibile o razionale, perché parla con lingue di fuoco che dicono il Nuovo Principio, l’Inizio del Vero Uomo?
Tu volevi questo fuoco, Giovanna. Un fuoco di visione che è amore, poesia, Spirito.
“Dammi, dammi un amore che obblighi
al silenzio, che abbia ossigeno e ventate
secondo l’uso del corpo e della mente, che possa
entrare dalla cuna celeste al ritmo veloce del fuoco.
Dammi il fuoco dell’altra verità” (EI 81)
Tu hai capito sempre meglio che questo fuoco che rovescia la notte in giorno pieno lo accoglie negli occhi solo chi impara a invocare, a implorare, ad ascoltare fino in fondo, e cioè ad ob-audire, a piegarsi dinanzi a quel mistero che è tutto in noi e che chiamiamo Dio. Solo chi obbedisce vede. Solo chi vede canta. Solo chi canta pro-crea la nuova umanità.
“Incontro che non è qui.
Nottata. Canto. Verbo e vista.” (EI 84)
Poeta è chi sa vedere cantando, è chi sa mostrare ai fratelli affranti il loro vero volto, il nascituro, raccolto nella preghiera, soffiato in noi con la dolcezza e la semplicità del nostro respiro.
“Chi si prende cura di noi
in quel battito d’ali è il flusso divino ed il respiro.
In questo vuoto è compassione, in questa zona
fuori legge ci si può salvare”. (EI 20)
Dobbiamo ogni volta ritrovare questa zona franca per poetare l’uomo nascente.
Solo in questa povertà piena di umiltà riprendiamo infatti a respirare.
Solo in questa svuotatezza ventilata ci riprendiamo la nostra ora d’aria, e riscopriamo a poco a poco i nostri tratti umani così da tanto tempo deturpati.
E’ questo, Giovanna, che dobbiamo continuare ad annunciare e a vivere e a testimoniare?
E’ questo che vuoi da noi, dai poeti del tempo che viene, del tempo che già è, ma quasi nessuno vede?
Una grande speranza. In fondo è questo che ci hai lasciato come un’eredità da far fruttificare.
“E ovunque, ovunque speranza,
speranza, speranza!” (EI 24)
Possiamo continuare a sperare, ad avere fiducia, e ad amare nonostante tutto e fino alla fine dei nostri giorni, come hai fatto tu stessa d’altronde, che ci accoglievi tutti nella tua camera finale, e facevi del tuo morire un luogo di incontro e di amicizia.
Tu stai pregando in me, adesso, e mi ispiri queste parole più dolci delle mie.
Restiamo insieme, Giovanna, e aiutaci a scalare l’ultima salita, convincici con la tua preghiera che tutto è bene, che tutto finisce e inizia e vive ora nel grembo di un Bene in cui non finiamo mai di conoscerci tra di noi, e di imparare ad amarci.
Noi resteremo in ascolto, anche tramite te. Tu continua a cantare.
“diventa giorno diventa acqua la materia del tempo,
se afferro le cose è per la nascita, per la liberazione
degli esiliati” (SR 57)
Sigle utilizzate per i libri di Giovanna: D: Decisioni, Quaderni di Barbablù 1986. S: Sigillo, Crocetti 1989. SR: Uno stadio del respiro, Scheiwiller 1995. LE: La legge e l’estasi, I quaderni del Battello Ebbro 1999. EI: Epoca immobile, Jaca Book 2004.
Pubblicato nel volume monografico della Rivista Gradiva (International Journal of Italian Poetry), dedicato a G. Sicari, Number 26 Fall 2006, curato da Milo De Angelis e Luigi Fontanella.